Rolling Stone Italia

Jack Nicholson, my favorite things: la storica intervista di Rolling Stone

Il rifiuto del conformismo, il lavoro solo con chi gli piace (leggi: gente come Mike Nichols e Meryl Streep), l’amore (con, all’epoca, Anjelica Huston), il basket. È il 1986 e l’attore è già il “king” di Hollywood. Questa lunga chiacchierata lo conferma

Foto: Ron Galella/WireImage

Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone US il 14 agosto 1986.

La casa di Jack Nicholson sulle colline di Hollywood si affaccia su un burrone vuoto, una prospettiva rara in queste colline troppo edificate fatte di terra e sterpaglie. Nel caldo pomeriggio in cui arrivo, sta per essere installata una recinzione di catene (non su richiesta di Nicholson, come mi verrà detto in seguito) sul tortuoso vialetto che condivide con Marlon Brando. Nonostante la recinzione e l’ispezione elettronica dei visitatori, il complesso di Nicholson – due case, una fila di pergolati per parcheggiare le auto sormontati da un campo da basket e una terrazza dotata di piscina e di una vista imponente – non ha l’aspetto di una fortezza. All’interno, le pareti sono piene di tele di artisti del calibro di Soutine, Matisse e Picasso, ma la brezza delle colline e l’informalità dell’arredamento conferiscono alla casa l’aria di un bungalow tropicale. Un cuoco è al lavoro in cucina e Annie Marshall, amica di lunga data e assistente di Nicholson, nonché figlia del defunto attore Herbert Marshall, risponde alle telefonate in uno studio vicino. Accanto al tavolo della sala da pranzo si trovano due cartonati con le foto di Nicholson e Meryl Streep nei loro ruoli da protagonisti in Heartburn – Affari di cuore, la versione cinematografica del roman à clef di Nora Ephron sul suo turbolento matrimonio con l’ex reporter del Washington Post Carl Bernstein.

Vengo informato che Nicholson è nella vasca idromassaggio, per riprendersi da una sessione di ginnastica, e faccio un giro mentre My Favorite Things di John Coltrane viene diffusa da discreti altoparlanti esterni. Quando mi volto verso la casa, l’uomo appare dall’ombra. Mi stringe la mano e si scusa per il ritardo. Vestito con pantaloni bianchi larghi e una camicia sportiva a maniche corte, ha un aspetto poco appariscente, anche quando si siede e le gambe dei pantaloni si sollevano dalle Adidas per rivelare calzini arancioni fluorescenti.

Parlerà con me per le prossime tre ore, usando pochi gesti ma spesso inarcandosi in avanti sulla sedia quando deve sostenere un punto. La forza della sua passione quando parla di cose che lo fanno arrabbiare può essere un po’ spaventosa: inizia a troncare le parole, ad arricciare le labbra sui denti e a chiudere le frasi con “amico”.

Jack Nicholson non ha molta concorrenza come star del cinema contemporaneo. È un uomo che fa il suo lavoro in modo spettacolare, senza indulgere quasi mai nelle pomposità e negli scatti d’ira tipici di altri grandi attori del grande schermo. Spesso visto come un ragazzo di strada del New Jersey che fa festa e non si fa problemi, mantenendo comunque la distanza che ci si aspetta dai “reali” della cultura pop. Quando i paparazzi lo beccano, fa spallucce e lascia che i flash scintillino sui suoi occhiali da sole, dicendoci quello che vuole con la sua bocca notoriamente espressiva.

Come lo ha descritto lo scrittore Derek Sylvester, Nicholson, “a differenza delle giovani stelle nascenti che lo hanno seguito […], è stato il capofila di due distinte generazioni di stili di recitazione. Possedeva la combattività di un Cagney, la virilità di un Garfield, il fascino diabolico di un Gable. Poteva essere elegantemente divertente come Cary Grant, goffo e scorbutico come James Stewart, lunatico e introspettivo come Paul Muni… in altre parole, è l’attore più indispensabile del cinema americano di oggi”.

È anche l’erede di quel rimuginare alienato di Brando e James Dean, ma dopo aver introittato la loro postura inarticolata (anche se brillante) nel suo mestiere, ha continuato ad ergersi sullo schermo al servizio della grande battuta, da “Lo sai? Una volta questo era proprio un gran bel Paese” (in Easy Rider – Libertà e paura) a “Sono il lupo cattivo!” (Shining). In mezzo, c’è stato tutto il tempo per altri indimenticabili sfoghi, come il suo rimprovero alla cameriera con l’insalata di pollo in Cinque pezzi facili (“Sì, voglio che tu la tenga tra le ginocchia”) o il suo brusco attacco a un barista antipatico nell’Ultima corvé (“Sono la fottuta pattuglia della spiaggia, figlio di puttana!”).

Gli Oscar per il miglior attore in Qualcuno volò sul nido del cuculo e per il miglior attore non protagonista in Voglia di tenerezza, così come le altre sei nomination, sono i tributi ufficiali di Hollywood a un anticonformista che non ha mai assecondato l’industria, e l’anno scorso ha avuto il piacere di vedere la sua compagna da oltre dieci anni, Anjelica Huston, vincere come miglior attrice non protagonista per L’onore dei Prizzi, in cui recitano insieme.

Heartburn è il suo quarantesimo film e il terzo per il regista Mike Nichols. Nicholson ha firmato il contratto pochi giorni prima dell’inizio delle riprese, dopo che Mandy Patinkin aveva lasciato il ruolo di quel marito donnaiolo. «Jack è l’uomo che prende parti che altri hanno rifiutato, o che potrebbero rifiutare, e le fa esplodere in qualcosa che nessuno avrebbe potuto concepire», dice Nichols. «Tutta la sua genialità da attore è resa invisibile dalla grandezza della sua natura – la sua generosità, la sua amorevolezza, la sua sicurezza, la sua positività – e poiché la sua natura è così generosa, tutte le decisioni “tecniche” sembrano passare in secondo piano. È questo che lo rende la grande star del cinema che è. Non si vede nessuna tecnica, sembra esserci solo la vita».

Nichols, che era determinato a non far incontrare Nicholson e Streep fino al loro primo momento davanti alla macchina da presa, racconta che il giorno della prima scena insieme alle sue star era «elettrizzato dall’eccitazione». Streep concorda, ma sottolinea che Nicholson aveva rotto il ghiaccio prima delle riprese: «Ero seduta a farmi arricciare i capelli, avevo un aspetto semplicemente orribile, quando ho sentito bussare alla porta ed era lui, che mi ha detto: “Salve, sono Jack Nicholson. Posso usare il tuo bagno?”». Il Jack Nicholson che seduto a chiacchierare questo pomeriggio è, inequivocabilmente, lo stesso spirito libero che Streep ha incontrato quel giorno.

In Heartburn, il tuo ritratto del “finto Carl Bernstein” sembra davvero a tutto tondo. Ma se ti chiedo quanto c’è del vero Bernstein, suppongo che mi risponderai: “Pochissimo”.
Ti dirò che non c’è nulla. Sono stato specificamente ingaggiato per non interpretarlo. Mike, Nora e Meryl erano molto preoccupati di trasportare quella storia nella finzione. E dato che non volevo fare un ritratto biografico con solo un paio di giorni di preavviso, mi andava benissimo così.

Avrai comunque dovuto concentrare una grande preparazione in meno di una settimana.
Ho iniziato a lavorare tre giorni dopo aver letto la sceneggiatura… non ho mai letto il libro fino a metà delle riprese. Questo è il mio terzo film con Mike, e ho sempre desiderato lavorare con Meryl, e questo mi ha spinto a farlo: forse non avrei mai fatto questa parte, in altre condizioni. È stato interessante per me, in questo caso, partire semplicemente da qualcosa di instintivo. Di solito la cornice del tuo lavoro è costituita da mesi di preparazione. Non si fanno molte esperienze insolite come questa, quando si è a un certo livello.

Mark, l’editorialista che interpreti nel film, sembra quasi posseduto – felice, ma con una punta di maniacalità – nella scena in cui Meryl, nei panni di Rachel, gli dice di essere incinta, ed entrambi iniziano a cantare mangiando la pizza con una cazzuola.
Be’, è stata forse una delle ultime tre o quattro scene che ho fatto nel film. Meryl, in un certo senso, cantava peggio di me: e naturalmente come cantante ha quasi lo stesso talento che ha come attrice. L’ho vista ai suoi esordi in una commedia musicale, Happy End di Brecht, e l’ho trovata bravissima. Ma quando la scena continua, si spera, nell’ilarità generale, ho scelto di cantare il meglio che potevo senza… [la sua voce scende in un baritono teatrale] finire dalle parti di John Raitt. Mike ha proposto che mangiassimo la pizza, e Meryl, credo, ha suggerito di farlo con la cazzuola, perché il fatto che la casa venga costruita per anni è una parte importante della storia. Questo è il modo in cui si lavora sul set, aggiungendo sempre qualcosa a una scena.

Un altro momento cruciale del film è la comparsa di Mark a New York per riconciliarsi con Rachel. C’è una particolare sensazione di elettricità tra i due, come se il loro intero futuro insieme dipendesse da quei prossimi due minuti.
Quella scena è stata per me la più difficile. Sentivo che doveva succedere qualcosa, ma francamente non so se ci sono riuscito. Quando un attore si sente a pezzi o bloccato, deve cercare di uscire da sé stesso. Quindi osservavo Meryl molto attentamente e pensavo: “Accidenti, non sono ancora arrivato al punto in cui vorrei”; ma vedevo che lei era davvero in gran forma. Così, per essere un po’ più positivo, mi sono detto: “Meryl è fantastica in questa scena, e quindi sarà montata bene”. Forse io non ho fatto un gran lavoro, ma lei mi ha “coperto” con la sua straordinaria abilità. Alla fine, quella scena è abbastanza buona e io non sono male e, cosa più interessante, quello che volevo mettere in quella scena si è verificato, all’improvviso, in un’altra.

E cioè?
Nella scena in cui lei ha il secondo figlio. È venuto fuori lì.

Qual è il succo dei loro sentimenti? Un grande amore, nonostante i tradimenti di lui?
Penso sia la sincerità di entrambi all’interno della loro relazione. Qualunque cosa accada nelle storie d’amore, ci sono alcune cose che restano primarie… si può incidere su di esse, o comprometterle, ma restano la base della connessione tra due persone.

Heartburn è un film insolito perché non sembra essere stato confezionato, come molti film di oggi, per attrarre un pubblico specifico.
Be’, al giorno d’oggi agli Studios interessano solo film confezionati per un pubblico più ampio possibile. Io cerco di contrastare questa logica. Ecco perché mi piace Heartburn. È una storia vera che parla di quest’epoca precisa. Non è né un film per adulti né un film per ragazzi; non è un film uguale a mille altri. È solo un film su un argomento che è di attualità per tutti, uomini, donne e bambini. Questo tipo di film non capita spesso, tra le proposte che ti vengono fatte.

Ritieni che la “confezione” di cui parli sia una delle ragioni per cui si dice che i film stanno perdendo la loro magia?
Ci sono milioni di motivi, ma è tutto… vedi, il nostro Paese sta diventando corrotto poco a poco per colpa del pensiero unico. Guardate la Columbia [Pictures]. La Coca-Cola ne è proprietaria. La Coca-Cola possiede anche parte della Tri-Star. La Coca-Cola gestisce i suoi affari in base alla quota di mercato. Punto. Questo è il loro modo di operare. E né tu né io lo cambieremo. Tutto questo non è nulla a che fare con il cinema. Ed è qui che il business viene compromesso. Tutti questi uomini di cui leggete sui giornali, che sono i capi degli Studios – e io l’avevo previsto quattro o cinque anni fa, quando stavano cercando di tagliare i miei cachet – ecco, tutti questi deal maker vogliono essere i veri protagonisti. Sono sulle copertine delle riviste. I loro stipendi sono diventati quotazioni. Perché? Perché non si tratta più di film.

L’industria cinematografica non è forse stata così fin dall’inizio?
Quando Harry Cohn, Louis B. Mayer, Darryl Zanuck e tutti gli altri [produttori] gestivano l’industria, io ancora non lavoravo, quindi non so se era meglio o meno. Ma almeno facevano film. Ogni uomo a capo di uno Studio era anche un giocatore d’azzardo. Non guadagnavano quote di mercato con vendite di ritorno o finanziamenti e garanzie incrociati. Ora non c’è nessuno che giochi d’azzardo. Tutti puntano sempre al massimo. Prima di ora, il dibattito era se si dovesse andare avanti e fare un film – a prescindere dal fatto che si pensasse o meno che sarebbe stato redditizio – perché quel film era valido. Ebbene, questo dibattito non è più in corso. Chiunque vi dica che esiste ancora vi sta mentendo o non capisce la situazione. Non c’è più nessuno che voglia correre questo tipo di rischio.

Vedi un legame tra questi nuovi cinema multisala, con i loro schermi minuscoli, e la banalità del prodotto cinematografico confezionato dagli Studios?
Sai, a me piace il grande schermo, davvero. Al mondo mancherà l’esperienza del cinema. So che io preferisco ancora andare in un cinema con uno schermo decente. Se non riuscite a capire che è più divertente sedersi a guardare un film al Paramount Theater di New York che sedersi in una sala da bowling davanti a uno schermo grande quanto un francobollo, be’, allora non riesco a spiegarvi il punto. Il punto è che la vostra vita, la vita dello spettatore, è stata degradata.

Forse è per questo che molte persone preferiscono stare a casa a guardare i film in televisione.
La televisione non è un sostegno per il cinema; è un’industria competitiva che ha divorato il cinema come un cancro da quando ho iniziato a lavorare, negli anni Cinquanta. E si dà il caso che io sia anacronisticamente innamorato del cinema, quindi non sopporto affatto tutta questa storia dell’home video. Tutti dicono che è ottima per la forza lavoro, ma io non sono entrato in questo settore per far parte di un pool di lavoratori sindacali: ci sono entrato per essere un artista. Il cinema ha venduto il suo futuro a così poco prezzo per così tanto tempo che è quasi inutile commentarlo.

Ora che la maggior parte dei tuoi film sono usciti in videocassetta, prevedi almeno di ricavarne altri soldi?
Non me ne frega un cazzo. Sono così arrabbiato nei confronti delle VHS… L’onore di Prizzi è una delle videocassette più vendute in Brasile, e nessuno ne possiede i diritti. È piratato al 100%. I miei film vengono riprodotti in continuazione e non mi pagano per questo, il che non fa altro che danneggiarmi. Voglio dire, cosa vedrebbero sulla Tv via cavo se non ci fossero i film? È la fine del settore cinematografico.

Sembra che tu stia dicendo che il declino del cinema è un indice della nostra discesa in una sorta di incubo orwelliano.
È così evidente, basta attraversare l’America. Andate a Kansas City: c’è questa autostrada a sei corsie che gira intorno alla città, e lungo di essa sfilano posti con insegne luminose con sopra scritto Radio Shack e Chicken-Bicken e Roller Skate World. Questo è l’aspetto dell’America di oggi. Non mi piace quello che quei posti hanno fatto all’America: hanno trasformato tutti in fottute falene impazzite davanti a un flipper.

Ma le aziende che hanno aperto quei posti in franchising ti diranno che stanno creando posti di lavoro.
Ok. Va bene. Una volta la vita era lavorare fino alle cinque e poi ci si doveva divertire, nutrire, svagarsi. Gli americani non capiscono il tempo libero. Non ne hanno la minima idea. Capiscono il lavoro, capiscono lo sport, capiscono l’amore, ma non capiscono il tempo libero. L’alfabetizzazione è in calo. Queste non sono cose reversibili. Queste sono le nostre vite. Non so quale sia il salario minimo oggi, ma davvero il lavoro è Dio? La gente vota come se lo fosse. Ronald Reagan è un voto “commerciale”. La gente guarda quel Nicholson laggiù che urla e dice: “Cosa fa?”. Niente, se ne sta seduto a lamentarsi. Almeno un tizio che lavora in banca con un bel vestito a righe e tiene pulito il giardino di casa… ecco, quello è un tipo a posto. Chi sono questi fanatici? Che cosa fanno? Torniamo là dentro e compriamoci un bel paio di scarpe. Lasciamo che sia l’omone con il vestito a righe a dirigere le cose, così sarà tutto più tranquillo. Be’, amico, questo non ha mai funzionato in passato e non funzionerà in futuro. Sogna, sogna. Non posso farci niente. Capisco i numeri. L’anno prossimo compirò cinquant’anni. Ne ho appena compiuti quarantanove. Non c’è tempo per cambiare le cose. Ho fatto la mia parte. Ho urlato a squarciagola per dieci, quindici anni. Ma non mi arrendo. Il bambino in terza elementare sa che se prende un buon voto in un test di ortografia, vent’anni dopo potrà avere un bel lavoro alla Mitsubishi. Tutto qui, non cambia. Ecco cos’è un monopolio. Ma, amico, se non siamo una nazione di idealisti che combattono contro queste cose, credo sia perché non capiamo più quanto ci costa. In ogni modo, non volevo parlarne in modo così violento. Ma il quadro è chiaro, ecco…

Non vedi il tuo lavoro come la possibilità di fare film sulla vita reale delle persone?
Faccio ancora i film che voglio fare. Mi sto solo chiedendo: com’è la vita di tutti i giorni? Dov’è l’intelligenza collettiva? Io me la cavo bene. Ho rispetto per me stesso e per i miei collaboratori, come Mike e Meryl. Ma non smetto di riflettere su queste cose. La vita si impara, si sviluppa piano piano. Una volta superato il ballo del liceo, quello che fai da solo è ciò che dà qualità alla tua esistenza. Devi imparare a ballare. Devi imparare a leggere un libro. Devi imparare ad apprezzare la musica, ad arricchire la tua mente per poter conversare con gli altri.

Ho sentito di recente qualcuno definirsi un anarchico conservatore. Mi chiedo quale sia la tua posizione politica.
Sto facendo ricerche per il film a cui sto lavorando ora (Le streghe di Eastwick, tratto dal romanzo di John Updike, nda). Farò la parte del diavolo. Ho letto un sacco di libroni scritti da studiosi del Medioevo. Una delle cose in cui mi sono imbattuto è l’annoso dibattito sulla definizione di Dio. E l’unica cosa che sono riusciti a fare è teorizzare che tutto ciò che di certo si può dire su Dio dev’essere supportato dal suo paradossale opposto. Ed è questo il senso della vita, questo paradosso. Credo che mi si possa definire un liberale, o almeno ero così all’inizio. Ero assolutamente contrario alla pena capitale. Tuttavia, sono d’accordo con Reagan sui terroristi. Queste persone non sono criminali che si mettono contro gli Stati Uniti: sono criminali che si mettono contro il mondo. E questo è un degrado per tutta l’umanità. Nella Seconda guerra mondiale si torturavano gli uomini; in Vietnam si torturavano i figli davanti ai padri. Questo è indice di un declino generale della civiltà.

Nonostante tutto questo, i tuoi amici sottolineano la tua “positività”.
In me c’è molto spazio per l’ottimismo. Mi piace l’opportunità di lavorare con Meryl Streep. Per chi fa quello che faccio io, è una vita che si desidera una cosa del genere, e quando arriva la si vuole assaporare a pieno. Sono una persona semplice anche nel mio lavoro. Non butto il tempo in pensieri negativi. Mi è successa una cosa molto bella. Non voglio che il fatto di vedere quest’infinito caos nel mondo mi renda incapace di esprimere ciò che francamente ritengo meraviglioso. Sono una persona molto fortunata – statisticamente impossibile da descrivere, per quanto è fortunata – a essere dove sono e a fare quello che faccio.

E senti che il tuo lavoro può contribuire a fare la differenza.
Il mio primo insegnante di recitazione diceva che tutta l’arte è una cosa sola: un punto di partenza stimolante. Tutto qui. E se riesci a mettere questo in un’opera, hai adempiuto al tuo obbligo culturale e sociologico di lavoratore. Quello che si suppone è che le persone si interessino in modo vitale al mondo in cui vivono. Il film che ho scritto con tanta pretenziosità da giovane, Le colline blu, era ispirato al mito della montagna di Sisifo: spingi un masso verso l’alto, e lui rotola giù; lo spingi di nuovo verso l’alto, e torna giù ancora. La dignità dell’uomo sta nel viaggio verso la montagna, nel ritorno alle proprie fatiche. È qui che gli artisti dovrebbero essere utili: non nel rendere le persone non necessariamente felici, ma nell’arricchire la loro vita.

E anche la tua.
Comincio a pensare: “Ehi, Jack, nessuno ha bisogno di te”. Devi ricordarti che sei solo, tutto qui. Le amicizie sono un di più, l’amore è un di più, i contatti con gli altri esseri umani e gli eventi della tua vita sono tutti un di più. Devi fare la tua parte nel miglior modo possibile. La mia vita è arricchita dai miei amici: [lo sceneggiatore-produttore] Don Devlin, il mio socio Harry Gittes… sono trent’anni che ci conosciamo e fanno ancora tutti parte della mia vita. E non gliene frega un cazzo [dei miei film], anzi: i miei amici più stretti sono probabilmente quelli che amano di meno quel che faccio. Litigano sempre con me per questo. Non credo che questo significhi che non gli piaccio più, o che non vogliono vedermi fare il mio lavoro. Al contrario. Spero di prendere da loro ciò che è positivo, o almeno stimolante, e di crescere grazie ad esso.

The Two Jakes, il sequel di Chinatown che avevi progettato di realizzare con lo sceneggiatore Robert Towne, ha lasciato una piccola frattura tra te, lui e il produttore Robert Evans. Avete anche lasciato in sospeso un terzo film che avrebbe completato la saga. Cosa ha fatto saltare l’accordo?
Non ne ho parlato molto finora e non intendo farlo qui. Ad essere sinceri, tra le altre ragioni ci sono i problemi legali in corso. Credo che sarebbe imprudente da parte mia dire qualcosa di diverso dal fatto che semplicemente, dal punto di vista creativo, non siamo riusciti a fare il film. Ci sono milioni di ragioni per cui i film vanno bene e altrettante per cui non vanno bene, e molte di queste fanno parte di questa storia.

Parliamo allora di Chinatown come grande opera drammatica.
È stato, da parte mia, una sorta di “patto teatrale”. Dopo Chinatown, non ho interpretato nessun altro detective per rispetto al personaggio di Jake Gittes. L’obiettivo dei tre film è sempre stato quello di mostrare la storia della California meridionale – a partire dalla questione dell’acqua – attraverso questo personaggio centrale, un investigatore privato, e le correnti sotterranee che un po’ alla volta affiorano. Il tema dell’acqua è reale; il tema di The Two Jakes sarà il petrolio. Robert sa già, come lo so io, qual è il terzo film. Abbiamo sempre tutti voluto che io interpretassi quel personaggio nelle sue diverse età. Ci sono undici anni di distanza tra le due storie, dal ’37 al ’48, e sono passati undici anni da quando abbiamo girato Chinatown. È una cosa che non era mai stata fatta prima.

Ma fino ad allora continuerai con gli altri progetti.
Sì, farò Le streghe di Eastwick, che sarà diretto da George Miller, e Ironweed, che sarà diretto da Hector Babenco. Molto ha a che fare con il fatto che Anjelica ha ripreso a lavorare. Forse non avrei accettato tanto lavoro, ma non voglio stare con le mani in mano mentre lei lavora… quindi sto accettando un po’ più di quanto potrei. Non mi piace avere tanto lavoro come attore perché spero ancora di dirigere film, ma queste sono parti interessanti, e sono entusiasta di collaborare con nuovi registi. Ho deciso che lavorerò solo con persone che mi piacciono molto.

Nei tuoi due anni di assenza dai set prima di Voglia di tenerezza hai sciato moltissimo ad Aspen, e poi cos’altro hai fatto?
Ho trascorso un’estate meravigliosa con una delle mie persone preferite, che è venuta a mancare quest’anno, Sam Spiegel (il produttore di Fronte del porto e La regina d’Africa, nda). Quest’anno ho perso tre dei più grandi uomini della mia vita: Sam Spiegel, Orson Welles e Shorty Smith (lo zio di Nicholson, nda). Si dà il caso che fossero tre anziani con cui sono andato molto d’accordo per un lungo periodo di tempo. In quei due anni credo di aver trascorso un’intera estate con Sam. È stato una grande fonte di ispirazione per me: quelli che ha fatto negli anni Cinquanta erano “i film”. La lezione di Sam per me è stata sempre quella di puntare sulla qualità. I produttori non sono più così. Ho a che fare con ragazzi che dicono: “Senti, lascia che me ne occupi io, so come ragiona lo Studio”.

Quindi, oltre a goderti la compagnia di Spiegel, stavi anche incamerando consigli per il futuro. Ma ti mancava lavorare, in quel periodo?
Tutti mi dicevano: “Non riuscirai a non lavorare per sei mesi, sarai un uomo morto”. Be’, non mi è mai mancato. E quando sono tornato al lavoro, è stato fantastico. Ho parlato con Jim Brooks (il regista di Voglia di tenerezza, nda) e ci siamo accordati al telefono. Non l’avevo mai visto in faccia e, non so se gliel’ho mai detto, non sapevo cosa facesse prima: come dicevo, ignoravo la televisione. Ma a Jim questo non importava. Brooks è un genio, secondo me. Appena ho parlato con lui ho capito: “Questo è un tipo con cui mi divertirò a lavorare”. È un artista che si mette costantemente in discussione, approfondisce, discute con sé stesso e, quando si tratta di un attore, sa subito se funziona. È emozionante vedere gente come lui lavorare. Sono contento di aver visto Antonioni felice mentre era sul set, di aver visto Stanley Kubrick deliziato, di aver visto John Huston comandare… questa è la cosa più bella del mio lavoro.

È il lato positivo di cui parlavi. È come se i set cinematografici rappresentassero per te un’utopia possibile. Hai avuto lo stesso senso di comunità, crescendo sulla costa del New Jersey?
Sono cresciuto fino all’età di cinque anni a Neptune. Ma quando arrivai a un certo punto dell’età scolare, la signora Nicholson decise di trasferirsi a Neptune City, un posto un po’ più… “benestante” è la parola sbagliata, ma ecco, un contesto migliore per un bambino.

Per ribadire le tue origini, in modo da chiarire le cose: non hai mai conosciuto il tuo padre naturale. La tua vera madre – June – era la donna che credevi fosse tua sorella. La donna che chiami “signora Nicholson” – Ethel May, che tu chiamavi Mud – era in realtà tua nonna, e suo marito, presentato come tuo padre, era un tipo che beveva molto e non c’era mai. La terza donna del triumvirato che ti ha cresciuto era la sorella di June, Lorraine. Una grande famiglia, ma nessun vero padre….
Be’, avevo Shorty. Era sposato con Lorraine. Lui, credimi, è il padre migliore che si possa avere. Posso essere duro con la mia famiglia o i miei amici – sono abbastanza obiettivo – ma non c’è nessuno che mi abbia colpito quanto Shorty. Era un ragazzo semplice, ma ha fatto nascere in me i sentimenti più alti e più puri.

Sapeva di essere diventato una specie di protettore per te?
Be’, non si sarebbe mai assunto questo ruolo. Sarebbe stato troppo pretenzioso per lui. Non voleva prendersi il merito. Quando sono andato al suo funerale, ho incontrato persone di sessant’anni che lo conoscevano da quando era alle elementari, e tutto quello che avevano da dire era: “Shorty si divertiva sempre”. Ora, Shorty non è quello che un corso di educazione civica sceglierebbe come modello. Era un operaio delle ferrovie che beveva gin e stava seduto tutto il giorno a torso nudo a dire stronzate. Ma tutti amavano Shorty. Fu il primo giocatore di football all-state della regione e rimase sempre a vivere a Neptune. Era, a suo modo, un uomo molto intelligente. Aveva una comprensione – innata, non consapevole – della vita.

Il tuo padre naturale era una persona che non hai mai incontrato e di cui non hai saputo nulla fino al 1975 circa.
Sia mia nonna che mia madre sono morte prima che io scoprissi questi ulteriori dettagli. Sono rimasto molto colpito dalla loro capacità di mantenere il segreto. Mia madre ha fatto grandi cose per me. Non ho più bisogno di mettere in discussione la questione dell’aborto, nella mia mente. Per me è un caso aperto e chiuso. Come figlio illegittimo nato nel 1937, durante la Depressione, in una famiglia di classe medio-bassa, sei un candidato all’aborto automatico, per la maggior parte delle persone oggi. Quindi non voglio entrare nel dibattito, perché per me non è una questione facile.

Sembrano un gruppo di donne formidabili.
Erano donne forti, che si sono fatte strada da sole in un periodo in cui non era semplice. Lo hanno fatto senza conoscenze. Ethel May Nicholson fu diseredata per aver sposato un cattolico irlandese, perché la sua era una famiglia protestante olandese della Pennsylvania, e tutto ciò non era ammesso. Credo si sia sposata molto giovane. E da quel momento non vide mai più quella ricca famiglia della Pennsylvania. Perciò il mio modello di donna è la donna indipendente: per me è stato così fin dall’inizio. C’era Mud, che si portava tutti sulle spalle come un piccolo elefante, e non sembrava preoccuparsi. È sempre andata avanti senza lamentarsi, anzi divertendosi molto. Il quartiere le idolatrava. Mud era la santa patrona del quartiere, chiunque avesse un problema veniva di corsa nel suo negozio di bellezza e lei glielo risolveva. Sono molto fortunato ad aver avuto un ambiente così insolito in cui crescere. Molto libero, pieno di fiducia nella vita.

Potevi parlare dei tuoi problemi con loro?
Ho dovuto farlo. Volevano sapere. A volte mi tenevo tutto dentro… sai, era un ambiente molto irlandese, molto razionale.

Una volta trasferitoti a Neptune City, come sono cambiate le cose?
Ho iniziato il liceo nel 1950. L’essere cool è stato inventato in quel periodo. Il rock’n’roll non è nato con Elvis Presley. Per quella fascia d’età, Elvis Presley era una figura secondaria rispetto a Ray Charles. E poi c’era Johnnie Ray. È in questo periodo che tutta quella roba ha iniziato a girare. Non era così diffusa, ma questo è il periodo seminale. Il mio gruppo di amici era tutto. Non eravamo dei ribelli, a parte il taglio di capelli…

Come ti vestivi?
Mi piaceva andare a scuola con un paio di pantaloni blu navy con i risvolti, un maglione a collo alto nero o blu, magari con un cappotto grigio sopra e un cappello nero da porkpie che avevo preso in autostrada in un incidente automobilistico che aveva coinvolto un prete. Quando c’erano le feste, si prendeva il vestito più bello che si potesse trovare. Sempre a pieghe, plissettato, di camoscio blu, con la cravatta sottile, le spalline e un bottone davanti.

Assomigliavi a Jake Gittes?
Be’, l’abbigliamento di Jake Gittes era simile a quello di mio nonno-padre (il coniuge ribelle di Ethel May, nda), che chiameremo signor Nicholso: prima di avere i suoi problemi nella vita, vinceva spesso la parata di Pasqua di Asbury Park come uno degli uomini meglio vestiti. Lo stile di Gittes, che è quello degli anni Trenta più che degli anni Quaranta o Cinquanta, si rifà a quell’uomo, che era molto elegante. Sai, i capelli impomatati… l’ho usato molto come modello di stile, per essere un uomo che non ho visto molto. Gli occhiali di Easy Rider erano i suoi occhiali.

Non letteralmente?
Non letteralmente, ma vake lo stesso. Avevo bisogno di sembrare più adulto per quel personaggio, ero molto più giovane del ruolo che stavo interpretando. Ma facevamo di tutto: coi miei amici andavano a New York nei fine settimana, ci ubriacavamo, vedevamo le partite di pallone, andavamo in giro… la scuola era finita, andavamo in spiaggia tutta l’estate. Ci divertivamo, ci sbronzavamo ogni sera. Era l’epoca in cui essere cool era tutto. Colletti su, occhi giù. Non lasciavi mai trapelare quello che ti dava fastidio.

E in spiaggia cercavi di rimorchiare le ragazze che venivano da Camden o giù di lì?
Teaneck. E quando sono diventato un bagnino, cosa che è avvenuta più tardi, sono diventato il principe dell’estate. Sai, non mi è servito a molto…

Avevi gli occhiali da sole e tutto il resto?
Ci puoi scommettere. Dove lavoravo, a Bradley Beach, una barca rimaneva al largo e teneva la gente vicina alla spieggia. Tu ti mettevi in piedi sulla barca, Mr. Cool, e guardavi tutto… ero solito “imbarcare” la gente, in piedi con un cappotto di lana nero, non importa quanto fosse caldo, e un cappello da carcerato. Avevano appena lanciato gli occhiali da sole a specchio. Deve essere stato lo spettacolo più divertente di tutti i tempi. Avevo sedici anni, ma pensavo di essere la morte in persona (ride), mentre facevo la guardia a queste persone.

Poi sono arrivate le ragazze….
Era una grande occasione per fare colpo sulle ragazze. Ma, come la maggior parte dei ragazzi di quella generazione, non credevo di essere bravo in nulla. Ci è voluto un po’ per scoprire che tutte quelle persone ti stavano mentendo [sulle loro imprese]. Se sei un certo tipo di persona, non menti. Io non avrei mai potuto inventare storie del genere Era sicuramente un periodo diverso, dal punto di vista di come gli adolescenti affrontano le prime esperienze sentimentali.

Da lì sei andato direttamente in California, all’età di sedici anni.
Sono venuto qui perché avevo capito che non volevo andare all’università: lavoravo da quando avevo undici anni. Avevo ottenuto un punteggio molto alto agli esami della commissione universitaria, quindi c’era un certo interesse per me dal punto di vista accademico, ma avevo un pessimo comportamento e non avevo mai letto libri. E poiché la mia unica parente al mondo era June, che si trovava qui, venni a dare un’occhiata da queste parti. Non credo di aver mai lasciato Inglewood, nei primi sei mesi in cui sono arrivato a Los Angeles. Andavo all’ippodromo, alla sala da biliardo…

June viveva lì con…
Con i suoi figli, da sola. Mi chiedevo cosa avrei fatto, e poi ho trovato lavoro nel reparto cartoni animati della MGM, e in quel periodo ho visto tutte le star del cinema più famose. Mi sono preso una cotta per Grace Kelly, per Rita Moreno….

Ciò che colpisce dei tuoi esordi è che i primi amici che ti sei fatto sono ancora presenti nella tua vita.
Bill Hanna e Joe Barbera, attraverso il reparto talenti dello Studio, mi hanno fatto iniziare a lavorare al Players’ Ring Theater come apprendista, e da lì ho frequentato i corsi di Jeff Corey, dove ho conosciuto Robert Towne, [la sceneggiatrice] Carol Eastman, John Shaner, che ha scritto Verso il sud, molte delle persone che fanno parte della mia vita ancora oggi.

Non molto tempo dopo aver lasciato la MGM, hai ottenuto il ruolo di protagonista in The Cry Baby Killer, un film prodotto da Roger Corman, il re dei B-movie.
E ho pensato: “Ci siamo: sono destinato a fare l’attore”. Poi non ho lavorato per nove mesi, un anno… non ho più guadagnato un centesimo. Ho vissuto con la disoccupazione, e sono entrato nel corso di recitazione di Marry Landau, dove ho incontrato Harry Dean Stanton. Avevo visto Harry gironzolare sulla sua Porsche, era un tipo notturno e problematico. Abbiamo iniziato a frequentarci. In quel corso ho conosciuto la mia ex moglie, Sandra Knight Nicholson, e Millie Perkins, persone che fanno parte della mia vita ancora oggi. Don Devlin e Harry Gittes sono entrati nella mia vita qui, in una casa che gestivamo tra la Fountain e la Gardner, che per un periodo è stata la casa più folle di Hollywood.

Il resto della tua famiglia si era già trasferito in California?
Mud era arrivata in California, dove aveva contratto una malattia mortale. Fu in qualche modo assistita da June, e poi nel mentre, ironia della sorte, June si ammalò di cancro e morì prima di Mud. Io iniziai le riprese di Una nave tutta matta e June morì mentre ero in volo per il Messico. Il giorno in cui tornai da quel set, sei o sette settimane dopo, nacque mia figlia.

Quando sei finito a Laurel Canyon a vivere con Stanton?
Quando io e Sandra abbiamo deciso di divorziare. All’epoca facevo due lavori, e molto è dipeso dalla pressione che ne derivava. Non lavoravo da un po’, e ricordo che ero fuori sul prato con [l’attore] John Hackett e stavamo sistemando i freni della mia Karmann Ghia… un’impresa enorme per risparmiare cinquanta dollari. Quel giorno ottenni due lavori. Uno per scrivere un film (Il serpente di fuoco di Roger Corman, nda) e uno per recitare in un altro (The Rebel Rousers di Martin B. Cohen, nda). La scena di Shining in cui dico “Ogni volta che sono qui e mi sentite battere a macchina…” è ispirata a questo periodo della mia vita.

La scena in cui dice alla moglie di lasciarlo in pace quando lavora?
Sì, è una scena che mi piace molto. Più tardi, con Stanley Kubrick, abbiamo scritto insieme quella scena… una scena che in qualche modo simboleggia il mio stesso matrimonio. Ero sotto pressione per terminare quella sceneggiatura, e stavo recitando in The Rebel Rousers, un film d’improvvisazione con Harry Dean e Bruce Dern… credo sia l’unico mio film che non ho mai visto. Quel periodo è stato un incredibile incastro di ore e ore, per rispettare le scadenze della scrittura e poi alzarmi e andare a recitare. La maggior parte del mio divorzio è finita nel Serpente di fuoco. Quindi avevo bisogno di un posto dove stare. Ho provato a trasferirmi da Towne, ma è durato solo un giorno… non credo che per nessuno sia particolarmente facile vivere con lui. Con Harry Dean fu molto facile. Viveva nella sua casa in fondo a Laurel Canyon già da un anno o due quando mi trasferii, e non aveva ancora disfatto le scatole. Il soggiorno era completamente spoglio. Ho scritto Il serpente di fuoco in un angolo, su una scrivania. C’era un giradischi per terra e io ballavo, e poi tornavo a scrivere come un ossesso.

Quanti anni aveva tua figlia quando avete divorziato?
Jennifer aveva circa cinque anni.

Ora ha ventidue anni?
Sì. Ha frequentato il liceo alle Hawaii e non l’ho vista molto. Ora la vedo di più. Sta iniziando a lavorare come apprendista scenografa nei film. Le è stato offerto di andare a lavorare come assistente sul set di Miami Vice. Non so cosa farà, ma sono molto colpito da lei.

Cosa le hai detto sugli uomini?
Non molto. Mi ha frequentato molto e io non le ho mai nascosto nulla, quindi ormai dovrebbe avere un quadro abbastanza chiaro.

L’eccesso di lavoro che ha portato al divorzio ha dato il via a un periodo molto produttivo per te.
Le due cose si sono sovrapposti. Non ho avuto più un attimo di pausa. Facevo parte di un movimento cinematografico underground molto fertile che esisteva davvero solo in quel periodo. Sono entrato nel cast di Easy Rider perché avevo fatto tutti questi film underground. Avevo prodotto due western (Le colline blu e La sparatoria, entrambi del 1965, nda) nel bel mezzo del mio divorzio. Bert Schneider e Bob Rafelson (i coproduttori di Easy Rider, nda) pensavano che fossi un buon attore, ma mi vollero sempre con loro a cercare le location, per aiutarli nella produzione. Sapevo che il film sarebbe stato enorme perché avevo fatto un film sulle moto che aveva fatto otto, dodici milioni di dollari, un incasso enorme a quei tempi. Dennis Hopper ne aveva fatto un altro, e anche Peter Fonda. La Hollywood “normale” non c’era ancora arrivata. Fu una progressione nel genere, come Ombre rosse lo fu per il western: lo elevò di una tacca.

Easy Rider valse a Hopper il premio come miglior regista esordiente a Cannes e fece di te un volto su cui tutti iniziarono a puntare gli occhi. E tu ne approfittasti pienamente.
Ero pronto. Lavoravo già da un po’. Ho capito subito: “Ho lavorato così duramente per diventare un attore conosciuto che ora che è successo devo seguire questa strada”.

Qual è la cosa essenziale che diresti oggi a un attore alle prime armi?
Be’, non gli darei nessuna regola. Perché… sarebbe come prescrivergli una legge. Ho diretto attori che non avevano mai recitato in un film e quello che ho imparato è: “Se davanti a una scena hai un impulso, non importa quanto sia giusto o sbagliato, seguilo”. Non siamo su un palcoscenico. Cerco di dire loro dove sta la libertà, piuttosto che la costrizione. È da qui che nasce l’imprevedibilità, è da qui che nasce l’incidente fortunato.

È forse qualcosa di simile al famoso discorso dell’insalata di pollo in Cinque pezzi facili?
Quella è autobiografia al 100%. A quei tempi, facevo questo genere di cose. Anche Rafelson lo faceva. Carol Eastman, che ha scritto la sceneggiatura (con il nome di Adrien Joyce, nda) ne era a conoscenza.

Per la maggior parte della tua carriera c’è stata questa dicotomia: il tuo nome è uno dei sinonimi di “box office”, ma sei sempre visto come un anticonformista che cerca film fuori dagli schemi.
Devo sempre trovare una valida ragione etica per fare quello che faccio. È meglio se sei totalmente d’accordo con i princìpi etici di un’opera, anche a volte è difficile capire dove si trovi. Ho interpretato Il postino suona sempre due volte, diciamo, in un modo molto meno romantico di quanto non fosse mai stato fatto prima. Insomma, si tratta di un omicidio. Ecco perché nella prima scena rubo le sigarette al tizio che mi sta dando un pasto gratis, senza nemmeno pensarci. Rafelson ha cercato, come fanno tutti, di farmi dimagrire per quella parte. Ma ho trovato interessante rompere il cliché dell’uomo della strada smunto e depresso. Perché questo tizio sarà anche un barbone, ma non ha mai saltato nessun pasto.

Ora reciterai in Ironweed, tratto dal romanzo di William Kennedy, ancora al fianco di Meryl Streep. Interpreterai Francis Phelan, un tragico vagabondo: come ti stai preparando per questo ruolo?
Una cosa che non faccio mai è fare due lavori alla volta. Devo capire bene il personaggio per sapere se voglio farlo. È sempre il regista che mi stimola. Quindi, quando parlo con qualcuno, in questo caso Hector [Babenco], che ha un tono e un gusto diverso per quello che vuole fare, rispondo sempre alle sue richieste. Una volta che sono dentro, tutto quello che voglio sapere è quello che vuole il regista. Non voglio essere io a privarlo della possibilità di esprimere la sua visione, che sia o meno la mia. Tutto il mio mestiere si sviluppa per essere in grado di fare quello che vuole il regista.

Anjelica sta lavorando sulla East Coast con Francis Coppola in Giardini di pietra, quindi siete molto lontani. Immagino che il suo Oscar abbia avuto un certo impatto: lei era molto felice la sera in cui l’ha vinto.
Non ho mai vissuto un momento più bello. Non ho mai provato altro che ansia e una sorta di disgusto, quando sono andata alla cerimonia degli Oscar. La vita ti concede pochissimo tempo per trarre puro piacere da questo genere di cose… non cambiano il mondo, ma non si può dire che non facciano piacere. Una delle grandi soddisfazioni per me è stata quella di condividere con lei questa gioia. Non mi piace avere a che fare con le attrici, non perché non le ritenga meravigliose, anzi. Passo la maggior parte della mia vita con loro e penso che siano fantastiche. Ma so anche quanto è impegnativo [il nostro lavoro].

Non vorrei aprire una ferita, ma la stagione dei Lakers si è conclusa in modo piuttosto brusco, con quel pazzesco turnaround jumper di Ralph Sampson. Scrutavo lo schermo del televisore per cercare di cogliere la tua espressione.
Amico, sono stato il primo in tutto il palazzetto a sapere che era finita. Se guardi bene il filmato te ne accorgi. I Lakers stavano per fare la Storia e hanno perso la loro occasione… ma non voglio deprimermi.

Che cosa ti affascina del basket?
È la cosa più competitiva del pianeta. Ecco cosa mi piace…. Larry Bird è così concentrato. Bird è come me… qualcuno ha detto di lui che Bird non viene per giocare, ma per vincere.

Hai mai parlato con lui?
Non mi piacciono i retroscena e non mi piacciono gli spogliatoi. Ma l’anno scorso volevo congratularmi con loro, così sono andato nel loro spogliatoio dopo la partita e gli ho parlato, sì.

Come ti è sembrato?
Duro. Sono dei duri. Sono quelli che si divertono di più, che hanno il minor numero di contrasti nella loro squadra, e questa cosa si sente.

Il tuo essere un così celebre tifoso di basket può cambiare la temperatura di un palazzetto, o forse anche della partita stessa. Ne sei consapevole?
Mah… io di solito sono seduto a bordo campo, vicino alla panchina avversaria, quindi non sono un tifoso accanito. Ma, ok, l’anno scorso la cosa migliore che abbiamo fatto è stata quella su K.C. (Jones, l’allenatore dei Celtics, nda). Aveva dato del filo da torcere agli ufficiali di gara e, quando sono tornati nella nostra direzione, abbiamo urlato: “Fottetevi!”. E loro hanno chiamato un fallo tecnico alla panchina di Boston.

Abbiamo parlato molto dell’ambiente “sterilizzato” che c’è là fuori e della speranza che il tuo lavoro sia in contrasto con tutto questo. C’è secondo te un vero modo per riuscirci?
La cosa principale che io, che voi potete fare, è essere. Essere. Questa è la cosa più importante.

Da Rolling Stone US

Iscriviti