Rolling Stone Italia

Il tempo di Sorrentino

Un film sul tempo e sul destino. Così Guè ha definito ‘Parthenope’ quando l’ha presentato con il regista (tutto vero). Ed è una recensione esattissima, perché dentro questa storia c’è sia il tempo della protagonista, una ragazza poi donna che attraversa la vita, sia quello del suo autore, che dopo ‘È stata la mano di Dio’ continua a chiudere i cerchi su sé stesso e a perseguire «un’idea di stupore e di futuro». Una lunga chiacchierata sul cinema, la giovinezza, la coolness, la leggerezza. E sul vedere, soprattutto quello che ancora non si è visto

«Se non piangete, vuol dire che il film non è riuscito», dice Paolo Sorrentino di Parthenope, e io non solo ho pianto disperatamente, ma finiremo per commuoverci insieme pure alla fine di questa lunga chiacchierata, perché va così quando di mezzo ci sono la vita, il cinema, la Sandrelli.

Di Parthenope, in concorso all’ultimo Festival di Cannes e nelle sale dal 24 ottobre con PiperFilm, sapete già moltissimo, non sto quindi a ripetere la storia della donna del titolo (Celeste Dalla Porta da ragazza, Stefania Sandrelli nella versione più matura) che attraversa la vita, e Napoli, e la famiglia, l’amicizia, la giovinezza, il dolore, la bellezza, l’incanto che a volte si disfa e poi ritorna sempre, almeno finché c’è vita. C’è tanta vita anche nelle morti, e in quel mare che è nascita ma dove pure si annega, e nelle strade buie o assolate che la vita prende, negli incontri, nelle seduzioni, nelle perdizioni, nei libri (courtesy of Gary Oldman), nei maestri, nei misteri chiusi dentro le stanze, carrozze d’oro o uomini di sale.

C’è tanto Sorrentino, e tanto cinema di Sorrentino, perché un po’ vezzosamente l’ha detto lui stesso: Parthenope c’est moi. Anche di Sorrentino e del suo cinema però sapete moltissimo o forse tutto, anche se ha cominciato a svelarsi intimamente da poco, da È stata la mano di Dio si direbbe, no: lo dice anche lui. Sapete tutto quindi basta, cominciamo, chiacchieriamo.

Foto: Greg Williams

Riguardavo ieri sera su MUBI Via da Las Vegas e, forse perché sapevo che oggi avrei parlato con te di questo tuo ultimo film, mi sono segnato questa battuta di Nicolas Cage: “Il concetto di arrendersi è in perfetta sintonia con la mia vita in questo momento”. Certo, il contesto in cui lo dice lui è molto diverso, ma mi ha fatto pensare a Parthenope, a questo suo arrendersi ai sentimenti, alla vita…
Forse più che arrendersi userei il verbo abbandonarsi, perché sì, Parthenope è un film che si abbandona. Si concentra molto su quest’idea di gioventù spensierata, e la gioventù spensierata presuppone la capacità di abbandonarsi, di sospendere il sé e diventare qualcosa che appartiene a tutti. Essere giovani nella forma più profonda è quello, ed è la cosa che succede nel film. Però può succedere anche dopo, quando irrompe il dolore. Mi piaceva molto l’idea di raccontare una persona, in questo caso una donna, che si abbandona alla vita, alla gioventù, e poi alla città, e poi col tempo all’osservazione, e alla fine del film a un’idea risicata di stupore e di futuro.

Questo abbandono non è dunque possibile solo nella giovinezza.
La giovinezza te lo consente, o te lo consentirebbe, più facilmente. Kierkegaard lo spiega molto bene. Ha tripartito le fasi della vita in fase estetica, fase etica e fase religiosa. Nella prima fase, che è quella dell’età giovane, ci si disfa del sé, e lui lo esemplifica attraverso la figura di Don Giovanni, che appunto si disfa del sé ed è pronto ad accogliere chiunque. Poi arriva la fase etica, quella della responsabilità. Però, e questo lo dice sempre Kierkegaard, le fasi non sono così nette, i germi di quell’abbandono possono anche travalicare ed entrare nell’età adulta. E questo è un bene, perché significa che siamo indefiniti al punto da poter essere imprevedibili.

E tu in che fase sei? Lo dico male: sei un uomo molto giovane, ma Parthenope sembra un film che guarda un po’ più in là.
Giovane insomma, c’ho 54 anni.

Che mi sembra già un modo per rispondere, per confermare la riflessione sul tempo al centro del film. Guè, con cui hai presentato il film a Milano, penso abbia fatto la migliore recensione di Parthenope: “È un film sul tempo e sul destino”. Quindi riformulo la domanda di prima: qual è il tuo tempo ora?
Ma guarda, non so mai mettere quello che faccio in relazione a me, e poi sono anche in un momento un po’ confuso, in cui non sono in grado di definirmi troppo. Però sì, sicuramente questo è un film sul tempo, e su quella che Joyce chiama “la selvaggia vitalità dell’epica”. L’epica della vita, e della giovinezza in quella città, e con le opportunità che quella donna ha, è qualcosa che ha a che fare con il selvaggio, con la possibilità di non essere incanalati dentro niente. Mi piaceva l’idea di fare un film molto libero, che si muovesse come si muovono i cavalli selvaggi. Mi è sembrata un’opportunità che non potevo non cogliere, e l’ho colta adesso che sono ancora in forze fisiche perché sapevo che sarebbe stato un film molto faticoso, forse il più faticoso che abbia mai fatto per tante ragioni.

Dario Aita, Celeste Dalla Porta e Daniele Rienzo in una scena del film. Foto: Gianni Fiorito

Dove stava la fatica?
Una era di natura pratica: girare al mare e per tanto tempo. E anche prendere attori esordienti e farli sembrare attori esperti. Il lavoro con gli attori non è la caratteristica per cui nasco, ho imparato con gli anni, ma in questo caso la fatica stava nel relazionarmi con attori inesperti e farli sembrare più avanti nell’età, fargli fare delle cose che contemplavano la conoscenza dell’essere adulti, mentre loro sono giovani e certe cose non le conoscono. Dovevo usare dei trucchi affinché sembrasse che sapessero cos’è la vita adulta. L’altra ragione è che mi sembrava fosse per me l’età giusta per guardarsi indietro ma senza i rimpianti, le nostalgie, perché mi sono un po’ stancato. Era un guardarsi indietro per capire come alla mia età – e torno finalmente alla tua domanda sulla fase in cui mi sento – si può ancora guardare avanti. Crescendo, ovviamente, è sempre più difficile guardare avanti e sempre più facile guardarsi indietro, ma invece io penso che bisogna fare esattamente l’opposto, se si vuole avere uno stile di vita decente: guardare il futuro anche quando il futuro si assottiglia.

Parthenope, infatti, non lo definirei affatto un film nostalgico.
Non voleva esserlo. E io nostalgico lo sono stato: ora però lo sono molto meno. Detesto quelli che dicono “Com’erano belli i tempi andati e come sono brutti i tempi di oggi”, lo trovo un pretesto per lamentarsi del fatto che stanno invecchiando, e per addossare agli altri le colpe di qualcosa che riguarda una loro inadeguatezza legata all’età. Parthenope non voleva essere un film sulla nostalgia della giovinezza, ma sulla bellezza e la grandezza dell’essere stati ragazzi, quello sì.

E poi c’è il destino. “Era già tutto previsto”, canta Riccardo Cocciante nel film. È vero? Oppure cosa non era previsto, anche nella direzione che ha preso il tuo cinema?
Non avevo previsto niente. Come dice Manganelli, come tutti i precoci sono un tardivo, arrivo sempre tardissimo alle cose vantandomi però di essere precoce. Avevo dei sogni e dei desideri, e l’unica cosa che ho davvero capito è che sui sogni bisogna lavorarci molto lungamente e molto alacremente, non si realizzano come se franassero dall’alto. Questo purtroppo molti non lo capiscono, lo vedo pure con i ragazzi che mi scrivono e sperano che con un incontro fortuito il loro desiderio si realizzi: non succede quasi mai, tutto si realizza grazie a un lavoro abbastanza ostinato, faticoso. Anche noioso, certe volte.

Come vedi i giovani – e la giovinezza – oggi?
Non è facile per una persona adulta capire i giovani, nonostante io abbia un figlio di 21 anni e una figlia di 27. Mi sembrano anzi molto presuntuosi quelli che pontificano su che cosa sono i giovani oggi. Io non li so definire e dunque sospendo il giudizio, un po’ come su Dio: boh, che ne so? Tendenzialmente mi piacciono molto, li vedo molto, per usare una parola brutta… carini (ride).

Fa effetto a molti vedere per la prima volta in un tuo film una protagonista donna, ed è sicuramente un fatto. Però il tuo cinema, il tuo sguardo, mi è sempre sembrato avere una forte componente femminile.
Lo spero, anzi ti ringrazio perché invece spesso mi dicono il contrario. Intanto semplicemente avevo fatto ben nove film con protagonisti maschili e mi ero pure un po’ annoiato: vai tutta la vita nello stesso ristorante e a un certo pensi che forse vuoi cambiare. Quindi alla base c’era un motivo molto banale. Poi c’è un motivo un po’ più articolato. Dal momento che io considero la bellezza della vita di ciascuno di noi la nostra epica, ma non potendo essere nessuno di noi epico come lo è stato Ulisse perché dobbiamo accontentarci di un’epica da fermi dove il viaggio è interiore… ecco, mi è sempre parso che questa possibilità di esprimere un viaggio da fermi con tutti gli ostacoli che vengono posti a chi quel viaggio lo compie sarebbe stata più appropriata se fosse appartenuta a una donna. Mi sembrava che questa selvaggia vitalità dell’epica su un uomo fosse culturalmente più scontata, mentre su una donna più interessante, sfaccettata, se non altro perché storicamente la donna combatte per la libertà in maniera più profonda, assidua e faticosa di quanto non lo faccia un uomo.

Paolo Sorrentino con Stefania Sandrelli. Foto: Gianni Fiorito

In tanti, e tu stesso lo confermi, in Parthenope hanno visto Ferito a morte di La Capria, io ci ho ritrovato moltissimo Io la conoscevo bene, e non solo per l’evidente motivo della presenza di Stefania Sandrelli.
È un film che mi ha impressionato molto, l’ho rivisto di recente e non per scrivere Parthenope. L’avevo visto da ragazzo, quindi è come se l’avessi visto per la prima volta, e ho capito che mi ha influenzato tantissimo. È un film molto acuto nel raccontare quella specie di spudorata inconsistenza che si può avere da ragazzi, in quel caso era la Sandrelli ma poteva essere un uomo. Che poi è un’inconsistenza apparente, perché quella era un’anima ferita, addolorata.

Lo è anche Parthenope, anche se rispetto a Pietrangeli c’è quasi un ribaltamento: la tua protagonista prende in mano la sua vita, sceglie, è libera.
In Parthenope i passaggi del tempo vengono espressi attraverso il fatto che, come capita a tutti noi, per un periodo soffriamo e poi per una ragione o per un’altra da quel dolore ne usciamo, o comunque il dolore lo si attutisce per poter voltare pagina. Questo è quello che capita a Parthenope: cambia vita perché cambia età. E anche perché possiede una certa spudorata capacità di dimenticare, che è una cosa che c’hanno molte persone.

Anche tu?
Poco (ride). Dimentico tutte le cretinate, ma le cose importanti le ricordo.

John Cheever, che a chi ancora non lo sa non diremo perché ha a che fare con Parthenope, parlava di “nostalgia di casa anche rispetto ai luoghi in cui non ho mai vissuto”. La Napoli di Parthenope mi sembra un po’ lo stesso: un luogo che per te è stato casa, ma che ora vedi come da fuori.
È strano perché Napoli è la città dove sono cresciuto e dove ho vissuto per 37 anni, quindi tantissimo, però è anche una città che per tante ragioni non conosco bene. Un po’ perché vengo da un quartiere defilato, un po’ perché è una città che mi ha sempre fatto paura, non ho mai avuto il coraggio di mescolarmi veramente. Poi l’alibi del cinema, e tutta la corazza che il cinema ti mette addosso, mi ha dato la possibilità di entrarci meglio, ma da ragazzo non la conoscevo per niente, ed è anche il motivo per cui ho voluto farci questi ultimi due film: per scoprirla. A un certo punto mi è sembrato che avessi un tesoro tra le mani e stava lì, a un’ora da Roma, dovevo solamente andarlo a prendere. Ma non sapevo cosa ci fosse dentro, e scoprirlo è stato bello.

Gary Oldman in ‘Parthenope’ di Paolo Sorrentino. Foto: Gianni Fiorito

L’ultima volta sono andato a Napoli a giugno per l’apertura del ristorante di Ducasse, ed è una cosa che forse fino a dieci anni fa sarebbe stata impensabile. Ma di fronte a cose del genere vedi anche un luogo che, in fondo, di Ducasse se ne fotte, come se non ne avesse davvero bisogno.
È esattamente così. Ho avuto anch’io la stessa sensazione standoci qualche mese l’anno scorso. La città è cambiata ma soprattutto esteriormente, e ora possono succedere cose impensabili come quella. Ma è cambiata molto dal punto di vista merceologico, quando ci stavo io non c’erano tutti quei ristoranti, quei locali, quando uscivo la sera c’erano tre locali in croce, o andavi qua o andavi là. Ma fondamentalmente non è cambiata, la gente ha questa grande capacità di piegare tutto quello che viene da fuori, lo napoletanizza, lo accoglie solo se può diventare napoletano, se no lo respinge. È una sua caratteristica da sempre ed è legata alle dominazioni, pensa a tutti i grandi racconti degli americani a Napoli durante la Seconda guerra mondiale, tutte persone che per quel periodo si sono napoletanizzate, alcuni anche per sempre.

Dopo Parthenope – e lo sfogo di Luisa Ranieri contro la città e i suoi abitanti – hai chiuso con Napoli, almeno cinematograficamente parlando?
Penso che ho fatto quello che dovevo, che quello che avevo da dire l’ho detto. Poi non si può mai dire, perché si spera che la vita sia lunga. Però per ora sì. Già non era facile raccontare Napoli perché è stata raccontata moltissimo, e quindi sono entrato un po’ così, sugli strapuntini, ma francamente ora non mi sento di avere molto altro da aggiungere.

Luisa Ranieri alias Greta Cool. Foto: Gianni Fiorito

Il tratto forse principale di Parthenope, che poi si metterà a fare l’antropologa, è la sua totale assenza di giudizio verso le cose e le persone.
Questo tratto del suo carattere è una dimensione mia: ho una totale incapacità di giudizio. Io non giudico quasi mai, infatti non rispondo mai alle domande di politica. Penso che la dimensione di chi scrive sia proprio quella di avere sospeso il giudizio, lo spiegava benissimo Roth rispetto a come nascevano i suoi libri: dalla curiosità ossessiva nei confronti di un personaggio del quale non sa niente e non saprà niente, ed è solo questa curiosità, questa specie di squalo che gira costantemente attorno al personaggio, che gli fa scrivere il libro. A Parthenope ho fatto fare l’antropologa esattamente come io faccio il regista: perché in entrambi i mestieri c’è questa possibilità di osservare. E, se proprio devo esprimere un giudizio, è sempre amorevole, infatti in società sono in difficoltà, perché la gente esprime invece giudizi molto netti, taglienti, su tutto e tutti, e mi chiedo sempre come sia possibile. Io pure nei confronti dei serial killer cerco sempre di trovare la dimensione affettiva che posso nutrire per queste persone.

Fare invece un mestiere che ti sottopone al giudizio degli altri per te cosa significa?
Questo devo dire che a volte è faticosetto. Poi, purtroppo e per fortuna, l’attenzione su di me è molto aumentata negli anni, e quindi il giudizio degli altri è diventato massiccio e massivo. Perlopiù riesco a fregarmene, però delle volte no. Riesco a fregarmene dei singoli giudizi, ma poi rimane una percezione di fondo che diventa una pressione, sia nel bene quando le cose sono andate bene, sia ovviamente nel male quando le cose sono andate male.

Aver vinto l’Oscar vuol dire, da quel momento in poi, giocare sempre per arrivare alla vetta, oppure anche quella percezione del mestiere cambia?
Per lungo tempo ho sempre lavorato per raggiungere questi obiettivi, adesso comincia a sembrarmi un po’ anacronistico lavorare alacremente per la vetta, perché un film porta via due anni di vita e, per motivi di età, si riduce lo spettro di film che potrò fare. Quindi la priorità per me ora non è tanto raggiungere dei risultati: alcuni peraltro li ho già raggiunti, non ha senso farlo due volte. L’unica cosa che veramente conta è intanto che continuino a farmi fare questo lavoro, perché è l’unica cosa che francamente so fare, e poi che possa raccontare quello che mi sta cuore o, per meglio dire, che mi diverte, perché a me non mi sta a cuore quasi niente tranne la mia famiglia e il calcio. Il cinema mi diverte. Mi diverte e mi fa trascorrere le giornate.

Celeste Dalla Porta e Daniele Rienzo. Foto: Gianni Fiorito

Tu prima hai detto “carini”, quindi io ora posso usare un’altra brutta parola, che è “coolness”. Mi sembra che negli ultimi anni la tua coolness sia cresciuta esponenzialmente: il video di te che entri in sala a Cannes, Saint Laurent che ti produce il film, tu stesso che vai alle sfilate. All’inizio Sorrentino era il giovane autore figo, poi forse ti si è dato un po’ per scontato e adesso, appunto, c’è questa coolness ritrovata.
(Ride) Io credo sia dovuto al fatto che con gli anni penso e spero di essermi alleggerito. Sono stato molto più serioso e pesante e scontroso e antipatico da ragazzo che non adesso, e penso che questo mio prendermi meno sul serio venga percepito. Sono più leggero, non so come altro dirlo, perché non mi sto più tanto a chiedere che tipo di ripercussioni avrà una cosa che faccio, la faccio e basta, e il mondo del cinema invece è un mondo in cui la gente si chiede moltissimo che ripercussioni avranno le cose che fa, perché vivi nell’eterna condizione di un vago complesso di inferiorità. Il regista non ha l’autorevolezza del grande scrittore e nemmeno la frivolezza del grande attore, sta in una via di mezzo che lo fa sentire come se si dovesse sempre posizionare e che quindi fa sì che si prenda sempre molto sul serio.

Qual è stato lo spostamento, il clic verso questo alleggerimento?
Forse fare È stata la mano di Dio, che è stato un po’ un’inversione di rotta per me, un po’ un cambiamento. È stato un film liberatorio perché ho parlato di cose nei confronti delle quali avevo molto pudore, cioè me stesso, i miei genitori, la mia vita. Quello è stato un po’ il clic.

Con l’età stai anche abbandonando il pudore?
Sì, sì. Sono diventato un po’ più spudorato, sempre nei limiti delle mie possibilità e del mio modo di essere. Però direi che È stata la mano di Dio mi ha messo molto più a mio agio anche perché, rispetto agli altri miei film, è piaciuto quasi a tutti, e quindi non mi ha messo in una posizione di tensione.

Celeste Dalla Porta è Parthenope. Foto: Gianni Fiorito

Mi sembra che “il cinema di Sorrentino”, proprio come entità, ora sia amato anche al di là dei singoli film, non so se capisci cosa voglio dire.
Sì, e adesso lo comincio a percepire pure io. La gente mi ferma mostrando una specie di apprezzamento generale, non necessariamente legato a quel film o a quell’altro, come se cominciasse a vedere, per usare una parola altisonante, un corpus. E nella testa di molte persone il bilancio è tutto sommato positivo, quindi posso essere, diciamo così, apprezzabile.

Qual è la cosa più importante che ti ha dato il cinema?
Eh… tante cose. Forse la più importante di tutte è molto banale e semplice, e l’ho fatta dire anche in questo film: è stata la possibilità di crearmi un’altra realtà nei momenti in cui la realtà non mi piaceva. È quella cosa che Alda Merini chiama non mi ricordo esattamente come, forse “il secondo piano”, usa una metafora legata a un edificio che è molto bella. Quella è la cosa più importante di tutte. E poi la possibilità di entrare in mondi che agli altri sono interdetti, la facilità di entrare nelle case della gente. Entrare nelle stanze da letto, nei bagni delle persone, è un tesoro inestimabile. In sintesi, mi ha dato la possibilità di creare una realtà parallela in cui ho creduto molto, spesso fin troppo, a volte ho fatto sì che questo sostituisse la realtà vera. Ora meno, faccio più fatica, perché ho capito che la realtà è la realtà. Ma quand’ero ragazzo e avevo bisogno di fuggire con la testa il cinema è stato una salvezza.

Il “vedere” le cose e le persone è al centro di Parthenope. Com’è cambiato il tuo vedere, nel tempo?
Il vedere è, semplicemente, un atto. Ed è l’ultima cosa che rimane quando vai avanti con gli anni, come dice Silvio Orlando nel film. Altre capacità vengono meno o si affievoliscono. Innamorarsi, provare piacere. Pure l’udito svanisce, invece il vedere è l’unica cosa che rimane. Per me è stato un po’ il contrario. Io ho visto molto più da ragazzo, adesso le cose sono più interessato a viverle. È un processo inverso da quello che dice Silvio Orlando. Proprio perché volevo fare cinema ero famelico di vedere, e non solo i film. Ora forse meno, ho visto anche troppo.

Paolo Sorrentino sul set con Silvio Orlando. Foto: Gianni Fiorito

La musica invece? E non solo quella del film, da Cocciante al jazz di Lele Marchitelli.
Così come il cinema mi ha aiutato a fuggire dalla realtà, anche la musica l’ha fatto. Dato che ne ascolto tanta, ho la presunzione di dire che sono diventato abbastanza bravino a capire quella che è più adatta per i miei film. Per esempio, ho sempre pensato che la tromba al cinema potesse essere uno strumento formidabile ma non l’avevo mai usata, perciò qui, al netto dei pezzi di musica leggera, ho voluto che fosse centrale.

Cosa ascolti in questo momento?
Tutta musica indie americana tristissima che non so perché mi ha preso, dato che in questo periodo sono abbastanza di buonumore. Ascolto… aspetta che con Spotify ormai non sai mai che cazzo ascolti… (prende il telefono). Ascolto gente che si chiama Lost in Lona. Ah, ascolto un gruppo bellissimo che si chiama Rainbow Kitten Surprise, mi piacciono da morire. E ascolto una che si chiama Sarah Kinsley, tutta roba che mi passa Spotify.

L’algoritmo con te funziona.
È fantastico, sono pazzo di Spotify. L’algoritmo con me ha un’intesa meravigliosa, quello che mi propone mi piace da morire.

E invece cosa guardi?
Guardo pochi film e poche serie. Guardo molto le persone a cui voglio bene. Mi sorprendo molto a guardare i miei figli, mia moglie. I miei figli tantissimo perché li vedo che cambiano, diventano altre persone.

I tuoi film sono tutti sull’amore?
Ammazza che domanda. Non lo so se i miei film sono tutti sull’amore. Sicuramente sono figli del mio amore per dei personaggi, dei mondi, delle dinamiche. Io sono innamorato dei rapporti di potere, e quindi sono innamorato della seduzione, che è lo strumento più gentile che conosco per metterli in scena ed è anche il più affascinante, sfaccettato, complesso. Non so se tutti i miei film sono sull’amore, però con gli anni il tema dell’amore mi piace molto. Con Toni Servillo ce lo ripetiamo sempre, “Dobbiamo fare un film d’amore”. Ma forse è l’ultima cosa che uno nella vita arriva a conoscere e a capire davvero, quindi questa cosa apparentemente banale del film d’amore non riusciamo mai a farla perché non riusciamo a trovare l’idea che consente di raccontare veramente l’amore, visto che l’amore non sai cos’è veramente.

Cheever diceva che l’arte è il trionfo sul caos.
Penso che sia vero. Ma l’arte resta una meravigliosa illusione, perché il caos non si domina. Lo puoi fare, ma sempre dentro il mondo del film. Lo schematizzi, lo digerisci, ma anche quando continua a far finta di essere caotica l’arte non è mai caos.

Anche il tuo cinema è così?
Sì, ho sempre avuto questa fissazione di mettere ordine nel caos. I miei film sono molto stilizzati, esteticamente ricalcano quest’idea. La difficoltà di fare un film su Napoli è anche questa, perché Napoli è portatrice estrema di caos, e incanalarla nelle mie necessità di stilizzazione si è rivelato molto più complicato di quando giravo a Lugano [Le conseguenze dell’amore], che era già stilizzata di suo, io dovevo solamente posizionare la macchina da presa.

Quando c’è un nuovo film in uscita si mette tutto in pausa e non si pensa a quello che ci sarà dopo?
No, no, io riesco a guardare oltre.

E qual è la direzione?
Nella vita privata, è abbracciare con buonumore ed entusiasmo il futuro, quello proprio ce l’ho molto presente. Ultimamente ripeto sempre questa frase di Andrea Pazienza che ho sentito e che mi piace tantissimo: “Mai guardarsi indietro, neanche per prendere la rincorsa”. L’ho fatta diventare una specie di imperativo categorico della mia vita. Nella vita professionale, francamente non lo so. Boh, penso che mi devo fare un po’ di domande. Penso che certi miei mondi che ho raccontato comincino un po’ a stancare, a mostrare la corda. Devo capire se sono in grado di andare altrove, ora che sono io il primo che vuole farlo.

Quei tuoi mondi hanno stancato anche te?
Sì, hanno stancato entrambi. Me e il pubblico.

Di Parthenope mi hai detto tutto?
Posso dirti che sono molto affezionato al finale. Dico proprio la fine del film, se uno ha la pazienza di arrivare all’ultimo fotogramma della Sandrelli. Fa una specie di sospiro che si è inventato lei, che è un meraviglioso animale di cinema, come Visconti diceva di Fellini. Quel sospiro è molto bello, è come se dicesse: dai, è andata così e va bene così. E va bene anche tutto quello che arriva.

Iscriviti