Un’altra Janis? Impossibile, era unica e irripetibile. Potrà esserci un’altra donna tanto potente da riempire il nostro immaginario come lei, ma quella voce e quell’anima non possono avere eredi». Amy Berg, elegante e determinata come il suo documentario Janis – per i miti, da Jimi a Diego, i cognomi non servono mai – non ha dubbi. E neanche noi dopo averla vista
in questo centinaio di minuti che, direbbe la Julia Roberts di Pretty Woman, ti attorcigliano le budella. Perché quella donna straordinaria e fragilissima, nel film della Berg (con Cat Power che le presta la voce), si mostra in tutto il suo talento, ma anche nell’abisso scavato da una famiglia – struggenti le lettere alla madre, spietata quella del padre a lei –, da compagni di viaggio e di vita, da amici e amanti. Tutti troppo limitati per lei. Tutti inadeguati e inconsapevoli di ciò che le hanno tolto o non dato. E che ora, forse, in questo lungometraggio, provano a restituirle.
«Janis per me è molto importante, è stata un modello, una donna che ha rotto gli schemi. E non parlo solo della rocker, lei ha dato nella vita e nel lavoro ogni parte di sé, fino all’eccesso. E nonostante la sua vulnerabilità e la sua fragilità ha detto a noi donne che, lottando e credendoci, potevamo eccellere in ciò che amavamo». E solo una pazza idealista poteva farlo in quell’epoca e in quel luogo. «Al Sud, il Ku Klux Klan era attivo e aggressivo: la sua sessualità libera, la sua indipendenza, il suo femminismo andavano contro l’ottusità e il razzismo del suo Texas. Non a caso trovò la felicità solo a San Francisco. E non dimentichiamo che era una donna nata negli anni ’40». Nel film, negli occhi e nella voce spezzata di un compagno di scuola, ormai ultra 70enne, scopriamo dei tre anni di bullismo subito al liceo e dell’infame goliardata con cui le assegnarono il premio “uomo più brutto del campus” al college. Lì cominciò il buio, il vuoto. «E lei sapeva combatterlo solo sul palco e solo con il microfono. Fuori, lottava contro le sue contraddizioni e la solitudine di chi era così diversa da non trovare nessuno sulla sua lunghezza d’onda. Per talento, capacità d’amare, emancipazione, Janis era troppo avanti», racconta Berg. «Forse solo David, esploratore impavido come lei, in fondo, poteva domare la tempesta che era Janis, non farsi allontanare da quel carattere crudo e vero. Ma, e questo mi commosse quando lo scoprii così come ora che lo rivedo nel film, il suo telegramma arrivò troppo tardi».
Ad Amy Berg, però, non parlate del club dei 27. «Sono stanca dell’iconografia della rockstar che diventa mito per essere morta con un ago in un braccio. Janis, peraltro, ne stava uscendo: l’autopsia ci dice che aveva solo due buchi recenti, gli altri erano tutti rimarginati. Erano settimane che si teneva lontana dalle droghe. Io volevo raccontarla viva e vitale com’era, dalla risata contagiosa all’intelligenza straordinaria e anticonformista». E sorprendersi delle scoperte. «Non mi capacito della sua eterna paura di fallire, non era consapevole della sua grandezza: anche all’apice, temeva di tornare a servire ai tavoli». Otto anni ci ha messo la cineasta a mettere insieme filmati d’archivio – «ricordo ancora quando scoprii i footage del concerto di Monterey, di Me and Bobby McGee, di Cry Baby e la sessione delle due versioni in studio di Summertime: quasi mi commossi» – e interviste, diritti sulle canzoni e le esigenze della famiglia. Ma non le basta ancora. «Janis mi mancherà, si è creata una relazione profonda tra noi, una parte di me non vuole pensare al prossimo film». Grazie a lei, ora, Janis manca da star male anche a noi. Più di prima, se possibile.
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