«Volevo raccontare alcuni personaggi immigrati di seconda generazione in una realtà di palazzi occupati e della celere addetta agli sgomberi. Non sapevo quasi nulla di occupazioni e polizia e nella preparazione al film ho fatto molte ricerche, sia nelle case occupate sia tra le forze dell’ordine. Volevo evitare la sceneggiatura da “salotto romano”, di chi non sa nulla di una certa realtà e pretende di raccontarla, stando chiuso a scrivere comodo nella propria stanzetta».
A parlarci vis à vis del suo Legionario – presentato ad Alice nella Città 2021 – è Hleb Papou, regista e sceneggiatore italiano di origini bielorusse. Il film, prossimamente in sala per Fandango, è una delle opere prime italiane contemporanee più potenti, spiazzanti e disturbanti ed è valso all’autore il premio come miglior regista emergente a Locarno, sezione Cinema del Presente. Mescola efficacemente generi (poliziesco, dramma sociale, commedia) e sguardo autoriale, spiazzando continuamente lo spettatore. Il legionario prende spunto dal cortometraggio dello stesso autore e dei suoi co-sceneggiatori Emanuele Mochi e Giuseppe Brigante, realizzato come saggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2016.
Che storia racconta
Narra di Daniel (Germano Gentile), un poliziotto nero romano di origini camerunensi. Il gruppo della Squadra Mobile a cui appartiene, guidato dal capitano “Aquila” (Marco Falaguasta), deve sgomberare un palazzo occupato in cui vivono il fratello (Maurizio Bousso) e la madre di Daniel. Ci troveremo in un crescendo di tensione, la rabbia esplode in una nebbia di fumogeni e botte…
La parola all’autore Hleb Papou
«Volevo evitare la lezioncina di chi ti racconta una realtà con il dito alzato, come a volte accade in certo cinema d’autore, io non ho lezioni da dare. Mi premeva raccontare la storia di immigrati di seconda generazione e la difficoltà di vivere e di trovare un tetto, ma anche quella di chi per mestiere deve sgomberare edifici. Sia i palazzi occupati che la polizia sono sistemi estremamente chiusi e con tantissime regole. Non è stato facile conquistare la fiducia di entrambi quei mondi, ma ci siamo riusciti. Allo Spin Time, dove vivono circa 480 persone, andavamo in periodo Covid, il che ha reso le cose ancora più complicate. Per poter lavorare nel palazzo occupato abbiamo dovuto pagare alcune persone. Dei veri occupanti dello stabile compare qualcuno, in particolare la signora che interpreta Valencia. Il ragazzo rom Luca, invece, è un giovane zingaro che ho incontrato in un campo nomadi. Gli ho proposto il ruolo e ha accettato. Per la Squadra Mobile il nostro consulente è stato Luca Drago, che ha un drago tatuato proprio come il “nostro” Aquila ha un’aquila dipinta sulle spalle».
Germano Gentile, alias il poliziotto Daniel
«Per diventare poliziotto ho frequentato Luca Drago, che è stato consulente anche per ACAB – All Cops Are Bastards di Stefano Sollima e, ancora prima, fonte del libro di Carlo Bonini (edito da Einaudi, nda). Con Drago ho avuto chiacchierate lunghe fino all’alba, racconti dettagliatissimi e varie realtà di vita della Squadra Mobile. Mi sono dovuto sottoporre anche a un allenamento intenso, per due ore al giorno per quasi un mese: tanti squat, resistenza, molta corsa e bilanciere tutti i giorni. È faticoso fare il poliziotto! Fra l’altro, mi sono allenato in piena pandemia, con le palestre chiuse… Per fortuna a casa avevo alcuni attrezzi, perché dovevo essere “grosso”. Avevo messo su bicipiti così (indica il braccio, nda)! Per le scene di azione – a ogni ciak – dovevo riprendere fiato. In una scena del film porto via di peso un collega: è qualcosa che riesci a fare solo se fai un allenamento costante e continuo, specie con il casco a rendere ancora più difficile il respiro».
Maurizio Bousso, l’occupante Patrick
Maurizio Bousso, che abbiamo visto in Tolo Tolo di Checco Zalone, interpreta invece Patrick, occupante e rappresentante del comitato dello Spin Time: «Insieme a Hleb abbiamo frequentato lo Spin Time per parecchio tempo prima di girare. Non potevamo dormire lì a causa del Covid. In principio è stato complesso vincere la diffidenza di chi abita quel microcosmo molto chiuso. La mia fortuna è stata trovare tante persone diverse dalle quali attingere racconti e verità personali. Alcuni degli occupanti erano più schivi e restii a parlare, altri più disposti a condividere la propria storia. Ho assistito a tante assemblee del comitato, assemblee lunghe ed estenuanti, che possono finire anche a tarda notte, riunioni molto vissute e spesso con tensioni interne. In quegli incontri si dibatte animatamente per questioni di soldi, partecipazione alle manifestazioni, turni di picchetto. Ci sono tantissime regole estremamente rigide, che non possono essere trasgredite».
Il look dei protagonisti
Molti dettagli del look dei personaggi contribuiscono a rendere vividi Daniel e Patrick. Patrick veste una felpa giallorossa con su scritto “Avoja”. Sul retro del proprio casco Daniel ha l’adesivo “antifrastico” di uno smiley, un po’ come Joker-Matthew Modine aveva il simbolo della pace in Full Metal Jacket. In abbigliamento “borghese” indossa invece una maglietta stile N.W.A. con su scritto “Fuck the Police”. «In teoria i poliziotti», riprende Papou, «non credo possano mettere simboli o adesivi di sorta sui loro caschi. Drago, però, ha davvero una bandiera imperiale giapponese sul suo casco, e un’altra volta mi è capitato di vedere un celerino con un adesivo con le corna. A Daniel abbiamo messo così lo smiley. La maglietta “Fuck the Police” fa parte di una autoreferenzialità di molti poliziotti che fanno di tutto per “caricarsi”».
Realtà e finzione
Quando sui titoli di coda compare il classico cartello “Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale”, viene quasi da sorridere, perché sembra di avere assistito davvero a un frammento di realtà quotidiana e a schegge di verità e tensione palpabili. Nel film c’è perfino un sacerdote, ex elettricista di origini polacche, che riallaccia abusivamente la luce del palazzo occupato. Si chiama don Krukowski ed è evidentemente ricalcato sul Cardinale Krajewski, che, nel 2019, riattaccò davvero la corrente proprio allo Spin Time Labs, assumendosi pubblicamente la responsabilità dei fatti e accettando di scattare un selfie con gli occupanti. Conclude l’autore: «Quel cartello “classico” lo hanno preteso i produttori ed ero ormai troppo stanco per discutere. La cosa che mi premeva di più era che il film funzionasse fino all’ultimo fotogramma».