Vincent Lindon e Stephan Brizé sono in ritardo sulla schedule. Perché il film che sono venuti a presentare in Italia, In guerra, ha bisogno del tempo adeguato e delle parole giuste per essere descritto, ma i minuti a disposizione sono sempre troppo pochi. E inevitabilmente viene detto loro di tagliare, di essere brevi nelle interviste. Ma Lindon non ci sta, esce dalla sala e afferma con gentilezza ruvida e sincera: «Scusateci se stiamo andando lunghi, ma io non posso rispondere velocemente, perché poi sui giornali sembro uno scemo, voglio formulare per bene quello che dico… Magari ci metteremo un po’ di più, ma parleremo con tutti, lo prometto».
Lindon, 58 anni, è un grande attore francese che è diventato popolare nel 1988 con Il tempo delle mele 3 e nel 2015 ha vinto il Prix d’interprétation masculine a Cannes per La legge del mercato, dove era diretto, per la terza volta nella sua carriera, da Stephan Brizé e in cui interpretava un uomo disoccupato che, trovato finalmente un impiego, si chiede cosa è disposto ad accettare per conservarlo.
In guerra è un film altrettanto bello e altrettanto importante. Racconta della chiusura di una fabbrica francese, «ma l’anomalia, l’assurdità è che si tratta di una fabbrica che è in attivo, che produce utili e reddito per tutti» spiega il regista Brizè. Eppure i dirigenti della Perrin Industries decidono di delocalizzare in Romania e i 1100 dipendenti sono costretti a combattere una lotta disperata, rappresentati dal portavoce Laurent Amédéo, interpretato proprio da Lindon.
Ecco, se nella presentazione ci fermassimo qui, Brizé si incazzerebbe di brutto (e a ragione) perché – ammettiamolo – il pubblico non sarebbe particolarmente invogliato ad andare a vederlo: «Guardo un film di Ken Loach perché mi parla della Gran Bretagna oggi sì, ma soprattutto perché quella realtà la descrive bene, c’è una narrazione che mi inchioda alla sedia, che mi permette di seguire e di appassionarmi alla vicenda».
Questo è esattamente quello che succede con In guerra: siamo negli uffici a trattare con i dirigenti e scendiamo in piazza con il cuore in gola insieme ai dipendenti, al suono dei tamburi: «Stephan Brizè non considera gli spettatori degli imbecilli» interviene Lindon «come non lo fa Loach, non dipinge i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, lo sporco padrone e il povero operaio, ma al contrario mostra che ognuno ha le sue ragioni, accende una luce sulla società in cui viviamo attraverso l’oggetto filmico che ha una sua componente d’intrattenimento, un percorso dei suoi personaggi, ha tutto quello che è cinema». Ad affiancare il racconto filmico c’è quello dei reportage televisivi, che mostrano la lotta ma non hanno tempo per le sfumature «e, di fatto, sono ingiusti per i lavoratori, perché condensano tutto in due minuti, scegliendo le immagini più spettacolari, gli scoppi di violenza dove sono tutti sudati e urlano» osserva Lindon.
Anche la musica arriva al cuore del film, con quei tamburi che sono parte integrante della colonna sonora: «Bertrand Blessing, un compositore che di solito lavora per compagnie di ballo, è riuscito a tradurre, l’energia, il caos, la tenacia l’orgoglio degli operai» afferma Brizé.
Il processo creativo per entrare tanto dentro situazioni così drammatiche e ostiche inizia da una serie di interviste con l’obiettivo di comprendere il sistema e assimilare il gergo, «poi cerco di costruire la storia con il massimo di onestà che risponde alla mia esigenza di fare cinema, perché l’essenziale è mostrare le argomentazioni di tutte le parti con obiettività, demandando poi allo spettatore il compito di capire dove sta la disfunzione del sistema in cui viviamo». La stessa obiettività che guida il regista nella ricerca degli interpreti, attori non professionisti, per impersonare i vari protagonisti a fianco di Lindon: «Vincent è la persona più giusta per aggiungere un’ulteriore verità, è in grado di infondere un’autenticità che altri attori non raggiungono , altrimenti sceglierei qualcun altro, è l’opportunismo che mi guida. Se poi lo circondo di altre persone che non sanno nulla di recitazione ma che conoscono invece bene per il loro vissuto la lotta di cui tratta il film, a verità si aggiunge verità».
Lindon spesso ascolta silenzioso le parole del regista e solo quando sente davvero il bisogno di dire qualcosa, lo fa, senza essere mai ripetitivo, o banale. «È come se Stephan avesse preso Vincent e avesse lo riciclato in Laurent Amédéo, il mio personaggio, con cui condivido tantissimi punti, soprattutto la collera, la rabbia che è non soltanto quella del mio personaggio ma anche quella che scatenano altre cose che ruotano intorno al mio mondo. È come se io fossi uno strumento che viene portato davanti alla macchina da presa per dar sfogo all’ira che è la sua, che è quella del regista, che è quella di tanti.. la follia del nostro mondo così individualista è che va tutto bene, a condizione è che nessuno dia fastidio al nostro piccolo orticello».