Jacques Audiard ha gli occhi chiusi. Nella foto scelta per questa cover di Rolling Stone, e spesso mentre parla con te. Gli occhi li abbassa. Li chiude. Fa una pausa. Aspetta. Poi procede, spesso con una risata che si sente appena. Con quegli occhi chiusi, ha sempre guardato lontano. Dentro, per ributtare tutto fuori. Verso quel «pubblico che per primo sono io», e che poi però è diventato una platea sempre più universale. Dai cinemini ai palchi della Awards Season.
Lo incontro a Roma in un pomeriggio di gnagnarella – come chiamano lì la pioggerellina che bagna appena – a fine novembre, quella sera presenteremo insieme il suo ultimo film in anteprima al pubblico romano, che andrà in visibilio come tutte le sale di tutto il mondo davanti a Emilia Pérez (nei cinema dal 9 gennaio con Lucky Red). Jacques Audiard arriva da New York, o forse da Berlino, è stato a Los Angeles e ci tornerà, passando da Madrid. È in piena “Oscar campaign”, è stanco, è elettrizzato. Al collo ha un foulard rosso a righe che è un vezzo da dandy, in questo Grand Tour cinéphile, ma anche una specie di protezione. Ogni tanto se lo sistema. Chiude gli occhi. Aspetta un attimo. Andiamo avanti.
Jacques Audiard è il regista di grandissimi polar che scolorano nel mélo o viceversa (Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore) e di grandissimi mélo che, semplicemente, hanno riscritto il genere dall’interno (Un sapore di ruggine e ossa). Di anti-favole neo-neorealiste (Dheepan – Una nuova vita, Palma d’oro a Cannes dieci anni fa) e variazioni sul western poco capite (I fratelli Sisters con Joaquin Phoenix, John C. Reilly e Jake Gyllenhaal, l’unico suo film per così dire “americano”). Così come è stato poco capito, e certamente troppo poco visto, l’ultimo titolo prima di Emilia Pérez, cioè Les Olympiades (tradotto da noi Parigi, 13Arr.), una storia di sesso e periferia in bianco e nero ma senza Odio, che come poche altre ha fotografato lo sperdimento delle giovani generazioni in questo strano tempo. È, soprattutto, il regista del Profeta, tra i capolavori incontestabili d’inizio 2000, con cui già si era avvicinato agli Oscar quindici anni fa.
Jacques Audiard ha 72 anni ed è giovanissimo, continua a giocare con i generi e con la libertà d’autore che si è sempre riconosciuta – e che ora gli riconoscono globalmente. Con Emilia Pérez tornerà agli Oscar, e con tutta probabilità vincerà quello per il miglior film internazionale, e forse qualcun altro, come si è visto qualche giorno fa ai Golden Globe. Fregando Hollywood sul suo stesso campo, nella sua stessa agenda politica. Con una storia che mischia, anche qui, i generi e che è fatta solo di incandescente libertà. Manitas è un narcotrafficante messicano. A un certo punto sparisce. Succede qualcosa. Arriva all’improvviso una donna. Emilia Pérez. Sono la stessa persona (li interpreta entrambi la stessa attrice, la spagnola Karla Sofía Gascón). Non voglio dire troppo. Solo che c’è un’ex moglie (Selena Gomez) e dei figli all’oscuro di tutto. Forse un nuovo amore (Adriana Paz). E soprattutto un’avvocata, Rita (Zoe Saldaña), che lo accompagna in quella nuova vita. Da narco, Emilia è diventata una Madonna degli ultimi, dei dispersi e dei mai ritrovati per colpa dei cartelli sudamericani.
Emilia Pérez è un “film narco” (accento sulla “o”), come lo chiama il suo autore, ma anche un musical, e un melodramma tra la telenovela e l’opera lirica. È tutto quello che si chiede oggi al cinema perché possa restare vivo. Il pubblico lo capisce immediatamente. Anche a Roma, la sera dopo la nostra chiacchierata. Audiard gongola restando quasi in silenzio, come sempre con gli occhi chiusi e quel sorriso leggero, stupito e insieme conscio di aver prodotto una creatura che per molti è una magia. La vulcanica Karla Sofía Gascón gestisce la finta ritrosia del regista di fronte all’emozione del pubblico, rimettendolo scostumatamente al suo posto quando lui fa troppo l’auteur e insieme celebrandolo come forse nessun altro mai: «Esistono solo due momenti nella Storia del cinema: i fratelli Lumière ed Emilia Pérez. In mezzo non c’è niente».
Un po’ tutti stanno dicendo che Emilia Pérez è il film dell’anno. Ma tu quando hai capito che quella di Emilia Pérez era la storia?
In tanti momenti diversi, il che può essere contraddittorio. Ma è una domanda interessante, perché in realtà ci sono stati tanti “meta” momenti, e tutti molto importanti. Il primo è stato quando ho letto il libro di Boris (Razon, uscito nel 2018 e intitolato Écoute, ndt) dove c’è il personaggio di un narcotrafficante che fa la transizione, personaggio che Boris mi ha donato. Ma dopo un po’, non subito (sorride). Il secondo momento – o forse il terzo, non ricordo – molto importante dal punto di vista drammaturgico è stato quando ho deciso che l’avvocato del romanzo sarebbe diventato un’avvocata, cioè Rita, facendo di fatto cambiare sesso anche a lei. E il terzo momento molto importante è stato quando ho incontrato Clément Ducol, il compositore delle musiche, che mi ha presentato la sua compagna Camille, e lì non mi sono più dovuto chiedere chi avrebbe scritto la musica e chi le parole: quei due vanno a letto insieme! E poi c’è stato l’ultimo momento fondamentale, ovvero quando, in modo all’inizio un po’ azzardato, ho chiamato dal Messico Damien Jalet (coreografo belga che ha fondato a Città del Messico la compagnia Omphalos, ndt) per fare le coreografie.
Ora che invece Emilia Pérez è uscito, la reazione di tutti è calda e appassionata, di fronte a questo film che esso stesso brucia ed è pieno di passione. Come ti spieghi questa specie di fuoco collettivo che ha generato?
Non lo so perché è successo. Partiamo dal fatto che io mi domando sempre: lavoro per il pubblico, no? E la risposta è che sì, lavoro per il pubblico. Ma io lavoro per il “me” pubblico. Lavoro per me regista, per me sceneggiatore, e per il mio co-sceneggiatore (Thomas Bidegain): questo è il mio pubblico. Sulle ragioni del perché un film funzioni, non si sa mai se succederà o no: io a un certo punto non so nemmeno più a cosa assomiglia. In questo caso in particolare, e lo dico brutalmente, io non amo i musical. E forse di Emilia Pérez piace il fatto che è un musical senza esserlo. In realtà non è che i musical non mi piacciono, è che non li conosco abbastanza, posso citarne solo tre o quattro che mi hanno davvero emozionato: Cabaret, Hair, Le parapluies de Cherbourg, e il musical di una donna, Golden Eighties di Chantal Akerman, per le parti strettamente musicali. In generale, quando mi cimento con un genere è come se diventassi un po’ un nemico dall’interno. Sono un po’… non arrogante, ma direi critico. In questo caso, per esempio, ho subito detto ai miei musicisti che qui le canzoni che avevano un posto importante nel film dovevano servire solo a far procedere l’azione, non dovevano commentarla come a dire… (si mette a canticchiare). No. La domanda era: come si fa a passare dal momento in cui si parla a quello in cui si canta? Bisognava lavorare su queste variazioni e far diventare tutto come nell’opera lirica, in cui parli e canti… come dite in italiano? Parlare cantando (lo dice in italiano). Tutte queste cose non sapevo come farle esattamente, e forse in questo sta l’originalità di Emilia Pérez.
E poi ci sono i temi, che sono anche loro caldissimi: dalla transessualità al femminile, e poi i narcos, la politica, insomma c’è un sacco di roba ma detta senza mai proclami, se mai con assoluta libertà e una visione d’autore che oggi credo sia ciò che può far sopravvivere il cinema.
Io non penso di essere un regista politico, ma per tornare ai quattro musical che ti ho citato, ecco: sono tutti politici. Prendono tutta la potenza del musical e la portano sul terreno della Storia. Sono interessanti e intelligenti perché hanno fatto comprendere meglio alla gente certi temi, rendendoli epici. Io ho preso la tragedia spaventosa dei desaparecidos messicani e avrei potuto farne un documentario, ma sarebbe stato il milleduecentocinquantesimo documentario sul tema. Invece ho voluto fare un’opera in cui la gente canta, e che per questo ha una forza di penetrazione totalmente diversa.
Che un autore europeo e bianco parli di questi temi potrebbe risultare controverso, almeno per come va il mondo oggi.
Ma l’autore è quello che prende una materia e la fa diventare di tutti. Sei francese o italiano e allora non puoi parlare di problemi messicani? O sei etero e cis e non puoi parlare di transizione? Ma così è come se i problemi fossero privatizzati, e uno non avesse il diritto di avere uno sguardo e un’idea esterna dell’argomento in questione. Se si dovesse fare così ogni volta, allora non ci sarebbe più nessun Victor Hugo, nessun Voltaire, nessuno Zola.
La dico brutalmente: Emilia Pérez è un film che ha tutti i requisiti “giusti” per l’agenda hollywoodiana di oggi, ma che è fatto in un modo che se ne fotte dell’agenda di Hollywood. Però poi va a finire che Hollywood se n’è innamorata, e che in generale Hollywood spesso s’innamori degli autori come te, che delle regole dell’industria se ne sono sempre fregati.
È vero, succede da sempre, e lo dico da persona con una grande passione per i film americani. Ma da un punto di vista estetico, intellettuale e anche banalmente fisico non potrei mai lavorare a Hollywood, sarebbe troppo difficile. Però amo il loro modo di lavorare così diverso. Zoe (Saldaña) è arrivata preparatissima, sapeva tutta la sceneggiatura a memoria. Cantava, ballava: bravissima. Il suo personaggio era già formato. Sapeva che avrebbe fatto questo e che poi avrebbe fatto quello. Il metodo americano. Karla (Sofía Gascón) era il contrario, totalmente europea. Mi chiedeva sempre come dire le battute, si affidava a un processo completamente diverso.
La libertà di sperimentare con i generi, di cambiare ogni volta mantenendo forse la costante degli ultimi come protagonisti delle tue storie: è questo il filo rosso che riconosci anche tu nella tua carriera?
Tu vedi un filo? Perché io non lo so se c’è. Se devo fare un discorso da sceneggiatore cinico – o da sceneggiatore e basta – allora penso che è sempre meglio prendere qualcuno che viene dal basso e fargli fare un’ascensione verso l’alto. Però se devo trovare un tema ricorrente – che sicuramente c’è in Emilia Pérez, e in Sulle mie labbra, e in tanti altri miei film – allora è quello della doppia vita. Abbiamo diritto a una sola vita? O a due? O a tre? Il passaggio da una vita all’altra mi è molto caro, così come la domanda: qual è il costo di quella seconda vita? E della terza? Qual è il prezzo da pagare nel passare da Manitas a Emilia Pérez? Non poter più vedere i suoi figli, ad esempio. Oppure qual è il prezzo da pagare per Rita, un’avvocata di quarant’anni, mulatta, che ha poche chance di avere successo? Tutti cambiano, e anche il film cambia, passa dal film narco alla telenovela al dramma coniugale mantenendo sempre la forma del musical.
E quante vite ha avuto Jacques Audiard, o vorrebbe avere? Una, due, mille?
(Ride) Ogni volta che ho cambiato lavoro, ho cambiato vita. Sono stato prima studente di cinema, poi assistente al montaggio, ed è lì che c’è stata la rivelazione quasi divina di quella che è la scrittura cinematografica, che ignoravo pur essendo molto cinefilo. E poi, dopo essere passato per il teatro, sono diventato sceneggiatore, e lì ho applicato in un modo diverso quello che avevo appreso dal montaggio: quella è stata un’altra vita. E poi a 42 o 43 anni – quanti ne avevo? – ho diretto il mio primo film da regista, ed è cominciata un’altra vita ancora. Ma è la più divertente.
Qual è stato il tuo primo incontro erotico con il cinema? E parlo di eros perché nei tuoi film c’è sempre – permettimi di usare questa parola – una certa libido.
Mi piace che ne parli in questi termini, perché, se non c’è la libido, non vedo a cosa serva il cinema. Sì, c’è un cinema documentario ma, nel momento in cui sullo schermo appaiono i volti delle donne e degli uomini, c’è sempre un’erotizzazione dello spazio. E io ogni volta che lavoro con gli attori e le attrici ne esco stravolto, alla fine della giornata sono emotivamente esausto, è una cosa accecante. Molti registi mi tengono a distanza dal loro lavoro perché il loro cinema è sprovvisto di questa componente erotica, non c’è quella carica. Il cinema è una macchina libidica, è ciò che permette di riconoscersi in certe cose. Il veicolo del cinema è sempre la libido.
Dove trovi oggi questa carica erotica?
Un film che mi ha molto colpito è stato The Substance. Ho provato uno choc formale che non sentivo da tanto tempo. È un film con una grande forza polemica, ma è la sua forma ad avermi sconvolto.
Vorrei tornare all’emozione che ti dà il lavorare con gli attori e le attrici cui accennavi prima.
Sul set di Emilia Pérez è stata molto forte, anche perché erano attrici tutte così diverse l’una dall’altra. Comunicare con Selena (Gomez) era una cosa, con Zoe un’altra, e con Karla era ancora diverso. E ogni volta lo facevamo in un’imprecisata lingua straniera in cui si mischiava tutto, francese, spagnolo, italiano. Ma è successo spesso. Ricordo, durante le riprese dei Fratelli Sisters con Joaquin Phoenix, che è… so Californian (ride)… io gli ho detto: “Ma come ci parliamo?”, lui mi ha guardato e mi ha risposto: “Telepaticamente”.
Ti faccio una domanda impossibile: come si trovano le storie?
Se lo sapessi, in questo momento ne avrei una, ma purtroppo non lo so. L’importante è mettersi sempre a disposizione. Trovare quello stato in cui si può essere davvero ricettivi. Per me per raggiungerlo funziona meglio leggere che guardare film. O anche guardare il mondo. E poi, ogni volta che finisco un film – ed Emilia Pérez in particolare –, mi interrogo sul mio desiderio di fare cinema. Cosa mi spinge a fare un film oggi? Ecco, vedere un film come The Substance può servire a darmi una risposta. È come se gli altri autori, di fatto, definissero per me le possibilità di fare cinema, le rendessero possibili. Se di colpo ci fossero solo film che non riesco a guardare, a metà dei quali mi alzo, avrei meno voglia di continuare. Il mio desiderio di fare cinema passa di fatto attraverso quello degli altri di fare dei bei film.
Dicevi che il pubblico di Jacques Audiard è, prima di tutto, Jacques Audiard. In che cosa ti assomiglia di più il tuo cinema?
Ho fatto tanti film diversi, ma è come se li considerassi un unico film, sempre lo stesso. E non so bene in che cosa mi assomiglia. Donald Winnicott, il grande psicologo inglese, ha detto – vado a memoria: “È un piacere nascondersi, ma è una catastrofe non essere trovati”. È una frase che avevo detto a Michael Mann, un regista verso cui ho molta ammirazione e anche un sincero affetto. Gli ho detto che quelle parole mi sembravano corrispondergli moltissimo, e Michael me l’ha confermato. Penso di essere così anch’io. Faccio le cose per essere trovato, ma mi nascondo benissimo. Però non sarei contento se mi lasciassero lì da solo nel mio buco.
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Fotografa: Ivana Noto
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art Director: Alex Calcatelli per Leftloft
Assistente fotografa: Francesca Noto
Per la location si ringrazia: Rome Marriott Grand Hotel Flora