Guy Pearce è uno di quegli attori che avrebbero meritato molta più considerazione da parte dell’industria e del pubblico, nel corso di una ormai lunga carriera. Onorata, oltretutto, e ricca di belle interpretazioni, dalla drag queen Felicia Jollygoodfellow di Priscilla – La regina del deserto (film dalla visionarietà ancora modernissima) allo smemorato Leonard Shelby di Memento Christopher Nolan, passando per il detective Exley di L.A. Confidential. Una carriera partita in quarta, ma, come sempre accade a Hollywood, quando sei sulla cresta dell’onda basta qualche film sbagliato per essere relegato ad attore di seconda fascia e poi a caratterista. È successo anche a lui, ma questo inglese del Cambridgeshire cresciuto in Australia, dove tuttora vive in compagnia della “strega” di Games of Thrones, l’attrice olandese Carice Van Houten (bellissima coppia, oltretutto), non ha mai fatto mancare talento e professionalità nelle sue prove d’attore.
E poi arrivano anche le soddisfazioni, in questo caso sotto forma di una serie per la rete britannica ITV che racconta una storia vera di spionaggio che scosse non poco l’establishment britannico negli anni Sessanta. Ex studente di Cambridge e servitore della patria sin dalla Seconda guerra mondiale, Philby passò informazioni al KGB per tutto il periodo della sua militanza nel MI6, il servizio segreto britannico. Quando fu scoperto, decise di disertare e andare a vivere nell’allora Unione Sovietica. Lo scandalo fu enorme e coinvolse in particolare un altro agente britannico, Nicholas Elliot, il suo migliore amico sospettato di averne favorito la fuga.
Come tutti i racconti di spionaggio, è impossibile riassumerlo in poche righe. La cosa migliore è andare su Sky – o, in streaming, su NOW – e guardare le sei avvincenti puntate di Una spia tra noi, in cui Pearce divide la scena con un altro attore magnifico: Damian Lewis. Abbiamo parlato con Pearce di Philby, del rapporto con il suo collega e di un’attrice compianta e a entrambi molto vicina.
Guy, sapevi qualcosa della storia di Kim Philby prima di leggere la sceneggiatura?
Non sapevo nulla del legame tra Kim Philby e Nicholas Elliot. Sapevo qualcosa dei Cinque di Cambridge, questo gruppo di giovani inglesi molto intelligenti che lavoravano per l’MI6 e allo stesso tempo segretamente per il Cremlino. Grazie a vari film e a un po’ di letture che avevo fatto, avevo un’idea di Kim Philby e di Guy Burgess e Anthony Blunt, ma non avevo tutti i dettagli. Sapevo che Philby era scappato da Beirut in Russia, che un agente dell’MI6 era andato a parlargli e che poi era fuggito. Ma non conoscevo bene nessuno di questi episodi. È stato molto interessante scoprirli e analizzarli nella storia che raccontiamo.
Una spy story, ma anche una grande amicizia. Ed è più facile quando si ha un partner come Damian Lewis. Come avete costruito il rapporto tra voi due e tra i due personaggi?
Damian è stato semplicemente meraviglioso. Da attori, quando si inizia un lavoro, si è consapevoli di dover trovare rapidamente la chimica. Damian è un tipo rilassato, caloroso, intelligente e generoso. E c’è stato un elemento in più.
Helen McCrory, da tutti ricordata come la Narcissa Malfoy della saga di Harry Potter. Voi avete lavorato insieme nel Conte di Montecristo.
Esatto, era la moglie di Damian, e purtroppo è morta non molto tempo prima che iniziassimo le riprese. Io avevo lavorato con lei circa vent’anni prima, prima ancora che loro due si conoscessero. Si è creato un piccolo legame per la perdita di Helen e per l’esperienza che avevo avuto con lei. Era straordinaria, fu la salvezza di quel film. Volevo fare a Damian le mie condoglianze, ma anche condividere con lui i miei ricordi e la mia esperienza con lei. Ma lui non voleva soffermarsi sulla perdita. Credo volesse concentrarsi sul lavoro, ma con un senso di rispetto reciproco. Gli dissi che ero sorpreso che stesse già lavorando dopo così poco tempo. E lui mi rispose: “Mi ha costretto lei. Mi ha detto: ‘È meglio che tu lo faccia’”. Credo che entrambi siamo partiti con il piede giusto anche per questo.
La Guerra Fredda fu un periodo complesso per il mondo intero. Ma in Inghilterra gli anni Cinquanta e Sessanta furono particolari, i rapporti tra le persone erano glaciali e fintamente educati come non mai. Comprendere quel periodo, interpretando una spia britannica, era importante. A quel tempo la stessa vita quotidiana era un doppio gioco.
Hai assolutamente ragione. Per rispondere alla prima parte della domanda, c’erano diversi elementi in gioco. Nella nostra storia andiamo dal 1934 al 1963, copriamo il periodo precedente alla Seconda guerra mondiale fino alla Guerra Fredda. Una traiettoria lunga e molto impegnativa. Ma allo stesso tempo, l’aspetto interessante era che questa rete di ragazzi altamente istruiti di Cambridge e Oxford, che riteneva di essere, indipendentemente da ciò che accadeva a livello culturale, nazionale o internazionale, la classe dirigente, pensava di non poter subire infiltrazioni, né di essere abbattuta o messa in discussione. C’era uno strano senso di ignoranza misto a un’incredibile sicurezza. Questo è stato un elemento importante per Philby. Credo nutrisse un certo disprezzo per la classe dirigente e che fosse consapevole di ciò che accadeva intorno a lui a livello internazionale. Ovviamente, aveva l’esperienza di suo padre, che aveva servito nelle colonie, e di ciò che pensava degli inglesi su come trattavano le altre culture. Credo che per Philby sia stato in un certo senso facile. Posso infiltrarmi e nessuno mi farà domande. È stato affascinante cercare di capire le sue motivazioni e quelle della classe dirigente, così come il cambiamento politico dalla Seconda guerra mondiale alla Guerra Fredda.
Philby era davvero un comunista, secondo te?
Credo che in una certa misura lo fosse. Aveva un piede nella classe dirigente e un piede in un modo di vivere più comunitario, ma aveva un po’ di disprezzo per entrambi. Credo sia stato deluso quando è andato in Russia, penso abbia pensato: “Ok, questa è la mia occasione per immergermi in questo mondo in cui ho creduto da quando avevo 19 anni”. E durante il periodo trascorso in Russia, dal 1963 fino alla sua morte, è rimasto disilluso dal comunismo, ne ha tastato il realismo, il fallimento e il modo in cui tradiva il popolo. C’erano molte cose in ballo, personalmente e politicamente. Per me è stato un mondo vasto da esplorare. Per quanto stessimo interpretando delle spie che mentivano, come attore quando dici una bugia sullo schermo vuoi sempre ammiccare al tuo pubblico per farglielo capire. Ma Nick Murphy, il nostro regista, diceva: “No, è bravo nel suo lavoro, sa dire bugie meglio di chiunque altro”. Dobbiamo sempre pensare che stia dicendo la verità. È stato un lavoro complesso e sono soddisfatto del risultato finale. Ma sento di non averci messo lo zampino, ci sono state menti più intelligenti che hanno tirato i fili e hanno fatto funzionare questa rete così complessa da tessere.