2086: un virus della tosse ha quasi fatto sparire il genere umano dalla faccia della Terra. I sopravvissuti si contano nell’ordine delle centinaia e il numero si assottiglia giorno dopo giorno. Un fratello e una sorella dopo un lungo viaggio dall’Africa riescono ad arrivare a Parigi. Lei è incinta, ma verrà massacrata dalla ferocia dei sopravvissuti. Rimasto solo, Kal si dirige verso Bologna dove incontra Shakespeare, custode di quello che resta dell’archivio cinematografico della Cineteca. Insieme si dirigeranno in Grecia, dove sono rimasti gli ultimi vivi sulla Terra. Proiettando film e girandone di nuovi, cercheranno di lasciare una memoria dell’umanità.
È un lascito anche Last Words, film che Jonathan Nossiter, regista, sommelier e agricoltore, ha girato prima del Covid e che si è rivelato profetico, anche se non con gli stessi catastrofici risultati. Presentato nella selezione invisibile di Cannes 2020, il 15 giugno arriva finalmente anche nelle sale italiane. Nossiter è un personaggio particolare. Figlio di due giornalisti di altissimo livello, ha girato il mondo sin da giovanissimo e iniziato a fare cinema come aiuto sul set di Attrazione fatale. Dal 1990 a oggi ha girato dieci tra film, corti e documentari, tra cui Mondovino e Resistenza naturale, entrambe storie che hanno un rapporto strettissimo con la terra. E proprio lì Jonathan alla fine è tornato, comprando qualche anno fa un appezzamento di quattro ettari vicino al lago di Bolsena, in località La Lupa. Qui ha iniziato un percorso di coltivazione di semi ancestrali, con una particolare attenzione nei confronti dei pomodori, e si è messo a produrre conserve di eccellente fattura.
Quando ci siamo sentiti era lì, gli dico che sono a Londra e iniziamo la nostra lunga chiacchierata. «Bella Londra, è ancora la città più vivibile del mondo. Se solo non mi sentissi male all’idea di tornare a vivere in una città, Londra sarebbe certamente la prima scelta». Viaggia poco, mi dice, dopo il Covid ha visto un cambiamento radicale nelle persone, «e non lo vedo come provvisorio, è come un’idea insidiosa che è entrata sottopelle, la gente si è incattivita». E c’è anche stato un abbrutimento culturale, aggiungo io, cosa su cui è assolutamente d’accordo e che sta alla base del suo film, nato anni fa grazie, guarda caso, a una serie di incontri molto importanti. A partire da quello, nuovamente, tra cinema e vino.
«Tre cose mi importano di più nella vita: la cultura, l’agricoltura e il nostro rapporto con la terra, e le condizioni generale della società. Stiamo vivendo in un 1939 sospeso per dieci, quindici, vent’anni, e che può durarne altri venti. Per la terra ho deciso di abbandonare il cinema, sapevo che Last Words sarebbe stato il mio ultimo film, volevo fare l’agricoltore a tempo pieno e credo che ci sia una fluidità con il mio precedente lavoro. Il desiderio di cambiare mi venne grazie all’incontro con Stefano Bellotti, grande vignaiolo, attivista ambientalista, faceva vino eccezionale nella sua Cascina degli Ulivi in Piemonte. Undici anni fa ci vedemmo a un evento che avevo organizzato alla Cineteca di Bologna su richiesta di Gian Luca Farinelli, dieci incontri tra cinema e vino, una proiezione a cui poi seguiva un incontro tra un regista e un vignaiolo. Bellotti venne a presentare Brian di Nazareth e una cosa che disse mi restò impressa: “Se vuoi impegnarti devi sporcarti le mani, le barricate del prossimo futuro sono nell’agricoltura”. Sapevo che aveva ragione, ma non volevo ammetterlo perché ancora volevo fare cinema. Ma quelle parole mi sono entrate dentro, e da lì a poco ho iniziato a cercare un pezzo di terra».
«Intanto, tutto intorno vedevo un progressivo abbrutimento e una violenza crescente, un cambiamento nella visione quotidiana nei confronti dei giornali, del cinema, della lettura», continua Nossiter. «Mentre organizzavo le serate alla Cineteca, una sera a cena ho condiviso questo mio pensiero con Farinelli e si mise a ridere, dicendomi che eravamo già entrati nell’epoca della battaglia totale. La cosa mi diede sollievo, non mi sentivo solo, era un messaggio da parte di una persona che, davanti alla barbarie, fa atti di preservazione della cultura a livello alto, tramandando la gioia come un atto sociale e di politica estetica, come vedere Tempi moderni di Chaplin in piazza Maggiore a Bologna con 6000 persone e un’orchestra dal vivo. Queste sono state le influenze italiane, e poi la la lettura del libro del mio amico Santiago Amigorena, una piccola poesia in prosa di 70 pagine in cui ho visto la stessa lucidità sulla realtà, ambientale, politica, sociale, sul crollo totale, ma anche un omaggio alla bellezza della letteratura davanti alla fine dell’umanità. E per me è stata la spinta per raccontare quanto amo il cinema e l’occasione per lavorare con degli attori che sono anche degli amici, come Nick Nolte, Charlotte Rampling, Stellan Skarsgård (protagonisti di Last Words insieme alla nostra Alba Rohrwacher, ndr), in posti magici come i sotterranei di Bologna e le rovine di Paestum. Poi ognuno può leggere il film come vuole, davvero anche solo come la fine dell’umanità, ma per me è un film gioioso, che celebra la nostra capacità di restare a testa alta e con le mani aperte per stringere quelle degli altri».
Difficile non essere d’accordo, ma la domanda, come si suol dire, sorge spontanea: adesso che il film arriva in sala, non c’è un ripensamento, una nostalgia nel mettersi dietro la macchina da presa? Nossiter non ha dubbi: «No, perché? Questa è la mia cartolina d’amore nei confronti del cinema, ma quando ho iniziato a girare il film, alla fine del 2018, già sapevo che sarebbe stato l’ultimo e sono in pace con me stesso, ho spostato il mio interesse dalla cinepresa alla zappa, dopo avere fatto per trent’anni un cinema comunque per pochi. Sono felice che il film esca anche in Italia e per questo ringrazio Donatella Palermo, la mia produttrice che ha creduto tantissimo nel progetto sin dall’inizio e che si è impegnata per portarlo nelle sale: di persone come lei nel cinema ce ne saranno due o tre. E andare in giro qualche giorno per presentarlo mi farà bene, sono diventato un po’ selvatico a furia di stare qui».
Adesso fa conserve di pomodoro, e mentre parliamo mi viene in mente una cosa che mi disse una volta Peter Bogdanovich: “Da Orson (Welles) ho imparato che i film sono inscatolati. Hai presente un barattolo di conserva? I film sono così, una volta che li hai girati, montati e finiti restano lì, conservati. L’importante è che quando li inscatoli siano freschi, perché lo saranno anche quando li togli dalla confezione”. Ecco, Last Words rientra in questa categoria: è girato in purezza, usando gesti e parole naturali, senza aggiunta di additivi, come i pomodori da semi ancestrali che coltiva Jonathan. L’idea che l’ultimo uomo sulla Terra avrà come conforto un film da vedere fa accettare di buon grado anche la fine del mondo.