Partiamo da qui: in una narrazione tendenzialmente edulcorata delle famiglie omogenitoriali, l’idea di “arcobaleno” pare ancora doversi riferire a un ideale familiare radioso e perfetto: casetta col tetto a triangolo, prato verde, tutti felici per sempre. Ecco, Il filo invisibile di Marco Simon Puccioni (dal 4 marzo su Netflix) fa un significativo passo avanti: racconta due genitori in crisi. Due padri decidono di separarsi quando uno tradisce l’altro, e il tradimento è penoso e doloroso come in ogni storia. «Quello che deve passare è che neanche questa famiglia è speciale», mi dicono i giovani protagonisti del film, e infatti speciale non è: i due padri litigano e fanno i capricci davanti al figlio adolescente, arrivano a contenderselo, e lui prima assiste impotente, poi si carica dell’onere di essere l’adulto della questione. «Dici bene, perché le famiglie normali non esistono», entra a gamba tesa Francesco Gheghi, alias Leone, protagonista e figlio di Filippo Timi e Francesco Scianna sullo schermo. «Tutti si aspettano famiglie omogenitoriali migliori di altre. Il messaggio invece qui è un altro: le famiglie spesso sono pazze e mai perfette».
Per questo era un rischio, e va sottolineato: raccontare una realtà come questa senza romanzarla, mostrarla nei suoi vizi e perfino nel fallimento del matrimonio (sì, quello che tanto hanno voluto), per alcuni può ancora de-legittimarne l’esistenza. «La verità?», mi dice Giulia Maenza, nel film Anna. «A me fa sorridere anche dover ancora specificare se un film è lgbtq+. A prescindere da tutto, è il pensiero dei genitori che si dividono che mi distrugge. Credo che questo non cambierà mai, al di là delle generazioni. Le famiglie si spaccano, succede e si sopravvive. Anzi, probabilmente dopo si vivrà anche meglio. L’atteggiamento da adottare quando un nucleo si divide, però, può fare la differenza. E questa storia ce lo mostra».
Eh già, perché quella dei nostri quattro è anche la generazione delle famiglie separate e poi allargate. Glielo faccio notare e loro mi guardano confusi (ma che dice questa?). Allora tento un passo indietro e gli racconto che quando andavo a scuola io (e non è che siano passati trent’anni, ma gli ultimi quindici hanno dato una sterzata notevole), se eri figlio di divorziati eri quello strano. Il poveretto, l’attrazione della classe. Che idea ne hanno invece loro, i diciottenni di oggi? «Non credo che la nostra generazione possa davvero pensare alla famiglia che verrà», risponde Emanuele Maria Di Stefano, nel film Jacopo. «Perché non c’è più uno schema. Leone nel film ha due papà, io nella mia vita vera ho due mamme e un padre, perché i miei sono separati. Credo non sia manco più possibile pensare come vorresti una famiglia, perché già immaginandola stai sbagliando». Subentra Gheghi, chiaramente l’agitatore del gruppo: «E poi non è che tu la mattina ti svegli e dici: “Ah, domani voglio proprio essere un padre”».
Il suo Leone è uno di quei ragazzini brillanti che si fanno volere bene dopo tre battute, ma per certi versi vive un conflitto nuovo. Da una parte è sereno nella sua condizione familiare (nessun vero trauma gli costerà un lungo percorso d’analisi, neanche quando i due papà decideranno di scoprire chi è il genitore biologico), ma d’altra parte deve ancora difendere l’idea che «l’omosessualità non sia contagiosa». In poche parole? È un adolescente etero, figlio di due gay, e allo scoccare della prima cotta (per Anna, e ti credo) rivendica la sua eterosessualità. «Ho guardato i documentari di Marco per raggiungere questo stato d’animo, mi hanno saputo raccontare la loro vita. Poi ho avuto la possibilità di conoscere anche i suoi figli e fargli delle domande. Le risposte che mi hanno dato sono le stesse che darei io. Mi hanno parlato d’amore, non hanno sentito nessuna mancanza da parte di entrambi i papà. Per il personaggio ho lavorato su una sensibilità precisa, come dici tu Leone è stanco di difendersi e di spiegare sempre le stesse cose. Pure perché per lui sono naturali, è maturato prima degli altri, ha imparato presto a fare discorsi adulti. Qui si parlava proprio d’amore». Perché comunque questo è un coming-of-age, «alla fine è pure la storia di Leone che scopre per la prima volta l’amore».
E attenzione, perché qui Gheghi tira fuori un concetto per lui ovvio, ma che si merita un paragrafo a sé, perché non è ovvio per niente: «A un certo punto lui fa coming out e dice di essere etero. Ma deve spiegare a tutti che neanche quella è una malattia contagiosa, perché sennò tutti i figli di coppie etero dovrebbero essere etero. E allora i conti non tornerebbero, no?». «E perché, quando tu ci nasci in una situazione, a te non ti manca niente», fa eco Emanuele. «I problemi li cercano sempre quelli che stanno fuori dalla tua bolla, si convincono che sia un disagio pure per te. Ma che volete, per me la vita è così». E per la serie “personaggi chiave che cambiano le sorti del protagonista”, mentre al tavolo degli adulti Puccioni è ancora costretto a ironizzare sullo stereotipo del “non sono omofobo/ho un sacco di amici gay”, a sedici anni Jacopo è l’amico maschio che ti abbraccia in pubblico anche se gli altri fischiano con malizia. Emanuele ci pensa su: «Sai che è davvero potente questo aspetto? Da quel punto di vista è molto forte, Jacopo. Nessuno supera niente senza gli amici veri. Alla fine è quello che conta, più della scuola e della famiglia».
Anche il coming out di Dario, che arriva come una resa totale, porta una prospettiva fresca alla narrazione di genere. Per Matteo Oscar Giuggioli, che lo interpreta, «lui distrugge in diretta il canone del machismo, del figo che si diverte e fa a botte. Parte così, ma poi si sgretola e cambia tutto, quando diventa libero di sbocciare e fiorire». Giulia però non fa sconti: «Diciamolo: all’inizio Dario è un bullo. E nessuno è giustificato ad esserlo, a prescindere che sia etero o gay, è un problema che devi risolvere con te stesso. Devi accoglierti tu per primo, poi vedi come ti accolgono anche gli altri».
A proposito di accoglienza: possiamo fare una standing ovation alla sua Anna, cioè la sorella di Dario? Che è un compromesso cinematografico bellissimo tra certe protagoniste della Nouvelle Vague (a cui Giulia Maenza somiglia, peraltro) e la realtà della nuova epoca. Come le prime, provoca e innesca dinamiche narrative, è il perno femminile di un triangolo (lei, lui e il fratello) che rappresenta l’amicizia, ma pure la scoperta del sesso e della sessualità. Soprattutto, però, è il simbolo di una generazione che non è neanche davvero inclusiva: abita proprio l’universo parallelo del non-pregiudizio. Per lei l’etichetta non esiste, tant’è che dice a Leone: «Per me puoi essere quello che ti pare. Basta che ti piaccio io». Alzi la mano chi avrebbe pagato, a quell’età, per una dichiarazione come questa. Apoteosi d’amore e libertà. «A volte cresciamo in delle famiglie che hanno certi ideali, e noi d’istinto ci ribelliamo. Anna ha una madre che si finge inclusiva, ma non lo è. Automaticamente si fa strada dentro di lei la curiosità di scoprire il mondo che c’è fuori, quello vero. E allora vuole conoscere la famosa famiglia di Leone con due papà, e guardare coi suoi occhi come l’amore possa esistere senza confini».
Grazie, Giulia. Aspettavo dall’inizio questo pretesto: genitori bigotti e conflitto generazionale, voilà. C’è una scena del film in cui Scianna e Timi, i due padri, sono a tavola con Gheghi, il figlio, che sta realizzando un video sulla sua famiglia per un progetto scolastico sui diritti civili. Scianna fa con ironia: «Abbiamo cresciuto un attivista»; e Timi rincara: «Che sfrutta le lotte dei genitori per un buon voto a scuola». L’ultima battuta è del ragazzo: «… che mi sembra comunque una giusta causa». La leggerezza del contesto lascia un po’ d’amaro in bocca, o almeno il dubbio che gli adulti stiano prendendo poco sul serio le battaglie e le urgenze delle nuove leve. Così lancio l’amo ai nostri quattro, ma di nuovo, inaspettatamente, non abboccano neanche per finta. Anzi. Gheghi quasi mi bacchetta, perché «non possiamo fare di tutta l’erba un fascio. Anche quando dicono che la nostra generazione si sta evolvendo… è vero, ma conosco giovani con mille tabù e pregiudizi, non ti credere». Giuggioli alza la posta: «Io mia madre ho imparato a vederla prima come una persona che come un genitore, vuol dire che anche lei è in grado di sbagliare». «E poi i giovani, sia cazzoni che attivisti, sono sempre esistiti», fa Giulia, mentre Emanuele, forse senza volerlo, piazza una battuta da grande cinema: «Per esempio io so’ un fancazzista. E che lo dicessero pure: ho vent’anni e ho tutto il diritto di esserlo».
Vabbè, ma quindi come ve la formate un’opinione oggi? Com’è che sembrate sempre così liberi? «Dipende dal contesto storico», mi rispondono in coro neanche si fossero messi d’accordo. Emanuele, quello che rivendica la spensieratezza dei vent’anni, si fa serio: «In certi paesini subisci ancora la chiusura mentale, sì, ma se oggi puoi nascere in una famiglia omogenitoriale, capisci già che è un periodo fortunato. Se qualcuno non si mette proprio d’impegno a farti pensare il contrario, è difficile che tu cresca con una mentalità ottusa». Francesco sentenzia: «Che perla. Vedi? È un fancazzista perlato».
Nel caso non vi avessero ancora convinto del tutto, nel caso sembrasse ancora promozione anziché opinione, quello che mi rispondono quando gli chiedo cosa li ha emozionati davvero del film la dice lunga. Per Giulia è «la madre surrogata. Ci tiene a Leone, non è un genitore, ma gli sta vicino rimanendo al suo posto». Per Matteo sono proprio alcuni momenti di dolcezza tra Timi e Scianna, «il pensiero di due padri che amano in maniera così disinteressata un figlio, purché sia felice e protetto». Per Emanuele è «il crollo di Leone. E noi amici, tristissimi accanto a lui, ma col compito di sdrammatizzare». Per Gheghi, invece, è il crollo del mito, come per ogni figlio: «Vedere loro tre che iniziano un nuovo percorso. Leone che fa l’amore per la prima volta, un padre che si rifà una vita ma non è felice, e poi la solitudine dell’altro padre».
Li lascio con una domanda jolly: me la smontano immediatamente. Non li convinco e non capisco subito perché. Gli dico che Puccioni ha raccontato che, grazie a questo film, ha riflettuto molto su cosa voglia dire essere genitori: ma loro hanno ragionato su cosa significhi essere figli? Cala il silenzio, neanche Emanuele il filosofo corre in mio soccorso. Anzi: «Siamo cresciuti in un’epoca che non è quella dei nostri genitori. Forse non dovremmo essere noi a riflettere su questo argomento, noi ci siamo nati dentro. Non decidi di essere figlio, ti capita». E poi ci pensa un attimo e mi chiama in causa: «Chiara», come quello dell’ultimo banco che alza la mano per interrogare l’insegnante in crisi, «ma posso farti una domanda io? Tu, vedendo il film, davvero hai ragionato da figlia?». Sì, il che è strano, perché ho l’età per ragionare da genitore. Ma penso che questo sia uno dei messaggi più forti del Filo invisibile: anche le famiglie incasinate vanno tutelate, e anche i genitori ottusi vanno educati. Io ho pensato: questo film lo farei vedere a loro.
Bingo. Qui torna il coro, tutti insieme: «Io pure, è vero. Giustissimo proprio. È che quando sei adolescente vedi tutto grande, l’amore, i problemi insormontabili… però è vero, non è colpa dei genitori, ma del periodo storico in cui sono nati». La toccano pianissimo, eh? Ma senza ostilità. In realtà finisce con Giulia che inizia a parlare di quel messaggino da inviare quando arrivi a casa, «il tipo di amore che ti danno si merita questa responsabilità, essere figlia per me è anche un compito».
E Francesco, forse insieme al suo Leone, tira le somme: «Il fatto è che, dal momento che vieni messo al mondo, c’hai una responsabilità pure tu. A casa c’avrai sempre un vecchietto e una vecchietta, due vecchietti o solo una vecchietta, che stanno lì a sperare che tu non faccia stronzate. Ma questo lo capisci quando diventi più grande. Leone deve ragionare per forza da figlio, sente di dover tutelare e proteggere i suoi genitori. Vuole raccontare al mondo che avere due papà non è sbagliato né strano. Se ti posso dire una cosa che ho imparato da questo film, è che nella vita io sono così innamorato di mio padre, e lui di me, che ne vorrei due. Mi andrebbe bene pure una mamma con la barba, guarda, non ci trovo differenza. Ma poi inizio a fare il filosofo, e allora è meglio che mi fermo qua…». Che alla fine com’è che dice quella battuta di passaggio nel film? «Beato questo che c’ha due padri. Il mio è scappato in America».