Mercoledì scorso un insolito Emmanuel Carrère nelle vesti di regista, ma col consueto fascino, ha aperto a Roma la dodicesima edizione di Rendez-Vous, il Festival del nuovo cinema francese, al cinema Sacher di Roma. L’occasione era la prima italiana del suo terzo film: Tra due mondi, nelle sale dal 7 aprile. In un’intervista del 2017, Carrère diceva: «Per me non è così difficile scrivere di me, perché di me posso scrivere quello che voglio. È scrivere degli altri che è un problema, perché non hai in diritto di infliggere agli altri la stessa sincerità che puoi autoinfliggerti». Col cinema le difficoltà aumentano, in particolare per quegli scrittori che ammantano ogni dettaglio del loro lavoro di una forte, intrigante individualità; e si ritrovano a fare quello che possono nel compito di dirigere non già la propria penna, ma moltitudini di personalità.
Tra due mondi è tratto dal libro d’inchiesta Le quai de Ouistreham della giornalista Florence Aubenas (in Italia uscito anni fa come La scatola rossa), frutto del periodo di sei mesi (di poco più lungo di quello della sua prigionia irachena, nel 2005) trascorso dall’autrice sgobbando, sotto copertura, accanto alle lavoratrici precarie di alcune imprese di pulizia francesi. Ne è protagonista la scrittrice immaginaria Marianne Winckler, il cui volto, non potendo Carrère prestarvi il suo stesso, è quello di Juliette Binoche.
Pur in assenza di Binoche, la serata al Sacher parte col piglio giusto grazie a un’altra opportunità di manifestazione della competitività carreriana: la foto di Emmanuel e Nanni Moretti a braccetto, di fatto il coronamento dei sogni erotici di ogni sapiosessuale che si rispetti. Ecco la rara apoteosi di coppia di due autonarratori di fama mondiale, separati da tanto ma uniti, per una volta, proprio dai rispettivi egocentrismi: sempre autoriferiti nel raccontare gli altri e universali nel mostrare sé stessi. Nanni, nel feudo del suo Sacher, fissava l’obiettivo quasi incredulo per ciò che si stava per verificare; mentre però, con mente saldissima, comandava ai fili di cashmere del suo maglione di ghermire la giacca destrutturata dell’altro. Carrère, dal canto suo, era fiero di come la sua camicia jeans stesse rispedendo al mittente le avances dell’altrui filato, ma non quelle della lente del fotografo. Ciascuno pane per i denti dell’altro.
Tornando a Tra due mondi, lo scopo di libro e film è rendere visibile la durezza delle condizioni di vita di chi lavora, nell’oscurità, per 7,69 euro netti all’ora, perché la sporcizia che il resto del mondo produce di giorno possa scomparire, giunta l’alba, insieme a loro. Un traghetto tra Caen e Portsmouth è sia la location più importante che la metafora centrale del film. Ogni notte, prima che l’imbarcazione salpi, le donne che la igienizzano, espletata la loro funzione, ne discendono, salvaguardando la loro invisibilità rispetto ai passeggeri e all’equipaggio. Il che avviene con estrema regolarità, salvo quando un problema logistico mette in crisi i rapporti, sempre più instabili, tra Marianne e le sue compagne, interpretate da attrici non professioniste; donne realmente impiegate, fuori dal set, nel settore delle pulizie.
Nel libro di Aubenas l’autrice scompare di fatto ed emergono, nella sostanza narrativa, i fatti e le storie degli oggetti inconsapevoli del suo interesse giornalistico e socio-culturale. Il film, invece, è offuscato da un problema meta-cinematografico che, nelle premesse, sembrava interessante e originale ma che, nella messa in scena, ne ha costituito di fatto il peccato originale. Binoche, beninteso, è straordinaria nei panni di Marianne. A tratti sembra la versione cinematografica della maestria tipica proprio di Carrère: sublimare la propria personalità nell’autobiografismo fittizio, quasi come se volesse ingaggiare il regista in una bizzarra rivalità sul suo stesso terreno. L’attrice ha affrontato un tour de force – anche lookologico – con dedizione e mimetismo degni del Benedict Cumberbatch cowboy americano nel Potere del cane (sebbene non sia dato sapere se non con la stessa verosimiglianza olfattiva). È evidente che questo è un ruolo a cui teneva moltissimo. Ma forse è proprio qui il punto.
«Ho proposto subito che gran parte del cast fosse composta da attori non professionisti, con l’eccezione di Binoche. Proprio lei aveva avuto l’idea di fare un film dal libro di Aubenas, anche se inizialmente la giornalista non aveva intenzione di cederne i diritti», ci ha confidato il regista prima della proiezione, carismatico come solo un intellettuale francofono di respiro internazionale sa essere: sessantaquattro anni portati benissimo, così come le profonde pieghe sul volto che, più che rughe, sembrano linee delle vite, sue e degli altri, da provare a decifrare in un esercizio di chiromanzia facciale. «Quando Binoche si mette una cosa in testa, in genere riesce a portarla a termine. Una volta dato il suo consenso, Aubenas ha posto il mio nome alla regia come condizione, per motivi che non ho mai capito bene! (ride) Tanto che, quando Binoche mi ha parlato per la prima volta del progetto, sono rimasto a bocca aperta».
Nel film sono numerosi, accattivanti e riusciti i giochi tra realtà e finzione, insieme alla tensione verso il momento dello smascheramento “à la Hitchcock”, come con orgoglio ci ha detto il regista. Purtroppo, a conti fatti, ci sembra proprio l’eccesso di realismo e di volontà di immedesimazione, riscontrabile in particolare in Binoche e nel suo personaggio, a far suonare paradossalmente meno veritiero tutto il resto. Da una parte, a Juliette, come nei film di spionaggio, viene fatta recitare la parte di una donna che recita una parte: il doppio ruolo concentrico della scrittrice e della pulitrice dentro la scrittrice. Dall’altra le altre donne del film interpretano sé stesse in quella che, per quanto l’alchimia generale possa funzionare, per quanto tutto sia ovviamente consensuale e socialmente utile, somiglia troppo a un esperimento di teatro-terapia per non suonare un po’ forzato. Tanto che, complice un finale volutamente ambiguo, il risultato è che l’attenzione dello spettatore viene distolta dalle storie delle addette alle pulizie e i riflettori risultano puntati più sull’interpretazione dell’attrice Juliette e sulla questione del personaggio Marianne. È come se il tema del film non sia tanto il problema sociale di fondo, ma quanto sia giusto o sbagliato nascondersi dietro una falsa identità per contribuire alla soluzione del problema sociale di fondo, senza peraltro fornire una risposta significativa.
Nel corso di Tra due mondi acquista sempre più forza il sospetto che sia più facile che un Carrère passi per conoscitore di dinamiche socio-culturali tra precarie normanne – cosa che con ogni probabilità il camaleontico autore di Limonov è davvero divenuto – che una Binoche, per quanto si impegni, possa entrare nel regno di Carrère. Il regista è molto puntuale nel circostanziarci il suo pensiero sulla crisi occupazionale: «Il vero sovraccarico emotivo del mestiere di fare le pulizie è l’invisibilità. Non so se in Italia è stato fatto qualcosa di simile, ma in Francia è stata avviata una riforma che prevede che chi effettua le pulizie in un’azienda debba farlo osservando lo stesso orario degli altri lavoratori. Può sembrare una piccola cosa, ma le aziende che hanno cominciato a farlo hanno notato subito la differenza. Una delle protagoniste del film, che oggi lavora in una di queste aziende, ha visto così la propria vita cambiare, e sia materialmente, perché ora ha una logistica più semplice, che moralmente, perché sente di far parte del resto dell’azienda. Senza voler idealizzare è vero però che in questo modo è come se questi lavoratori fossero sulla stessa barca, e non più dei clandestini».
Alcuni dei momenti migliori del film sono affidati, in effetti, al cast non professionista ma molto professionale. A partire dalla madre single Christèle (Hélène Lambert), le attrici comprimarie riescono a compiere miracoli attoriali di insicurezza nella naturalezza, di rassegnazione nella durezza, di pazienza nella stanchezza. Sono pezzi di bravura i tutorial per rifare i letti del traghetto. Una scena memorabile, ad esempio, è quella in cui la responsabile del servizio di pulizia del traghetto, durante la festa di addio a una delle colleghe (che è riuscita a trovare finalmente lavoro come commessa presso una filiale della Brioche Dorée), gioca a restare impassibile davanti alle altre, mentre cercano di farla ridere. Del resto è costretta a fare qualcosa di simile ogni notte, fuor di metafora, davanti all’atroce realtà delle sue sottoposte.
«L’incontro con le persone raccontate nel film è stato facilitato dal fatto che stavamo facendo qualcosa insieme», ha tenuto a specificare Carrère. «In particolare perché – come in francese diciamo attraverso una sola parola, jouer – sul set giocavamo e recitavamo al tempo stesso. Finito il casting, per sei mesi, prima che iniziassero le riprese, ci siamo visti un giorno alla settimana. E, leggendo alcune scene, familiarizzando, siamo diventati un gruppo. Le riprese sono state faticose, dovendo rispettare orari e luoghi tipici dei mestieri rappresentati, ma sono state ore felici. C’era il piacere di ritrovarsi insieme in una specie di banda. Ho dato perfino delle lezioni di yoga!».
Eppure, nel corso dei 107 minuti della pellicola, anche Binoche è riuscita a ritagliarsi, qua e là, dei momenti magici. Come quando prende appunti aggrappata alla sua Moleskine (unico retaggio e avamposto della sua vita precedente e successiva), e confessa alle colleghe di farlo per ricordare le varie procedure di sanificazione. O quando, riconosciuta da una coppia di amici che cerca di depistare (e che sono esattamente quello che immaginiamo quando chiudiamo gli occhi e pensiamo alle tre parole: radical, chic e francese), viene da loro rimproverata per non essersi fatta vedere dall’ultimo “capodanno giapponese” insieme, sotto gli occhi esterrefatti di un’altra addetta alle pulizie di bordo.
Dopo aver affrontato con grande disinvoltura e sprezzo del pericolo plotoni di domande sulla guerra in Ucraina («Limonov sarebbe stato il primo a imbracciare il fucile per Putin»), Carrère sta per prendere congedo da noi; conscio non soltanto, cosa verissima, di essere uno dei più interessanti esseri umani in vita, ma anche di aver superato questa strana sfida cinematografica. Non abbiamo dubbi a riguardo quando gli domandiamo se due forme di intermittenza, lavorativa ed esistenziale, così differenti tra loro come il precariato occupazionale e l’albergare nelle menti e nei corpi dei propri soggetti narrativi, per il tempo di un libro o di un film, possano in fondo avere qualcosa in comune. Ci risponde: «Non si può parlare di precariato per persone che possono fare quello che vogliono. Nell’occuparmi di questo tema il mio è stato solo un grandissimo privilegio».