Josh Hartnett ha sempre voluto fare ciò che meno ci si aspettava da lui. Cosa ci si potrebbe aspettare da un giocatore di football alto 1 metro e 80, dalla corporatura robusta, una mascella volitiva e profondi occhi castani trasformato in attore? Ruoli come il re del ballo di fine anno. O il pilota audace. O il soldato coraggioso. Che, ovviamente, ha interpretato (leggi: Il giardino delle vergini suicide, Pearl Harbor, Black Hawk Down). Ma lui, da quando è emerso all’inizio del millennio, ha fatto tutto il possibile per sovvertire la figura del teen-idol, inseguendo personaggi un po’ fuori dagli schemi che esistono, come dice lui, «al di fuori dell’archetipo dell’eroe». E, a un certo punto, persino abbandonando del tutto Hollywood.
Quasi vent’anni fa, Hartnett ha lasciato Los Angeles per il suo Stato natale, il Minnesota. Ma non era ancora abbastanza lontano, dunque si è trasferito in Inghilterra, dove oggi vive – nel bucolico Hampshire – con la moglie, la modella e attrice Tamsin Egerton, e i loro quattro figli.
Ma dopo essersi tenuto in disparte per anni, apparendo in una serie di progetti minori e non granché apprezzati, Hartnett, che ha appena compiuto 46 anni, sta vivendo una sorta di comeback. Forse ne avete sentito parlare. Prima è apparso nell’antologia sci-fi Black Mirror e nel kolossal di Christopher Nolan, vincitore di 7 Oscar, Oppenheimer. Poi, a giugno, ha fatto un cameo nell’attesissima terza stagione di The Bear, nel ruolo di Frank, il fidanzato dell’ex moglie di Richie, un futuro patrigno serio e perfetto. E ora arriva il suo primo ruolo da protagonista dopo tanto tempo, nell’ultimo thriller di M. Night Shyamalan, Trap (nelle sale italiane dal 7 agosto, ndt).
«Non sono mai stato una persona che aveva in mente un percorso di carriera o che voleva essere la più grande star del cinema del mondo», dice Hartnett, seduto al Crosby Street Hotel di Manhattan. «Non sono mai stato così. Quindi non è che mi sono allontanato, è solo che la gente aveva un’idea di quello che potevo essere. E io non mi sono mai sentito così».
Con Trap, Hartnett ha ottenuto uno dei suoi ruoli più fuori dagli schemi. Interpreta Cooper, un premuroso padre di periferia che porta la figlia piccola a vedere un concerto della sua popstar preferita. Ma Cooper scopre presto che l’evento è solo una grande messinscena per svelare la sua doppia vita di serial killer, noto come il Macellaio.
«È la storia del coming of age di un serial killer», dice Hartnett, una presenza più gentile e meno imponente di quanto il suo Cooper appaia sullo schermo. In effetti, il suo aspetto è quasi identico a quello che ha avuto per quasi tre decenni. «Si tratta di un personaggio che pensa a sé stesso in un certo modo e che si è nascosto dietro una facciata. Sotto di essa, ha sempre creduto di essere un abominio, un mostro. Questo è il giorno in cui scopre che forse c’è una parte di sé che mostruosa non è».
Essendo un fan di lunga data del lavoro di Shyamalan, Hartnett si è impegnato a fondo in Trap dal momento in cui ha letto la sceneggiatura. Gli ricordava i thriller “a chiave” degli anni Novanta firmati dal regista. «È come guardare Die Hard con gli occhi di Hans Gruber», dice, spezzando il suo caratteristico sorriso sghembo. «È un intrattenimento di alto livello, destinato a un grande pubblico, ma completamente nuovo. Non abbiamo bisogno di una intellectual property o di un film precedente per creare un sequel che sia divertente per il pubblico. E [proporre un film con una storia originale] non succede più così spesso».
Se il primo riferimento di Shyamalan per Cooper è stato Ted Bundy, Hartnett si è concentrato maggiormente sulla psicologia degli psicopatici piuttosto che su una specifica figura storica. Voleva anche puntare sull’aspetto di «padre femmina» del personaggio, mettendo nel personaggio quell’entusiasmo – “rubato” a certi blog – dei genitori per tutto ciò che la figlia ama. Negli attimi prima che la figura di Cooper cominci a incrinarsi, è un padre che fa tutte le cose giuste: lascia che la figlia ascolti la musica in macchina, le compra i gadget che desidera, le consiglia come affrontare i bulli della scuola. Questo rende la sua dualità ancora più stridente, sia per il pubblico che per Cooper stesso.
«Sta imparando a conoscere meglio [sua figlia] e a capire cosa prova per lei», spiega Hartnett.
Proprio mentre iniziavano le riprese di Trap, giunse la notizia di un sospetto serial killer nella vita reale: un uomo era stato arrestato e accusato dei cosiddetti omicidi di Gilgo Beach a Long Island, una serie di delitti avvenuti nel corso di decenni, tutti mentre l’accusato viveva una vita normalissima in quella regione come architetto, marito e padre di famiglia. Per Hartnett, quel caso sottolinea una delle grandi idee alla base di Trap: «Potrebbe essere chiunque. È questo il punto. Non deve essere per forza un Ted Bundy o un John Wayne Gacy. Potrebbe essere il vostro vicino di casa».
Nonostante la tematica dark, sul set c’era molta leggerezza. Hartnett ha avuto modo di ritrovare un vecchio amico, Kid Cudi. Il rapper e attore fa un cameo in Trap nel ruolo di un’altra popstar di nome Thinker. Nel 2009, Hartnett e Cudi si erano conosciuti a un concerto dei Ratatat, quando Cudi era appena esploso. Hanno subito legato e Hartnett ha persino diretto il video del singolo di Cudi Pursuit of Happiness, dopo che il rapper aveva abbandonato l’idea del video originale.
«Non aveva i soldi per realizzarlo perché avevano già speso il budget per la prima idea», spiega Hartnett, «così abbiamo messo insieme circa 5.000 dollari e abbiamo girato in un posto nel West Village». Non si sono visti molto da quando Hartnett si è trasferito nel Regno Unito, quindi i due giorni di riprese sono stati una bella rimpatriata.
Mentre Trap sembra segnare l’apice di quella che è stata definita la “Josh Hartnett Renaissance”, l’attore non ha intenzione di sfruttare il momento per ottenere un rinnovato status di celebrità o una tuta da supereroe. È ancora attratto dai ruoli più anticonvenzionali, quelli che interpretava quando si stava affacciando nel mondo del cinema, e lavorare con registi che ammira da tempo, come Nolan e Shyamalan, gli sta aprendo di nuovo le porte.
«È molto più facile fare cose in questo settore quando sei un po’ più vecchio», dice, «perché non sei preoccupato che altre persone ti definiscano nei confronti del pubblico in un modo in cui non ti senti a tuo agio, perché adesso il tuo lobo frontale è completamente sviluppato. Quando avevo vent’anni non lo era».
«Ho iniziato la mia carriera con The Faculty e Il giardino delle vergini suicide, e quei personaggi sono strani», continua. «Pensavo che avrei potuto continuare a interpretare personaggi strani o lontani dai cliché. Ma dopo l’uscita di certi film, gli Studios o chi per loro volevano che rimanessi legato all’immagine dell’eroe. Io ho continuato a fare le mie cose, ed è stato difficile. È diventato più difficile convincere il pubblico a venire a vedere certe cose, perché hai bisogno di buoni collaboratori che siano in grado di spingere gli spettatori in sala. Devi, diciamo, saper “vendere” il film».
Ora Hartnett, che prima di iniziare a recitare ha lavorato in un negozio di videonoleggio, ha una lista di registi con cui vorrebbe lavorare un giorno. I fratelli Coen sono in cima alla lista, anche se negli ultimi anni Joel ed Ethan hanno lavorato separatamente. Gli viene in mente anche Martin Scorsese, anche se dubita che quel momento arriverà.
Per quanto riguarda il futuro, Hartnett spera di prendere un’altra «svolta a sinistra» e continuare a sorprendere gli spettatori. «Dipende tutto dai registi, quindi se un bravo regista volesse fare un musical, io ci sto», dice. Sarebbe anche disposto a tornare in The Bear. «Non so che razza di magia ci sia su quel set, ma è come un circoletto», dice. «Anche gli attori che non sono in scena il tal giorno sono sempre lì, durante le riprese. Per loro è tutto un divertimento».
Forse la svolta più inaspettata sarebbe stata quella di recitare in qualcosa che i suoi figli potessero guardare: niente sesso, serial killer o scene di battaglia. «Non ho mai fatto un film per un pubblico giovane, e i miei figli non capiscono bene cosa faccio», ammette. «Quindi, perché no?».