Alcune vite sono più forti di altre, e allora non può essere solo un’intervista. La conversazione con Giulio Beranek parte da una storia e ne contiene altre cento. Ha radici lontane, nell’arte circense, ed esplode in un’epoca in cui le giostre arrivavano in paese ed erano tre giorni di festa per tutti. O quasi. Sotto cassa, cassa dritta, dal ranger pompavano gli 883, Corona, Robert Miles. Il battito del cuore cambiava. Giulio era un ragazzino diverso e pensava: che privilegio e che sfiga, la vita dei dritti. «Sono arrivati i giostrai e aumentano i furti», diceva la gente. Sentirsi poveri anche se giravano milioni di lire. Sentirsi invincibili mentre quel mondo stava per scoppiare. I Monti Condesnitt sono stati davvero I re del Luna Park (docuserie autobiografica in 4 episodi su una delle più famose famiglie pugliesi di giostrai, prodotta da Ballandi, ideata e scritta da Giulio Beranek e Marco Pellegrino, che ha curato anche la regia; è dal 30 novembre su Sky e NOW). Ma l’altra faccia della medaglia era nerissima.
Poi Marpiccolo e il cinema italiano che viene a salvarti come un miracolo. Giusto in tempo, perché quella è la fine: il figlio prediletto tradisce il padre, distrugge ogni cosa e niente sarà mai più come prima. La vita di “zio” Amilcare Monti Condesnitt si riduce a una condanna a trent’anni di carcere: traffico di stupefacenti, detenzione di armi da guerra, violazione delle norme sull’immigrazione, ricettazione. Quella di Giulio Beranek, invece, prende direzioni incredibili: Le mani dentro la città, Tutto può succedere, Manuel, Il cacciatore, Christian, Doppio passo, Gerri. Crescere giostraio e diventare attore. Il destino di uno che è imbonitore nel Dna, narratore sublime. Vorrei poteste ascoltarlo mentre parla, invece mettetevi comodi e godetevi la storia. Poi correte su Sky e guardate I re del Luna Park.
Quindi adesso la tua vita è su Sky.
Sì, e non so cosa aspettarmi. La gente che lo vede mi chiama abbastanza devastata, forse ora mi guarderanno con occhi diversi.
Era un po’ il segreto di Pulcinella, no?
Certo. Ma questa docuserie è il primo e il più grande atto d’amore artistico della mia vita. Ho iniziato la produzione nel 2014, mangiandomi tutti i soldi dell’IVA delle Mani dentro la città. Da buon giostraio, all’epoca avulso dalle dinamiche fiscali, ho pensato: “Ma quindi mi state pagando tot e mi dite che vi devo ridare indietro un tot?”. Me li sono spesi tutti nel documentario.
Non ti chiedo come è andata a finire.
Si chiama rottamazione.
Quando hai capito che la tua vita poteva essere una grande storia?
Dopo Marpiccolo, e dopo che era esploso anche Le mani dentro la città su Mediaset, ho pensato di avere una storia con una cifra cinematografica potente. La cosa più abbordabile da fare era un documentario, quindi con Emanuele Tammaro ho cominciato a produrre I dritti – Gente del viaggio, questo era il primo titolo. L’abbiamo scritta e abbiamo iniziato a girarla, poi ci siamo resi conto che 14mila euro non erano niente. A quel punto avevo un bel po’ di materiale e ho trovato subito un’altra produzione. Valeva la pena continuare.
Tu e Marco Pellegrino avevate già scritto a quattro mani il romanzo ispirato alla tua vita, Il figlio delle rane. Con I re del Luna Park lui ha fatto un lavoro enorme: è una serie, è un documentario, è un thriller psichedelico che ritrae una famiglia e un’epoca precise. Quando hai pensato a lui per il progetto?
Lui era nella mia vita da anni, faceva l’assistente di produzione per Le mani dentro la città e ci siamo riconosciuti subito nei nostri momenti di apnea, perché siamo due spaesati. Poi ho pensato a Marco perché credo sarà uno dei più bravi che avremo in Italia, una persona con un talento che mi piega le ginocchia. Lo guardavo e dicevo: “Ma come cazzo fai ad essere così bravo a suonare, a dipingere, a montare, a girare? Ce le hai tutte, te”. Mi ritrovavo sul set con personaggi molto più scarsi di lui e pensavo: perché uno così non gira? Sono contento se questa occasione gli permetterà di farsi vedere.
A un certo punto hai detto alla tua famiglia che volevi raccontare la vostra storia, senza omissioni. Come l’hanno presa?
Molto bene fin da subito, perché avevano una grande necessità di raccontarsi. Sono anche persone che si sono ispessite molto, facendo questo lavoro. Io sono stato abituato a vivere in mezzo alla strada, da soli in una roulotte con mia madre, non tutelati da nessuno, buttati in uno spiazzo, a doverci difendere perché magari la sera prima non avevamo dato i biglietti omaggio a qualcuno, abituati ad avere la finanza o i carabinieri in cassa, ma poi se venivano a darci fastidio o se c’era una rissa le forze dell’ordine non le vedevamo mai, dovevamo gestircela da soli.
È l’altra faccia della medaglia?
Esatto. Quando arrivavi in qualsiasi paesino del Barese, del Brindisino, del Leccese o del Tarantino c’era sempre una famiglia di malavitosi e di criminali che veniva a romperti il cazzo. In Sardegna, a Roma, nel Veneto i biglietti omaggio i colleghi non li conoscono. L’esercente dello spettacolo viaggiante è una spugna che assorbe il contesto nel quale esercita, e in Puglia il giostraio è diventato quella roba là. Mio zio è diventato quella roba là all’ennesima potenza.
Però quando arrivavano le giostre era festa.
Certo, appena monti è festa. Poi chiudi, smonti, te ne vai e lasci tutto come l’hai trovato. Io all’interno dei mestieri – così li chiamiamo noi – ho sempre visto lavoratori, gente umile, felice di arrivare con le attrazioni per i tre giorni di festa patronale, estremamente rispettosa del modo in cui entra nella casa degli altri, a differenza di quello che dicono: “So’ arrivati i giostrai e aumentano i furti”.
Quante volte te lo hanno detto?
Sempre. Manco arrivavamo e già erano aumentati i furti. Ci guardavamo tra di noi e ci dicevamo: “Oh, ma chi è andato a rubare se stiamo ancora parcheggiando?”.
Non mi aspettavo che la tua famiglia si raccontasse con tanta generosità.
Perché è gente che ha patito la fame. Perché è un mestiere di merda, dove magari investi per viaggiare, per montare, per pagare il suolo pubblico e poi il weekend di festa piove. Ogni esercente che fa spettacolo viaggiante è un imprenditore, ma molti non lo sanno. È un’azienda che costa e non hai nessun tipo di tutela.
Invece tra gli anni Settanta e i Novanta con i mestieri si facevano “soldi a palate”. Eri piccolo, cosa ricordi?
È stato un momento incredibile. Io sono dell’87 e ricordo che quando ero bimbo fare i giostrai era estremamente redditizio. C’era un’altra economia in Italia, ricordo la lira e i milioni che incassavano con le macchine da scontro e il tagadà.
È stata un’infanzia agiata?
No, agiata mai. Perché nel momento in cui torni in una casa di 8 metri per 2 con le pareti di 4 centimetri, se piove forte senti l’acqua che ti bagna, e ti senti anche estremamente povero e vulnerabile. Che ce l’hai a fare un milione in tasca, se quando si alza un po’ il vento voliamo tutti via?
È stata un’infanzia segnata dal pregiudizio?
Sempre. La mia storia inizia con una maestra che mi spoglia davanti ai miei compagni di classe e mi lascia in mutande e canottiera, perché non avevo il grembiule pulito. Avevo sette anni e mia madre mi aveva scritto una giustificazione, perché quando arrivavamo in un paese nuovo non avevamo subito l’acqua e la corrente.
Quante scuole e quanti amici hai cambiato?
Infiniti. Cambiavo cinque o sei scuole l’anno, e amici non facevo in tempo a farmene. Quando a 21 anni sono arrivato a Roma ero completamente anestetizzato dal punto di vista emotivo, perché ero abituato a non legarmi.
Però oggi sei padre di due figli. Questo era un valore imprescindibile per te?
Sì, tutti i miei valori arrivano da questo mondo. Quando parlo di persone umili parlo di mia nonna e mio nonno, settant’anni di matrimonio alle spalle. O di mia madre e mio padre, 36. È la famiglia intesa come palazzo, anche se poi la vita non è sempre quella che vivi in mezzo alle giostre. Lasciare il campino e trasferirmi a Roma mi è costato tantissimo, soprattutto in psicofarmaci. Però mi sono adattato, morendoci un po’ dentro.
Cosa ti sta più stretto dell’immobilità delle quattro mura?
Le mura. Io mentre parlo con te sono in carovana. Apro la porta e davanti c’ho gli alberi e il mare, tre scalini e sono fuori. Invece l’ascensore, il cemento, la strada… è tutto claustrofobico. Più la casa è grossa e più sento freddo.
Come presenti i Monti Condesnitt: “La famiglia delle giostre per eccellenza, chiunque in Puglia ci conosceva. Non è uguale a nessun’altra famiglia che io abbia mai conosciuto”. Questo è anche un privilegio?
Assolutamente. È sempre stato un privilegio quanto una sfiga, per riuscire a farsi un gruppo di amici, corteggiare la ragazza che ti piace, avere la stabilità per frequentare una scuola di calcio, avere una cameretta con la tua privacy che non è là fuori, dietro i camion dei mestieri, perché ti dovevi nascondere anche per guardare i giornaletti pornografici.
Ti sei mai sentito invincibile?
Forse mi sono sentito invincibile accanto a mio zio. Perché la parte nera di quella roba rischiava di farti sentire molto forte.
Quando hai capito che era davvero nera?
Nel momento in cui ho visto entrare certe cose nel nostro mondo ho capito che era la fine. Era un piano inclinato, era iniziata la discesa. Infatti quando Alessandro Di Robilant mi ha chiesto se volevo fare Marpiccolo, neanche gli ho fatto aprire bocca: “Sono già a Roma”. E non sono più tornato.
Sei scappato?
Sì, a gambe levate. A costo di avere gli attacchi di panico nell’ufficio della produzione dove dormivo. Poi mi svegliavo alle 7 di mattina, chiudevo il letto perché arrivavano gli amministratori, scendevo giù al baretto a lavorare e stavo sempre senza un euro, perché Marpiccolo ci mise 8 mesi ad uscire.
Chi ti ha aiutato?
Devo ringraziare Marco Donati e Giuseppe Bonito. Sapevano da dove venivo e mi dissero: “Non ci tornare. Aspetta qua, tu devi fare questo mestiere. Ti aiuto io, ti do da dormire, ti do da mangiare”. Io il cinema italiano l’ho conosciuto con queste persone, perciò oggi mi sento tradito dal cinema italiano. Perché Di Robilant ha guardato migliaia di ragazzi prima di me, però diceva: “Solo io so chi può essere il protagonista, e finché non lo trovo il film non parte”. Invece oggi mi ritrovo con registi che dicono: “Ho trovato il mio protagonista”, e produttori che rispondono: “Non va bene perché non è un nome”.
Dove ti avevano trovato?
A scuola, per caso. La mia professoressa gli disse: “Ho il ragazzo giusto per voi, ma sicuramente non si farà intervistare”. Invece mi fidai, perché riconoscevo le persone buone così come riconoscevo gli stronzi. E mi sono subito trovato a mio agio “a far finta di”, tanto lo facevo ogni volta che cambiavo paese.
Amilcare Monte Condesnitt, tuo zio. Condannato per traffico di stupefacenti, detenzione di armi da guerra, violazione delle norme per immigrazione e ricettazione. Il grande villain protagonista di questa serie. Come si affronta tutto questo? Cosa succede dentro una famiglia?
Succede che la spacchi. Esplode. Spacchi un uomo come mio nonno, che non ha preso una multa in novant’anni, che ha vissuto nel rispetto della legge e delle regole, che quando entrava nei Comuni per chiedere il permesso di montare le giostre gli stendevano i tappeti rossi, e all’improvviso si è sentito dire: “Signor Monti, magari le giostre quest’anno no”. In quel momento mio nonno muore. In quel momento il figlio uccide il padre.
Il figlio prediletto, l’unico maschio.
Quello che avrebbe dovuto semplicemente portare avanti tutto.
Il figlio uccide anche la tradizione, la categoria, il mestiere?
Tutto, spacca tutto. Lui è stato un buco nero. Per quanto io sappia che, senza di lui, in tante situazioni ci avrebbero bruciati vivi. Il problema è che quando sei una persona così forte poi non ti fermi. Poi dici: “Io non solo mi posso difendere da loro, ma posso diventare molto più forte di loro”.
Nella serie lo paragoni alla giostra del simulatore. Un’attrazione moderna di cui non ti fidi, “che quasi non ci dovrebbe stare nel parco”. Questo è risentimento?
Non abbiamo scritto una battuta, abbiamo girato a braccio dall’inizio alla fine. Tutta l’emozione che senti è vera. Il risentimento c’è, come la nostalgia. Non avrei mai barattato quello stile di vita comunitario, il parco e tutto quello che eravamo con quello che c’è stato dopo.
Nel documentario portate intercettazioni, ricostruzioni e materiali d’archivio. E poi c’è Amilcare Monti Condesnitt, che ha accettato di farsi intervistare. Perché?
Perché la persona che vedi nella serie aveva appena ricevuto una condanna a trent’anni. Aveva troppi rimorsi, troppi rimpianti. Soffriva il fatto che qualcuno potesse raccontare ai figli la sua storia in maniera diversa, e ha preferito farlo lui. È stato catartico.
È il ritratto di un leone in cattività?
È Carlito’s Way. Adesso, dopo 17 anni di detenzione, l’ho trovato finalmente rassegnato a dover scontare la sua pena. Ma nel documentario c’è un uomo che non riesce ad essere compatibile con la struttura carceraria. È il ritratto dello sconfitto, la dimostrazione di come il carcere poi ti distrugga. A un certo punto la giostra finisce e il criminale perde tutto.
Lo avete perdonato?
Io non ho molto da perdonare, e questo esce fuori anche nella serie. C’è stato un momento della mia vita in cui, per sopravvivere a Taranto e alla Puglia di quegli anni, per un po’ ho finto di essere un gangster. Per esigenza reale, non perché faccio il trapper e dico d’essere stato povero mentre prendevo 150 euro di paghetta a settimana. Mio zio mi ha mostrato che non ero un leone, che ero solo un leoncino. E se non ho pagato è grazie a lui, perché ho capito che non era roba per me.
Mentre Vlado e Ketty, i tuoi genitori, ti hanno mostrato cos’è l’amore.
Loro sono l’amore. Sono lui che borbotta e lei che lo provoca, ma alla fine stanno sempre insieme. È la storia di un uomo che decide di salutare la Jugoslavia e tutto quello che ha per seguire questa donna. E di una donna che decide di voltare le spalle a tutta la sua famiglia mettendosi con un contrasto, slavo e operaio. E se ne fregano di tutto.
Da figlio come si sopravvive a un amore così integro?
Lo si guarda con rispetto. Ti aiuta a sopravvivere. Ti dà speranza.
La musica di questa docuserie è la musica della tua vita. Qual è “la playlist dei dritti” nei tuoi ricordi?
Sentire Children di Robert Miles nel trailer Sky mi commuove. In Grecia c’erano Gigi D’Agostino, gli Eiffel 65, Gabry Ponte, Corona. Però, siccome noi avevamo nostalgia, ricordo che le casse pompavano fortissimo Hanno ucciso l’Uomo Ragno. Ad Atene il ranger girava con gli 883 sotto l’Acropoli. Poi nelle aperture pomeridiane c’era Mediterraneo di Mango e la sera ci andavi giù forte con The Rhythm of the Night, con Children, con tutto il Festivalbar che spaccava i bassi. Cassa dritta. La cosa bella era che dei giovanissimi Gabry Ponte o Gigi D’Agostino venivano nei Luna Park per suonare i loro pezzi, perché le giostre avevano le casse più potenti che potevi trovare. Io ero piccolino e ogni volta che passavo davanti alle casse del ranger mi cambiava il battito del cuore.
Presenti ogni figura della tua famiglia paragonandola a un’attrazione. Ma tu che giostra sei?
Io sono le rane, non posso essere un’altra giostra. Non mi sono mai sentito un ranger o un tagadà. Poi, se penso al mio stato emotivo da uomo, forse adesso sono una montagna russa.
Se non si è dritti senza viaggio, oggi come stai?
Ahia. Io credo di aver cambiato pelle in questi anni, di aver subìto una muta. Con tanta fatica, forse troppa fatica, alla fine ti abitui. Perché tanto quella roba lì non torna, non la puoi replicare, devi sopravvivere e lasciare andare. Ecco, il grande insegnamento di questa vita qua è stato proprio imparare a lasciare andare.