Nella luce che li incornicia in questa cover digitale Ciro Di Marzio e Gennaro Savastano sembrano due soldati rivali seicenteschi, dipinti da un caravaggista di scuola napoletana, che si ammutinano dai rispettivi eserciti e decidono di scappare insieme. Dietro le quinte questi due personaggi si chiamano, com’è noto, Marco D’Amore e Salvatore Esposito. Tra di loro preferiscono: Makketiè e Sasà. L’amore che li unisce è reale e tangibilissimo e va ben oltre il bacio simbolico che abbiamo voluto far loro inscenare.
Questo scatto non parla, infatti, solo della profondità e della scambievolezza del rapporto che si può instaurare, su un certo set, tra due attori e tra regista e attore, dall’arte verso la vita; ma anche e soprattutto di quanto, dalla vita verso l’arte, un’amicizia può incidere sull’opera finale, mutandone la natura e arricchendola di sfumature fino a promuovere l’esistenza, da semplice consulente d’immagine, a co-autrice di un copione inaspettato.
Gomorra, serie originale Sky prodotta da Cattleya, come tutte le produzioni lunghe e complesse che funzionano bene è anche la sceneggiatura dei legami umani e non solo professionali tra le persone che ci lavorano; soprattutto quando le differenze e le affinità tra i loro due personaggi principali, e quelli tre le persone che li interpretano, danno adito a un dualismo che valica i confini della fiction e che somiglia a quello tra i due emisferi del nostro cervello o a quello tra il visibile e il pensabile.
Il bacio che unisce oggi Marco D’Amore e Salvatore Esposito ci ricorda che quello che vediamo in scena, in Gomorra, sarà pure finto, ma anche che tutto quello che avviene subito prima e dopo una ripresa è profondamente vero. Manifesta la traccia biografica dietro ai due personaggi che, come gli attori che li impersonano, sono due forze opposte – il folle razionalismo di Ciro contro il sentimentalismo sanguinario di Gennaro, l’esperienza e il carisma di Marco e la naturalezza, l’intelligenza emotiva di Salvatore – impegnate in un’eterna lotta narrativa, ma anche in un ottimo sodalizio cinematografico. Nel day after del loro primo bacio anche fisico abbiamo chiesto a Marco D’Amore e Salvatore Esposito se c’è vita oltre Gomorra – Stagione finale, in onda dal 19 novembre su Sky e in streaming su NOW.
Le prime puntate dell’ultima stagione ci hanno confortato con la vostra ritrovata compresenza sullo schermo e la vostra conseguente, naturalissima alchimia.
Marco: Hai visto quanto è bravo Salvatore?
Salvatore: Non parliamo di cose già note (ride).
Infatti partiamo da una cover che setta il mood per l’intera stagione finale. Mentre vi vedevamo prepararvi allo scatto, l’impressione era che quel bacio potesse costituire un test non meno arduo rispetto a quello urinario imposto da Don Pietro a Ciro nella prima stagione: solo che quella era una prova iniziatica e questo è l’esame finale. Potremmo dire che con questo bacio si chiude un cerchio. Marco, è stato così sgradevole baciare Salvatore? E, Salvatore, è stato altrettanto piacevole baciare Marco?
M: Apprezzo questo principio di discernimento: baciare la bellezza implica una certa soddisfazione. E comunque ci tengo a sottolineare che la minzione di Don Pietro non era affatto male.
Come vi siete preparati fisicamente e moralmente allo shooting?
M: Io sinceramente non vedevo l’ora di baciarlo, anche perché sono otto anni che mi sta a un centimetro dal naso. Ho sempre sentito una certa sua predisposizione.
S: Quando ho saputo del bacio ho subito immaginato la prima reazione della gente: un “Ma che cazz…” lungo almeno cinque minuti a testa. Ma è un po’ quello che volevamo. Riflettendoci, in tutte le stagioni di Gomorra abbiamo raccontato il dolore, la rabbia, la paura, la tensione; ci siamo sparati, picchiati, strangolati. Ma presentando la stagione finale, mi sembra sia giusto raccontare anche l’amore che ha attraversato parallelamente sia Genny e Ciro che me e Marco. Non ci poteva essere chiusura più perfetta.
Quanto significato racchiuso in un bacio.
S: Certo il bacio può essere un simbolo ambiguo. Penso ai baci tra camorristi per trasmettersi la fedeltà…
I precedenti illustri, sia in un senso che nell’altro, sono tanti. Brezhnev e Honecker. Giuda e Cristo.
M: Michael e Fredo.
Un apostrofo color sangue tra le parole “ti ammazzo”.
M: Nel nostro bacio c’è anche un’altra componente in gioco, che risponde dell’atteggiamento che abbiamo avuto io e Salvatore mentre attraversavamo il progetto di Gomorra. Da una parte abbiamo sempre cercato di non esaltarci troppo, nonostante tutto ciò che ci accadeva intorno. Dall’altra siamo stati sempre un po’ irriverenti rispetto a quello che facevamo. E soprattutto, in un momento storico in cui è ancora molto rappresentato un certo tipo di machismo (cosa a cui anche noi abbiamo contribuito) e qualunque gesto legato alla diversità o alla delicatezza è sottoposto a una gogna mediatica di pregiudizio, può essere interessante che io e Salvatore facciamo una cosa del genere.
Se anche solo qualche anno fa, per esempio nella campagna Unhate di Oliviero Toscani, l’immagine di un bacio simbolico tra due uomini non omosessuali poteva costituire ancora una forma di provocazione, la vostra non lo è e parla d’altro. Somiglia semmai più a uno strappo pirandelliano nel cielo di Scampia, a una rottura della quarta parete dell’immensa cella che è il mondo di Gomorra.
M: Esatto, nessuna provocazione, ma solo dissacrazione.
Il vero tema della foto non è allora solo l’amore, ma anche un equilibrio tra caratteri e personalità differenti, e tra realtà e finzione.
S: In questa foto io e Marco abbiamo espresso quello che sarebbero stati Ciro e Genny in un’altra dimensione, se non fossero stati condannati ai loro ruoli, o se avessero avuto la forza di reagire al loro vissuto. Un personaggio come quello di Genny, del resto, mostra il suo barlume di umanità, spensieratezza e fragilità soprattutto con Ciro. Il resto del mondo vede in lui solo il mostro capace di uccidere a mani nude.
Tra le altre cose di cui siete maestri c’è anche una bromance epistolare tramite commenti su Instagram, per cui avete inventato un linguaggio tutto vostro e che appassiona da tempo una comunità di fan che si diverte a shipparvi come coppia di fatto.
M: I numeri che fanno quei post sono in effetti impressionanti.
S: Marco sa che su alcune cose io ho sempre ragione. E qui te lo metto per iscritto: quando pubblicheremo questa foto sui nostri profili la parola che andrà per la maggiore sarà “finalmente”.
Questo vostro divertissement è un controcanto che aiuta a vivere meglio la cupezza della serie.
M: Credo che nella miriade di parodie di Gomorra quella che abbiamo costruito sui social, in maniera quasi inconsapevole, sia una delle migliori risposte al peso che si dà alla discussione su Gomorra, alle critiche, alle controversie. Come diceva Carmelo Bene: si parla sempre e solo di cazzate. Il nostro dialogo su Instagram è un modo di esorcizzare tutto questo. Prendendoci per il culo da soli vogliamo dire: ci avete un po’ rotto il cazzo. Soprattutto a chi non conosce tutto quello che abbiamo passato mentre leggevamo prima i pareri dei detrattori, poi di quelli che sono saliti sul carro di Gomorra.
S: Abbiamo un approccio sui social più in linea con il panorama cinematografico internazionale. Guarda il profilo di Ryan Reynolds e come prende per il culo Hugh Jackman ogni volta che gli fa gli auguri per il compleanno.
Questo demitizzare in effetti può funzionare sia quando si è molto belli che quando si è molto cattivi…
S: Be’ certo non ci possiamo paragonare a questi attori bellissimi. Ho incontrato Hugh Jackman ed è una bestia…
M: Non è che hai baciato anche Hugh Jackman?
S: L’autoironia serve ad alleggerire un carico che a volte diventa insopportabile: avete rovinato l’immagine di Napoli, siete un cattivo esempio. Il problema è che, soprattutto all’inizio, in pochi si sono sforzati di capire davvero chi avevano davanti. Dopo la prima stagione di Gomorra, ti farà sorridere, ma in qualche intervista ci hanno fatto i complimenti perché parlavamo in italiano.
Ci ha sempre sorpreso che per Gomorra si scrivesse tanto del “rischio emulazione”, quando uno dei meriti della serie è mostrare in modo estremamente dettagliato e realistico, a colpi di nichilismo a mano armata, le conseguenze che una vita di crimine ha su chi la sceglie.
S: Te lo spiega Marco che rischio emulazione stiamo correndo.
M: Bisogna dirla tutta: la verità è che c’è un’emulazione e a volte proprio un’imitazione, e di questo dobbiamo assumerci la responsabilità. In questi anni in tanti hanno provato a emulare Gomorra, che ha creato un genere nel linguaggio della serialità.
Dietro le quinte un po’ vi dirigevate a vicenda, affiatatissimi; smaliziati ma sempre premurosi. Ci è sempre piaciuto come nel tutoraggio malavitoso che il personaggio di Ciro fa a Genny si potesse intravedere anche quello attoriale di Marco, con più anni ed esperienza, verso Salvatore.
M: Ci siamo sempre difesi.
Se non vi foste capiti così bene come persone nella vita, Gomorra sarebbe stata la stessa?
M: Mi piacerebbe che questo lo raccontasse Stefano Sollima, ma io non so in quante altre esperienze televisive o cinematografiche sia successo che la chimica tra due attori abbia così radicalmente cambiato il corso della scrittura. Il personaggio di Genny al termine della prima stagione sarebbe dovuto morire. Ciro avrebbe dovuto avere un avvicinamento a Donna Imma. Quando gli autori hanno notato la scintilla che scoccava tra di noi quando andavamo in scena si sono riuniti e hanno cambiato la storia.
C’è stato qualcuno sul set con cui avete avuto un rapporto simile?
M: Per Lino Musella, che interpreta ‘O Nano, ho una stima infinita. Lo conosco dai tempi della Paolo Grassi e credo che sia il migliore attore italiano della mia generazione. Ma con Salvatore è stato diverso.
S: Con tutto il cast abbiamo goduto di un rapporto splendido e abbiamo potuto fare un lavoro corale eccezionale.
M: Qui dobbiamo dire che Napoli ha molto aiutato essendo, forse non solo in Italia, la più grande fucina di bravi attrici e attori.
Fra cui voi.
M: Sì, ma c’è una nota dolente. Mentre molti altri colleghi di Gomorra riescono a spaziare in altri generi e situazioni, io e Salvatore subiamo un certo ostracismo e siamo siamo ancora etichettati come “quelli di Gomorra“.
S: In Italia!
M: Infatti Salvatore, che è un attore a tutto tondo, ha lavorato con Luc Besson, con i Coen. Però non ha fatto un progetto con un autore italiano.
Gomorra è uno dei prodotti culturali italiani contemporanei di maggiore successo nel mondo. Chissà che un giorno un archeologo non possa metterlo accanto al Giudizio universale di Michelangelo, solo che da voi vanno tutti all’inferno.
M: Mi viene in mente il De Crescenzo di Così parlò Bellavista: “Un muratore del 3000, trovando un’opera di Wesselmann, penserà che è un capolavoro o ‘nu cesso scassato?”
Come vivete il successo internazionale di Gomorra?
M: Il fatto che siamo riusciti ad esportare un certo linguaggio e a far parlare di noi in contesti in cui eravamo snobbati è la cosa che mi piace di più e che, sinceramente, sento ancora raccontare poco. Inoltre Gomorra ha restituito alla nostra città una capacità di essere appetibile per le produzioni di tutto il mondo, fino a diventare il primo set italiano.
S: Produttori, registi e attori americani con cui ho avuto la fortuna di parlare paragonano Gomorra a film come Il padrino o Scarface o a serie come I Soprano o The Wire. E sono orgoglioso di condividerlo. Quello che ha fatto la differenza secondo me è aver prodotto qualcosa che fosse rilevante non solo per il nostro Paese ma anche per il resto del mondo: la relazione tra Genny e Ciro, il rapporto di Genny coi genitori, sono dinamiche che possono essere traslate ovunque, dalla Casa Bianca fino alla Russia.
La stagione finale conferma una tendenza a un visionarismo più esplicito, cresciuta sul finire della quarta, che non è sempre stata una caratteristica delle prime annate. Gli episodi diretti da Marco sembrano aver contribuito molto a un superamento del realismo crudissimo cui Gomorra ci aveva abituato.
S: Ammazza, nel nono e nel decimo episodio della quarta Genny fa una strage.
Ma quando lo stesso Genny si chiude nel minuscolo rifugio da latitante, quel luogo è l’unica sua fonte di libertà, ma di fatto è una cella.
S: Il simbolismo prende piede in Gomorra in due momenti specifici: quando Genny parla dell’aeroporto e degli aerei non parla tanto di qualcosa di materiale, quanto dei suoi sogni di libertà; e quando guarda il mare e pensa sempre e solo a suo fratello Ciro. In quest’ultima stagione si parte proprio da questa sensibilità: è un unico grande treno.
Quali sono state le scelte più importanti del Marco regista?
M: Con grande rammarico, anche quando mi capita di rispondere a domande sull’Immortale, forse a causa dei temi che trattiamo, devo dire che spesso si parla poco di cinema. L’Immortale è un’eresia per la grammatica che impiega, che tradisce profondamente Gomorra. La serie era riconoscibile da tratti come la camera a spalla, l’assenza di flashback, un certo tipo di illuminazione. Con L’Immortale e i nuovi episodi abbiamo provato a trasportare Gomorra indietro nel tempo, a dare un senso poetico ad alcune vicende. L’ultima stagione, e lo dico assumendomene il rischio, per la densità concettuale che mette in campo non ha nulla a che vedere con gran parte delle altre. La stagione finale di Gomorra parte con un incubo.
Non sarebbe mai potuto succedere nella prima o nella seconda stagione.
M: Mai. Che significa il fatto che a un certo punto coesistano tre Genny? Perché il figlio di Don Pietro è assalito dai sogni, dai presagi e dai fantasmi? Siamo completamente da un’altra parte.
Gomorra sembra aver fatto, attraverso le stagioni, il percorso che fanno, nei secoli, i movimenti nella storia dell’arte: realismo e superamento di esso nell’espressionismo, per esempio.
M: Per me Gomorra è sempre stata potenzialmente espressionista. C’è un conflitto profondo da rappresentare e la fotografia l’ha intuìto da subito. Se ci fai caso i nostri personaggi sono sempre in ombra e gli ambienti sempre illuminati. Questo perché quello che ci circonda è la realtà e dentro di essa mettiamo i personaggi, e non persone prese dalla strada, come ad esempio fa Matteo Garrone nel suo potentissimo film, che è un’operazione diversissima dalla nostra. Quando mai i camorristi si parlano così (pone il viso a un centimetro da quello di Salvatore, nda)? Questo è un segno che è legato all’invenzione. Quando mai dei criminali si trovano in cima ai palazzi, con un freddo da neve, a parlare e parlare? Non potrebbero farlo dentro casa? È espressionismo puro, in conflitto con una realtà che non ha accantonato. Nei paesaggi di Gomorra non c’è nessun cielo di carta.
Salvatore, da attore, come ti sei trovato nella nuova dimensione dell’ultima stagione?
S: Ho avuto la fortuna di avere tra le mani un personaggio come Genny. La mia idea, subito dopo il grande trauma dell’Honduras, è stata una: fino alla fine dei suoi giorni, qualsiasi cosa lo spettatore si fosse atteso da Genny, sarebbe stata smentita. Se il pubblico avesse intuito il suo comportamento o i suoi sentimenti avrebbe voluto dire che stavo facendo male il mio lavoro. Partendo anche dalle cose più banali: con Marco ridevamo di una cosa che può sembrare poco ortodossa. Lavorando a una scena raramente ho letto le didascalie o i dialoghi degli altri, e non per una forma di…
M: Pigrizia.
S: O altro. Ma perché volevo che le mie reazioni fossero anche di Genny. Ho capito che se mi fossi lasciato sorprendere anche io dal contesto sarei stato un Genny più sorprendente e migliore.
Tra gli altri meriti di Gomorra c’è quello linguistico: ha sovrapposto le parole del cinema a quelle della strada.
M: Il merito qui va prima di tutto a Sky, ed è quello di aver accettato di produrre una serie in lingua originale. Quando mi dicono che non si capisce io rispondo che non si deve capire. È come se tu, non sapendo l’inglese, volessi vedere una serie americana. C’è un motivo antropologico nella scelta: il napoletano non è un dialetto, ma una lingua riconosciuta dall’Unesco, e una lingua della passione, che sgorga dall’istinto. L’italiano non corrisponde ancora oggi a un’unità nazionale: a Firenze ce n’è uno, a Roma un altro, a Milano un altro ancora. Quando si parla in italiano in un film o una serie tutto risulta più finto. Gli americani non recitano in americano: ci sono i texani, ci sono i newyorkesi. Il napoletano inoltre, trionfa nella canzone e la sua unità è espressa dalla musica: ecco perché la nostra è una lingua il cui diagramma fonetico è legato alle emozioni.
S: Sai cosa dovrebbe fare un bravo giornalista o un bravo scrittore, finita Gomorra? Scrivere un libro su tutte le cose che non ci siamo detti, soprattutto nell’ultima stagione. Perché a volte il valore dei silenzi è più importante del parlato. Nel secondo episodio c’è una scena che dura sette minuti in cui Genny e Ciro parlano e parlano, ma nessuna parola pesa come quelle che si dicono mentre stanno zitti.
Il fatto che il midquel dell’Immortale sia così diverso da Gomorra e così arditamente incastonato nel resto della narrazione un po’ ci fa sperare che la porta di Gomorra non sia del tutto chiusa.
M: Io sinceramente non lo spero. Come dicono i lombardi, ciurlare nel manico non porta a nulla di buono. Abbiamo esplorato tutto quello che potevamo esplorare. Abbiamo raccontato tutto quello che potevamo raccontare.
Una delle caratteristiche fondamentali dei vostri personaggi è non godersi la vita neanche per un centesimo di secondo. Ora che avete finito Gomorra, come vi godrete la vostra?
S: Ci guardiamo una partita del Napoli.
M: O ci andiamo a fare una bella scampagnata in un posto dove possiamo essere soli e tranquilli.
S: E pensiamo…
M: Magari cazzeggiamo.