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Hey James Franco, hai scoperto che succede a chi viene a Napoli

Dopo anni di stop a causa di un processo per molestie, l’attore riparte dell’Italia con ‘Hey Joe’, il nuovo film di Claudio Giovannesi. Una storia di seconde occasioni, ambientata nei Quartieri Spagnoli, che rappresenta una nuova possibilità anche per lui

Foto: Vision Distribution

«Ti avverto dall’inizio: io sono cresciuto a Sant’Anna di Palazzo, Quartieri Spagnoli, Napoli». Tanto valeva dire subito con chi avesse a che fare James Franco, protagonista di Hey Joe, nuovo film di Claudio Giovannesi (nelle sale dal 28 novembre), uno dei migliori registi italiani, anche se molti sembrano ogni tanto dimenticarselo. Sarà perché non ha mai avuto la ribalta veneziana, non è dato sapere se perché poco amato dalla direzione artistica o per oculata scelta da parte dello stesso Giovannesi, che ha comunque frequentato la Quinzaine des réalisateurs di Cannes con Fiore, film bellissimo, e la Berlinale con La paranza dei bambini, opera di grande potenza tratta dal romanzo omonimo di Roberto Saviano. Sarebbe opportuno recuperare anche i suoi primi lavori, La casa sulle nuvole e Alì ha gli occhi azzurri, per ricomporre un percorso d’autore in cui Hey Joe si inserisce con grande coerenza. Giovannesi è un cantore delle seconde occasioni, ma anche consapevole dell’ineluttabilità del destino nelle dinamiche sociali del mondo contemporaneo. Le sue storie le racconta con un realismo preciso e leggero, anche questa volta, qui aiutato da un James Franco in ottima forma, artisticamente parlando.

Attore, e anche regista, dalla carriera anarchica James, passato dalle commedie demenziali con Seth Rogen a veicoli per farlo diventare un sex symbol per ragazzine («Tristano & Isotta, perché me lo hai ricordato…»), anche se quello che preferiamo è il rapinatore amante della musica che reinterpreta con grande trasporto Everytime di Britney Spears con al suo fianco le giovani sexy componenti della banda di Spring Breakers di Harmony Korine. Da regista si è sempre cimentato in opere molto personali, spesso tratte da romanzi che raccontano un’America dura, come quella di John Fante e Cormac McCarthy. Ma le soddisfazioni maggiori gliele ha date una commedia, The Disaster Artist, con cui vinse il Golden Globe come miglior attore e fu candidato all’Oscar per la sceneggiatura.

Franco è reduce da un periodo difficile: ha affrontato un processo per molestie sessuali, di cui si è dichiarato colpevole raggiungendo un accordo con le vittime, studentesse della sua scuola di recitazione oggi chiusa. Un’esperienza che ha dichiarato avergli insegnato molto e di averlo cambiato in meglio. Un po’ come i Quartieri Spagnoli, che ha sentito essere pervasi da «un senso di perennità. Abbiamo trascorso circa tre mesi a Napoli e abbiamo girato la maggior parte del tempo nei Quartieri. Sai, sono un attore, ho avuto molte esperienze nella vita, ma in quel luogo sono stati tutti gentili con me, mi invitavano a mangiare la pasta a casa loro, a prendere un caffè. Da americano la cosa più pazzesca sono stati gli scooter. Non riesco ancora a credere come guidino, la Vespa per loro è come una bicicletta, sin da bambini sono cresciuti in sella. È una cosa insolita, ma a parte questo è stata un’esperienza fantastica».

Credo come regista tu abbia molte cose in comune con Claudio Giovannesi, in particolare l’approccio stilistico e la sensibilità nel racconto. Credo sia stato importante per entrambi durante le riprese del film per creare la giusta intesa.
Avevo visto solo un suo film prima, La paranza dei bambini, e mi era piaciuto molto. Naturalmente sono un fan di Gomorra di Matteo Garrone, tratto sempre da un libro di Roberto Saviano. Ero predisposto a questo tipo di approccio che chiamo neo- neorealismo italiano, per il modo in cui usano la macchina da presa, per le storie che si raccontano e l’uso di attori non professionisti. Quando ho iniziato a lavorare con Claudio, quindi, già lo ammiravo ed ero entusiasta di adottare questo approccio. Quando abbiamo presentato il film alla Festa di Roma, poche settimane fa, il Cinema Troisi mi ha dedicato un piccolo omaggio, ha proiettato un film che avevo diretto quindici anni fa, Child of God, basato su un romanzo di Cormac McCarthy, preceduto da un cortometraggio che avevo girato quando ero alla NYU dal titolo Herbert White, interpretato da Michael Shannon. Sono entrambi girati in stile cinema-vérité, con molta camera a mano. È venuto anche Claudio, li abbiamo guardati insieme e li ha adorati. Hai ragione: abbiamo approcci e sensibilità simili nella nostra visione del cinema.

James Franco con Francesco Di Napoli. Foto: Greta De Lazzaris/Vision Distribution

Ricordo i tuoi primi film, anche per questo quando ho visto le prime immagini di Hey Joe ho capito che eri perfetto per il ruolo di Dean. Un personaggio interessante, un uomo distrutto da tre guerre e un matrimonio fallito che scopre che potrebbe esserci una seconda possibilità nella sua vita.
Sei bravo a fare i compiti, quindi ti darò una risposta da attore onesto. Dean era di stanza in Italia durante la Seconda guerra mondiale, cosa di cui non posso naturalmente sapere nulla. 25 anni dopo, nel 1970, torna a Napoli per trovare il figlio che non ha mai conosciuto. E io, James, non ho un figlio, non so cosa significhi essere padre, come Dean. Come attore, mi serviva conoscere l’Italia durante la Seconda guerra mondiale. Claudio e io abbiamo fatto delle proiezioni a casa dello sceneggiatore Maurizio Braucci, a Napoli. In particolare ci siamo concentrati su Paisà di Roberto Rossellini, era un riferimento perfetto, per me soprattutto per l’episodio che vede protagonista un soldato americano, ma anche per lo stile neorealista che ha influenzato in modo significativo anche Hey Joe. Poi ho letto Napoli ’44, un libro di memorie scritto da un soldato britannico di stanza a Napoli durante la guerra, una rappresentazione molto cruda di come la gente viveva in quel periodo. Quindi avevo questo impianto di base, e poi c’è Dean. Negli anni Settanta lo troviamo sul lastrico, non ha nulla nella vita, ha divorziato, è un alcolizzato, ha toccato il fondo, e poi riceve questo telegramma: la donna che ha conosciuto durante la guerra è morta, ma ora sa di avere un figlio. E così decide che forse la vita può avere un senso. Il processo si è completato imparando anche un po’ di italiano. A quel punto ero diventato Dean.

Sono passati quarant’anni da quando un grande Jack Lemmon vestì i panni anch’egli di un ex soldato americano che tornava a Napoli dopo molti anni. Il film era Maccheroni di Ettore Scola. Mentre guardavo Hey Joe mi sono chiesto se Giovannesi ne avesse parlato con James. «No, non conosco questo film. Conosco Ettore Scola, ovviamente, e adoro Jack Lemmon, ma non l’ho mai visto. Me lo segno, lo voglio recuperare».

Una scena di ‘Hey Joe’. Foto: Greta De Lazzaris/Vision Distribution

Prima hai citato Gomorra, ma per me Hey Joe ha qualcosa che ricorda il primo Martin Scorsese: è una storia padre e figlio all’interno di una dinamica da gangster movie, perché c’è anche una forte contaminazione di genere. Hai avuto questa sensazione leggendo la sceneggiatura e poi durante le riprese?
Mi piace parlare con te, viaggiamo in un sacco di posti. Se penso al primo Scorsese, i due film che mi vengono in mente sono Alice non abita più qui, proprio per il rapporto genitore-figlio, e poi Mean Streets. Avevo lavorato con Robert Altman anni fa, quando è morto sono andato a una commemorazione in suo onore. C’era anche Martin Scorsese, che raccontò che quando proiettò Mean Streets ad Altman lui gli disse: “Dovevi usare dei dolly”. E Scorsese rispose: “Sì, se potessi permettermelo lo farei”. Mean Streets era un film indipendente, di genere, e Claudio non usa i dolly. Direi che torna tutto.

Prima di salutarci, James vuole raccontarmi un’ultima cosa. «Matteo Garrone è venuto alla prima di Hey Joe alla Festa di Roma, e alla fine della proiezione è venuto da me e Claudio e ci ha detto: “Il film mi è piaciuto molto, ma complimenti soprattutto perché avete fatto un film su Napoli e avete evitato i cliché, senza le solite riprese da cartolina della città”». Se qualcuno ci legge un velato riferimento a un recente film girato da un regista italiano che, al contrario di Garrone, ha già vinto un Oscar, ne ha ovviamente tutto il diritto. Ma il regista di Io capitano non si è limitato a questo. «Gli è anche piaciuto il modo in cui è raccontato il sottobosco della malavita, radicato ma sullo sfondo, preferendo incentrare la storia sul rapporto tra padre e figlio. “È un film che ha così tanto Dna di Napoli”, ci ha detto. Ti sembrerà una roba da fanatico, ma diventerà uno dei miei aneddoti preferiti, ne sono molto orgoglioso».

È risaputo che chi viene a Napoli piange due volte: quando arriva e quando deve partire. Hey James Franco, adesso lo sai anche tu.

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