Matilda De Angelis come Kate Winslet in Eternal Sunshine of the Spotless Mind, il rapper neurodivergente che canta “il buco di culo della provincia”, le freddure tragicomiche in stile Fracchia e Fantozzi, Lundini e Özpetek nella giuria di un talent show, Maria Amelia Monti sull’orlo di una crisi di nervi e il ritorno di zia Ariella Reggio come ai tempi d’oro di Tutti pazzi per amore. Sullo sfondo si consumano le gag migliori (qualcuno suona un “timbuto”, qualcun altro si chiede che fine abbia fatto Marina Giordano di Un posto al sole) mentre in prima linea ci si commuove senza retorica, con Ci vuole orecchio di Jannacci e Stavo pensando a te di Fibra, rigorosamente voluta da Greta Scarano «perché Fibra m’è sempre piaciuto».
In questo esordio ci ha messo molto di quello che le piace e che la rappresenta, a partire dalla sua ironia (che non fa ridere nessuno, dice lei, eppure qui si ride parecchio) e dal suo senso di colpa: «Non è solo la Palestina, ma anche il quotidiano. Da ragazzina ero convinta di poter aiutare chiunque e questo mi ha generato molta sofferenza, tanto da farmi dire: il mondo fa schifo e va a rotoli. So di essere fortunata, ma forse chi è meno consapevole è più felice». Non a caso il coraggio di debuttare alla regia (dopo il primo cortometraggio premiato ai Nastri, Feliz Navidad) è arrivato con la vera storia dei fratelli Damiano e Margherita Tercon, a cui si ispira La vita da grandi (prodotto da Groenlandia, Halong e Rai Cinema in collaborazione con Netflix e al cinema dal 3 aprile). I Tercon raccontati nell’autobiografia Mia sorella mi rompe le balle – Una storia di autismo normale diventano nel suo film i fratelli Nanni, con Matilda De Angelis nei panni di Irene e Yuri Tuci in quelli di Omar, ipnotico al suo debutto sullo schermo. Insieme trovano un’autenticità rara, che fa bene al film e che si emancipa dal film stesso.
Irene ha trent’anni e torna qualche giorno a Rimini per prendersi cura di Omar, che ne ha quaranta. È necessario che impari a farlo “per dopo”, le ricorda sua madre, cioè per quando i genitori non ci saranno più e lei diventerà la caregiver del fratello. Nell’autismo di lui c’è l’invisibilità di lei, e nell’indipendenza di lei c’è quello che lui sogna di più: essere un cantante famoso, sposarsi e mettere su famiglia – possibilmente con una donna tatuata, che sappia suonare la chitarra e che ami il rap e l’hip hop. Invece dentro quelle due parole, “per dopo”, c’è la prospettiva dei siblings, fratelli e sorelle di persone con disabilità che raramente vengono raccontati quando si affronta il tema. In psicologia li chiamano “bambini di vetro”: figli trapassati dallo sguardo dei genitori, che crescono cercando di non disturbare, in disparte e in silenzio, perché le attenzioni sono tutte sull’altro. È comprensibile, ma lascia ferite profonde. Omar e Irene si ritrovano a specchiarsi in questa realtà, a chiedersi che significa essere adulti e come esserlo insieme. E alla fine del viaggio Scarano neanche ce la mostrerà, questa loro Vita da grandi, perché per lei il punto era un altro: «Che loro due, entrambi, si rendessero conto che forse insieme sono meglio». E che, come direbbe Omar, per un adulto è meglio essere felice che farsi la doccia.
Era da tempo che volevi esordire con un film tuo. Perché questa storia ha vinto sulle altre?
Mi sembrava giusta, emozionante, ma anche divertente. C’era tutta una serie di caratteristiche che di solito vado a cercare nei film che mi piacciono, e questo mi ha fatto prendere coraggio e andare avanti. Avevo trovato tante storie, ma non avevo mai pensato di essere in grado di raccontarle. Invece questa l’ho sentita adatta a me, anche se io non ho mai avuto a che fare con la disabilità. È per il modo in cui Damiano racconta la sua condizione di persona autistica, le difficoltà che ha vissuto, il suo sguardo sul mondo, la sua voglia di continuare a sognare di potersi realizzare. E poi c’è l’altro punto di vista, quello che più di tutti ho trovato interessante e poco esplorato: non si parla mai dei fratelli e delle sorelle di persone con disabilità. Loro crescono con l’idea di dover dare fastidio il meno possibile, quasi come soldatini che mettono da parte le proprie aspirazioni perché i genitori sono impegnati a prendersi cura dell’elemento problematico della famiglia, giustamente.
Devi imparare a prenderti cura di tuo fratello “per dopo”, dice la madre ad Irene.
Il “dopo di noi” è il cruccio più ingombrante che si portano dietro i genitori ma anche i fratelli e le sorelle, per nascita e per investitura. Nella maggior parte dei casi si cresce con quella consapevolezza, e quindi con l’idea di sistemarsi per essere pronti ad accogliere questa vita da accudire. Ogni caso è a sé, ma sono comunque delle tematiche universali, perché anche se le affrontiamo in maniera diversa, molti di noi un giorno dovranno prendersi cura dei genitori, di un parente, di un partner.
La storia di Damiano e Margherita Tercon come è arrivata nella tua vita?
Guardando i provini di Italia’s Got Talent. Li ho visti, mi hanno colpito, ho scoperto che avevano scritto un libro, l’ho comprato e mi ha folgorata. È un viaggio nelle loro vite, nelle loro menti, nel loro modo di pensare, e ho capito che poteva esserci un film dietro alla loro storia.
Hai cercato moltissimo l’attore giusto. Perché proprio Yuri Tuci per interpretare Omar?
Abbiamo fatto tanti provini sia ad attori neurotipici che neurodivergenti. Per me era fondamentale che fosse un attore, non me la sarei mai sentita di affidare il ruolo di protagonista ad uno che non aveva mai fatto l’attore. Yuri non lo fa a livello industriale, ma lo fa a teatro da tanto tempo e porta questo monologo autobiografico molto potente, Out Is Me, che ho trovato casualmente su YouTube e ho pensato fosse geniale. Ha una faccia che non avevo mai visto, un grandissimo carisma, la presenza scenica di un istrione. E della sua condizione ha fatto un’arma, nonostante abbia sofferto.
Cosa ti ha colpita di più?
Grazie al cielo è cresciuto in una famiglia che è riuscita a dargli degli strumenti. Vive una vita molto tranquilla e protetta a Prato, dove tutti lo conoscono, e ha un lavoro di inserimento sociale all’interno di una scuola. Però il suo sogno rimane quello di fare l’attore, e negli anni ha affinato un grandissimo talento a teatro. Lui è completamente consapevole delle sue doti, pensa di essere bravo e lo dice, ha una grandissima sicurezza che manca a molte persone. E soprattutto non ha paura del giudizio altrui, rivendica il suo essere una persona unica.
Perché proprio Matilda De Angelis, a parte l’ovvio?
Matilda era nei nostri pensieri già da quando scrivevamo, nei miei e in quelli delle mie due co-sceneggiatrici Sofia Assirelli e Tieta Madia. Lei è bolognese e il film è ambientato a Rimini, in più sapevo che sarebbe stata capace di assumersi la responsabilità di essere un riferimento per l’altro protagonista. Essendo come me un’attrice un po’ rock and roll, sapevo che si sarebbe caricata il film sulle spalle. È successo sul set in maniera magica, e la loro alchimia ha fatto scattare un processo fondamentale per Matilda: non ha avuto mai il tempo di pensare a sé stessa o di guardarsi troppo, e questo è un grandissimo vantaggio per un attore. L’inconsapevolezza di sé.
Matilda in stile Eternal Sunshine of the Spotless Mind, una palette sui toni pastello, una fotografia desaturata, gli interni vintage… possiamo dire che questo è il tuo gusto da regista?
C’è tantissimo del mio gusto personale in questo film, ci sono tutte le cose che mi piacciono. Ma c’è anche tanto del gusto dei miei collaboratori. Abbiamo lavorato su un binario dell’estetica e della messa in scena molto definito, lo avevo studiato a lungo con il direttore della fotografia Valerio Azzali, la costumista Grazia Materia, lo scenografo Andrea Castorina. Eternal Sunshine of the Spotless Mind ovviamente era una delle reference per i colori. I miei produttori, Matteo Rovere e Margherita Murolo, hanno fatto in modo che la mia visione venisse rispettata e perfino esaltata.

Greta Scarano sul set. Foto: Francesca Fago
Sei riuscita ad essere la regista che volevi essere?
Sono riuscita ad avere un clima stupendo sul set, a divertirci tantissimo, a far sentire tutti liberi di contribuire. Pensa che la scena della vecchietta che attraversa la strada è un’idea del mio aiuto regista: lui lo ha proposto scherzando ma io l’ho preso sul serio, essendo una grande esegeta della cultura fantozziana. Tante battute sono di Matilda.
Con Matilda avete trovato la cifra comica del film, nelle sporcature e negli atteggiamenti, con certe battute che sembrano quasi degli off record. L’impressione è che vi siate regalate una libertà reciproca, che tu abbia ragionato anche da attrice e che vi unisca lo stesso sarcasmo.
Forse hai sentito quella libertà perché ho fatto quello che da attrice vorrei trovare sempre sul set: mi piace molto quando arrivo e il regista o la regista hanno già stabilito come sarà la scena, dove sarò io e quali movimenti fare. Mi sento più tranquilla quando succede, posso essere libera di interpretare un ruolo ed entrare nella visione organica di qualcun altro, che porterà a un risultato coerente. Con Matilda siamo ironiche in modo molto simile, è vero. Lei dice sempre che con le persone è più semplice trovarsi sulle cose che fanno piangere, ma è difficile trovarsi su quelle che fanno ridere. Perciò quando ti trovi a ridere per le stesse cose è un sintomo di grande affinità. Certe volte io faccio delle battute e non ride proprio nessuno, mio marito mi guarda come a dire “mah”…
Tuo marito che dice del film?
È un grande fan del film. La cosa più bella che ha fatto per me è stata non invadere questo spazio, cosa che poteva capitare. Invece mi ha detto: “Non lasciarti condizionare, fai tutto quello che ti senti di fare”. Questo per me è stato molto importante, mi ha dato molta sicurezza.
Irene ripete che “Omar non è più un bambino” e quasi deve convincersene, perché la sua libertà dipenderà anche dalla libertà del fratello.
Ci serviva raccontare un tipo di rapporto che abbiamo visto accadere. Genitori che per paura che i figli con delle condizioni di neurodivergenza, o anche delle condizioni più gravi, possano poi soffrire. Anche Damiano ha tentato di suicidarsi, come raccontiamo nel film, ma la sua famiglia è stata meno iperprotettiva di quella di Omar. Irene non vuole che lo trattino come un bambino, ma neanche si aspetta che lui sia così trasgressivo o che non voglia assolutamente andare a vivere con lei. Questa dialettica andava realizzata in maniera squisitamente drammaturgica.
Omar si chiede come sarebbe stato vivere da non autistico, “fare l’esperienza di una persona comune dalla nascita alla morte”. È un momento bellissimo del film.
Quel monologo di Omar è interamente estrapolato dal libro, è uno di quei passaggi che mi hanno fatto percepire la forza della loro storia. Tu stai sentendo una persona neurodivergente che riesce ad essere così analitica e oggettiva da trasmetterti quel pensiero lì… ed è un pensiero che sinceramente io non avevo mai fatto prima. Le parole di Damiano nel suo libro sono state il nostro vocabolario, la nostra Bibbia.
Nella vita o siamo consapevoli o siamo felici. È così anche per te?
Questa è una cosa che mi sono sempre chiesta. Mi ritengo una persona positiva e ottimista, ma mi rendo conto di soffrire tantissimo. Mia mamma è un’infermiera, mio padre è un medico, siamo state cresciute proiettate verso il prossimo. Io mi sono sempre caricata tutti i mali del mondo sulle spalle, e oggi il privilegio di essere nella posizione in cui mi trovo, nella nazione in cui vivo, è qualcosa per cui mi sento in colpa. Un po’ come una sibling.
Della casa racconti i tic e i rumori, e poi le tensioni della famiglia, l’ironia che mette a tacere il risentimento, l’equilibrio tra umori molto diversi. Che elementi hai usato della tua “normale famiglia disfunzionale” per comprendere questa famiglia qui?
Io e mia sorella siamo cresciute molto con i nostri nonni, in una normale famiglia disfunzionale, appunto. La famiglia paterna di mia mamma è popolare, non certo altolocata, e quando torni lì sei perfettamente integrata pur essendo un’aliena. È un sentimento contrastante. Io non ero una che si voleva sistemare come Irene, ero una che inseguiva il sogno, eppure sono sempre stata molto rispettata da loro. Però capisco la vibe di Irene, quando torna lì ed è l’unica vestita in maniera decente mentre loro stanno tutti in pigiama. Come quando ero già un’attrice affermata e tornavo nelle quattro mura della casa di mia nonna. La mia co-sceneggiatrice Sofia Assirelli è andata via prestissimo da questo piccolo paese dell’Emilia-Romagna, e qui c’è anche il tema di tornare dove le cose sono rimaste come un tempo. Lei è quella di vent’anni prima ma è anche quella di vent’anni dopo.

Greta Scarano con Matilda De Angelis. Foto: Camilla Cattabriga
Tutta la verità su Stavo pensando a te di Fibra e Ci vuole orecchio di Jannacci…
Abbiamo provato a far cantare a Yuri qualcosa di più melodico, ma lui mi ha mandato un video in cui cantava al karaoke Lose Yourself di Eminem, perché Yuri va tutte le settimane al karaoke. Allora ho capito che forse dovevamo fare una roba rap, e Fabri Fibra m’è sempre piaciuto. Invece Jannacci è stato un colpo di fortuna, ho cercato tantissimo una canzone che parlasse del loro rapporto e non riuscivo a venirne a capo. Una sera ho visto un documentario bellissimo su Jannacci e mi sono resa conto che era proprio il cantautore di quelli strani. E che univa le due anime dei fratelli.
Sentivi solo il bisogno di girare un film o vuoi andare avanti con la regia?
Io vorrei fare altri film, spero che questo film sia un inizio. Sono sempre stata alla ricerca di qualcosa da dire, e da regista l’esperienza è più completa. Continuerò anche a fare l’attrice, ho girato il film di Gianni De Gregorio, sono pazza del suo immaginario e questo è un ruolo bellissimo. Dove mi capiterà di fare cose belle da attrice, continuerò a farle.
Finalmente la domanda più cretina: anche tu come Irene hai una scompisciata barzelletta?
È quella del film! Il mio piccolo cavallo di battaglia. Infatti quando le persone la leggevano facevano tutti la stessa faccia, “mah”… Invece secondo me fa ridere, e poi il punto non è questo. Il punto è che lei deve trovare il coraggio di dirla.