È emblematico il fatto che Green Border sia uscito in Italia nella settimana di Sanremo, il giorno dopo uno dei momenti più imbarazzanti nella storia del servizio pubblico radiotelevisivo. È un segno dei tempi, la dimostrazione che delle miserie umane, quelle vere, tragiche, in fondo non frega niente a nessuno. Una ragione in più per cui i cinema che proiettano il film di Agnieszka Holland (circa 90 sale sul territorio, da nord a sud, la distribuzione è Movies Inspired) si dovrebbero riempire in ogni ordine di posti per riportare un equilibrio nella Forza. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso settembre, dove ha vinto il Premio speciale della giuria (riconoscimento che gli sta anche un po’ strettino), Green Border racconta un orrore vero e quotidiano, quello delle condizioni inumane con cui vengono trattati i rifugiati che cercano di entrare in Europa, necessario passaggio per poi raggiungere altri lidi, attraverso il confine che divide la Bielorussia e la Polonia.
Uomini, donne e bambini che vengono trattati come carne da macello, bloccati in una terra di nessuno, rimpallati dalle polizie di frontiera dei due Stati in un infinito scaricabarile. Un racconto a tratti insostenibile che Holland, regista polacca che ha iniziato la carriera come aiuto di Zanussi e Wajda, due monumenti del cinema nazionale, per poi girare film che hanno vinto premi nei festival di tutto il mondo per quarant’anni (è stata anche candidata all’Oscar per Europa Europa), a 75 anni gira un film dallo stile e dalla struttura modernissima, ma soprattutto politicamente devastante, una denuncia potentissima delle responsabilità dell’Europa nei confronti di una situazione che si aggrava drammaticamente giorno dopo giorno e che presto, molto presto, diventerà ingestibile e motivo scatenante di altri sanguinosi conflitti. Mentre noi ancora pensiamo al Ballo del qua qua di John Travolta.
Green Border è uno di quei film su cui si dovrebbe dibattere a lungo e seriamente, perché assolve una delle funzioni basilari dell’arte, non solo cinematografica, in generale, ovvero quello del gesto artistico come azione politica, un aspetto che sembra essere stato da tempo dimenticato in un mondo in cui il concetto di militanza è archiviato o, peggio ancora, travisato a uso e consumo di sterili polemiche tese nella maggior parte dei casi a distogliere l’attenzione dalle cose che contano davvero. Tutto questo in un momento in cui il mondo intero è una polveriera, e dopo appena un mese la presentazione di Green Border a Venezia è scoppiata la crisi, sanguinosa e orribile, tra Israele e Palestina, facendo diventare di ancora maggiore attualità i fatti raccontati nel film. Parlare a Venezia con Agnieszka Holland è stato un momento di confronto illuminante dal punto di vista politico, artistico e umano.
Signora Holland, pensare che cose come quelle che racconta in Green Border accadano nel 2023 sembra irreale. Eppure, è tutto tragicamente vero.
Credo che l’Europa abbia vissuto per sessanta, settant’anni con l’illusione che i concetti di libertà, fratellanza e uguaglianza fossero reali, e contemporaneamente c’è stato il vaccino dell’Olocausto e la promulgazione di leggi e la costituzione di organizzazioni, come la Comunità Europea, che in qualche modo avrebbero dovuto prevenire e scongiurare nuovi regimi totalitari e fascisti. Purtroppo l’effetto del vaccino è finito e siamo nuovamente scoperti e in balia di selvaggi crimini nei confronti dell’umanità. Sappiamo cosa è successo, sappiamo che potrebbe accadere di nuovo, ma abbiamo la possibilità di evitarlo, dando voce a chi non ce l’ha e, quando non è possibile, parlando in loro rappresentanza.
A proposito di Unione Europea, lei è molto critica nei confronti della politica ipocrita sulla questione relativa a migranti e rifugiati.
Perché non è una posizione politica, stanno solo chiudendo gli occhi, come l’Austria infilò la testa nella sabbia ai tempi dell’ascesa nazista. Quello di cui sono realmente preoccupati in questo momento è l’affermarsi di nuovi movimenti nazionalisti e populisti e dei partiti di destra ed estrema destra per cui i rifugiati sono una miccia, perché la gente ne ha paura ed è un problema serio, soprattutto dal 2014 in poi, dall’inizio della guerra in Siria. L’Unione pensa che tenendo la situazione sotto controllo anche l’altro problema lo possa essere, ma per risolvere il primo in realtà alimentano il secondo, pagando i dittatori di questi Stati per tenere fermi i rifugiati senza farli entrare in Europa, con la convinzione che i flussi si fermeranno perché le ondate successive saranno scoraggiate da questo blocco in entrata. Ma non è così, perché parliamo di persone che scappano a costo della vita per salvarsi, e saranno sempre di più a causa delle guerre, dei muri che abbiamo costruito, e anche per il cambiamento climatico che noi stessi abbiamo creato e alimentato. L’Unione di fatto non ha una reale politica nei confronti dei rifugiati, perché non ha pensato a una loro allocazione e a un loro corridoio di passaggio. Credo che semplicemente preferiscano l’ipocrisia al fascismo, anche perché finché una cosa non è esplicitata si può ancora aggiustare. Nel momento in cui diventa ufficiale, si è anche autorizzati a puntare le armi e sparare contro chi viene qui in cerca di una nuova vita.
Quanto di quello che racconta in Green Border è basato su storie realmente accadute?
Il 95%. I personaggi sono una fusione di tanti uomini e donne che hanno cercato di attraversare la frontiera, che hanno aiutato queste persone o che, al contrario, le hanno respinte. Ma i fatti sono tutti eventi realmente accaduti e documentati da testimonianze, reportage, video. Ma per essere sicuri di non stare distorcendo la realtà in alcuna maniera, abbiamo mostrato il film a molte delle persone che operano sulla frontiera, che io considero veri e propri eroi, e tutti hanno detto che quello che hanno visto era nient’altro che la realtà dei fatti, commuovendosi anche spesso nel corso della proiezione. Ci hanno anche detto che abbiamo colto perfettamente i sentimenti, da una parte e dell’altra. Nel complesso siamo tutti molto orgogliosi del lavoro che abbiamo fatto, davvero.
Non è la prima volta che nel suo cinema suggerisce che dobbiamo stare all’erta rispetto a tutto quello che ci succede intorno. La situazione tra Polonia e Bielorussia è esplosiva, anche se in modo diverso, quanto quella tra Russia e Ucraina, così come lo è quella di molti altri confini in giro per il mondo.
Credo siano tutte situazioni egualmente gravi ed è difficile dire dove accadrà quell’evento che scatenerà un conflitto globale, non avendo a disposizione oltretutto tutte le informazioni riservate di ognuno di questi scenari. Quello di cui sono convinta è che la situazione dei rifugiati è e sarà sempre di più una questione enorme con cui doversi confrontare. E sono anche convinta che quando si autorizza di gestire con l’uso delle armi un problema di questo genere, allora il passo successivo è il genocidio. E spero davvero di non dover vedere il giorno in cui il Mediterraneo si dovesse tingere di rosso, o il Medioriente bombardato, o usare il mitra al confine tra Polonia e Bielorussia.
Parliamo dello stile di Green Border e partiamo dall’utilizzo del bianco e nero, dando per scontato che tutti amano il bianco e nero.
Sì, quella era la ragione principale: i film che ho amato di più nella mia vita sono girati in bianco e nero. E con la mia giovane direttrice della fotografia abbiamo ritenuto che per questo film fosse la scelta più giusta, da una parte per lo stile quasi documentaristico del film, dall’altra perché permette di gestire i simbolismi del racconto più facilmente.
Lei ha lavorato anche per serie televisive di altissimo livello, su tutte The Wire, una delle vette più alte del genere di sempre. In qualche modo Green Border sembra avere quel tipo di struttura narrativa. È stato importante per lei imparare un nuovo tipo di linguaggio?
Sì, assolutamente, anche perché penso di averlo imparato negli anni d’oro di questo rinascimento televisivo, tra la fine del secolo scorso e la prima decade di questo, quando appunto sono state prodotte serie eccezionali come The Wire e alcune altre. E scelsi di farlo perché in quel momento il cinema era sbiadito, si stava perdendo il senso del racconto. Sono una donna anziana, ma penso di potere lavorare ancora un po’ e voglio farlo con una forma moderna. E non da sola: per Green Border ho chiamato delle giovani cineaste che hanno girato parti del film in contemporanea a me, e questa è una cosa che ho imparato proprio lavorando nelle serie, ovvero che ci si può nutrire del talento dei tuoi collaboratori, al contrario di quanto avviene nel cinema che è un ambiente in cui vige l’autorità del regista su tutto. Quindi credo che parte dell’energia di Green Border derivi da questo, ho operato come una sorta di showrunner, avevo tutto il quadro generale sotto controllo, ma ci sono state persone che hanno dato tanto per la realizzazione del film.