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‘La Mala’, o quando Milano non era da bere. E non è detto che fosse peggio

Tutti dovrebbero vedere ‘Banditi a Milano’, la docuserie crime di Sky che racconta in che Paese abbiamo vissuto. E in quale Paese viviamo ancora. Abbiamo incontrato gli autori

Foto: Sky

La Mala – Banditi a Milano è molto più di una semplice docuserie. È un vero e proprio compendio storico di un’Italia che fu, quella degli anni ’70 e ’80, in cui i gangster andavano a braccetto con la borghesia, salvo poi rapinarla e sequestrarla. Il palcoscenico è Milano, il resto del Paese sta a guardare, inconsapevole che quanto succede tra Brera e la Comasina finirà con il segnare il destino di tutti. I protagonisti non sono il Freddo e il Libanese, ma il bel Renato “René” Vallanzasca, il “Tebano” Epaminonda, Francis Turatello, i “cattivi” contrapposti ai “buoni”, il prefetto Achille Serra, i magistrati Nobili e Davigo. E poi i cronisti e i fotografi che di quegli anni sono stati i narratori, fissando con parole e immagini la paura di una città destinata a diventare un faro negli anni successivi, continuando a essere proprietà degli eredi di quella stagione di violenza.

Cinque puntate appassionanti come solo un buon crime sa essere, scritte e dirette da Chiara Battistini, che ha spesso raccontato Milano sotto tanti punti di vista, e Paolo Bernardelli, già tra gli sceneggiatori di SanPa, la bellissima docuserie Netflix sulla saga di San Patrignano. E proprio a loro abbiamo chiesto com’è nata l’idea di La Mala.

«L’idea nasce da un libro fotografico, Ultima edizione – Storie nere dagli archivi de La Notte», racconta Chiara. «Avevo già fatto un documentario che raccontava Milano attraverso lo sguardo di dieci fotografi e uno di loro, Alan Maglio, è anche uno degli autori di questo libro. Me lo regala e comincio a sfogliarlo, e vedo queste 500 foto che lui, Salvatore Garzillo e Luca Matarazzo hanno recuperato dagli archivi de La Notte, il quotidiano che ha documentato la cronaca milanese fino agli anni di Tangentopoli. Mi accorgo di trovarmi di fronte a uno storyboard e inizio a pensare cosa si può fare. A un certo punto ho chiamato Paolo, ci siamo visti per un caffè e ho portato il libro. Paolo aveva già fatto SanPa, non era ancora uscito, ma era già in post-produzione, ed è stata sua l’intuizione di farne una docuserie. Quindi abbiamo coinvolto gli autori del libro facendo un grande brainstorming a cinque, per poi rimanere in tre con Salvatore Garzillo. E ci siamo chiesti: ma com’è possibile che questa Milano che frequentiamo, scintillante dal design alla moda, la città sicura, dell’innovazione, la capovolgi e ti ritrovi una cosa completamente diversa? Cosa è successo? Qual è stato il punto di rottura? Qual è stata l’evoluzione che ha portato uno scenario da film poliziesco a diventare la Milano di Porta Nuova e dei grattacieli? E da lì siamo partiti».

E questo è il punto focale di questa storia, una trasformazione solo apparente, perché la Milano degli anni ’80, ’90, fino ai giorni nostri, è figlia e nipote della Milano criminale e siete riusciti a trasmetterlo perfettamente.
Paolo: L’intento era quello, siamo partiti da questa domanda: com’è possibile che quella Milano sia diventata questa? Questo è il primo elemento. Il secondo elemento è legato alla privacy. Negli anni ’70 la televisione era solo la Rai e non poteva coprire tutto. Ci pensavano i fotografi, che stavano a 30 centimetri dalla faccia del cadavere di turno. È difficile oggi trovare in prima pagina di un giornale le foto che mostriamo nella serie. Quindi c’è stato proprio un cambio di mentalità, era una città abituata a vedere queste cose. Quindi l’idea era di partire dall’archivio pazzesco che avevamo a disposizione, immagini bellissime che sono meglio di video. E dall’altra parte c’era l’altra questione, cioè che cosa raccontiamo? Le immagini andavano dagli anni ’50 a Tangentopoli, ma dovevamo anche trovare qualcuno che ci raccontasse queste storie. È la ragione per cui accenniamo soltanto alla Ligéra, i banditi quasi romantici degli anni ’50, perché non c’è più nessuno di loro. Allora abbiamo sguinzagliato Salvatore, che è stato un po’ il casting director della serie, che quasi all’inizio ci chiama e ci chiede se abbiamo mai sentito parlare di Lello Liguori. No, gli diciamo. “L’ho trovato in un ospizio a Corvetto”. Lo andiamo a incontrare e viene fuori un’intervista pazzesca. Chiara quel giorno disse una cosa: “Quante storie stiamo perdendo perché non c’è una persona che sta ascoltando”.

Una frase che bisognerebbe scolpire nel marmo e una delle molte ragioni per cui La Mala è un documento preziosissimo. Lello Liguori, come racconta la serie, era il tycoon delle discoteche e dei locali milanesi degli anni ’70. Amico di tutti, dai banditi ai politici di primissimo piano, compreso il futuro presidente del Consiglio Bettino Craxi.

Dell’intervista a Lello Liguori sono convinto che avrete usato il 3%, il restante 97% non lo potete raccontare perché ne andrebbe della vostra incolumità.
Chiara: Guarda, c’è un aneddoto bellissimo, ma lo lascio raccontare a Paolo.
Paolo: Allora, Lello praticamente nella casa di riposo conosceva tutti, e tra gli ospiti c’era anche il fotografo dei locali di Lello, ma era tracheotomizzato, quindi non poteva parlare, ed era costretto in sedia a rotelle. Il secondo giorno dell’intervista, Salvatore stava facendo le domande e Chiara e io eravamo in regia, con le cuffie. Ascoltiamo quello che dice Lello, e la maggior parte sono cose molto scomode, ci guardiamo e ci rendiamo conto che su ognuno di questi fatti dovremo fare un fact checking infinito. A un certo punto sento qualcuno che batte sulla spalla, ci voltiamo e c’è quest’uomo in sedia a rotelle che ci dà un pezzo di carta igienica. Lo prendiamo, lo apriamo, e dentro c’è scritto a penna: “Tutto ciò che dice Lello è vero”. E, in effetti, siamo andati a fare il fact checking, ed è tutto vero.
Chiara: C’erano delle parti dell’intervista che all’inizio non abbiamo montato proprio perché non eravamo ancora sicuri che fossero vere, anche perché Lello ha una certa età e non è sempre lucido. Invece, proseguendo con le interviste con i magistrati, quindi proprio sul lato processuale, dagli atti uscivano le cose che ci aveva raccontato e che sembravano surreali. E lo stesso incrociando altre interviste.

Conservate tutto quello che non avete usato in un luogo sicuro e trovate un buon avvocato. Da quello che non avete raccontato potrebbero venire fuori un altro paio di stagioni.
Paolo: Ti faccio un esempio specifico. Nel quarto episodio, quello carcerario, non abbiamo raccontato alcune cose per mera economia del racconto. Tra queste, il fatto che quando Turatello era in carcere a Cuneo è stato testimone di nozze Tommaso Buscetta. I due erano molto amici. Ci sono anche delle registrazioni sul fatto che Buscetta, quando era in difficoltà, ricevette in dono da Turatello una bisca per mantenersi. Non potendo raccontare tutto questo, non abbiamo neanche potuto raccontare la versione di Buscetta della morte di Turatello, che scagionava Raffaele Cutolo e dava la colpa alla mafia. Della morte di Turatello abbiamo dato quattro o cinque versioni, ma in realtà ce ne sono molte di più. Avremmo avuto davvero bisogno del doppio del tempo e degli episodi.

Un’altra cosa importantissima de La Mala è proprio che i racconti sono di prima mano, avete dato voce ai protagonisti dell’epoca. E se i criminali hanno sempre un fascino particolare in questi casi, lo stesso spessore e carisma ce l’hanno “le guardie”, come le avrebbero chiamate loro. Questo rapporto paritario è importantissimo per creare la giusta empatia dello spettatore.
Paolo: Su questo vorrei rispondere così, perché è uno dei grandi interrogativi che io stesso mi pongo già dal tempo di SanPa, che come La Mala non si limita alla cronaca, entrambe ambiscono alla costruzione dei personaggi, come in un film. Quindi ogni personaggio va presentato in modo diverso, deve costruire la sua empatia con lo spettatore e avere il suo arco. Per noi questa è stata la maggior parte del lavoro, la storia si muove attraverso i personaggi, noi scegliamo cosa raccontare e cosa non in base e in relazione a loro. Nel finale ci siamo trovati davanti una scelta, un finale documentaristico che raccontasse attraverso le opinioni dei personaggi la trasformazione di Milano dal loro punto di vista, ma ci siamo accorti che era freddo. Ci interessava finire su qualcosa di umano con cui veniva molto più fuori un’evocazione della trasformazione di Milano, più che il racconto stesso.

Chiara, da milanese appassionata della storia della tua città, parliamo della sua trasformazione in tre fasi dopo la Milano criminale. Dal 1984 al 1992, la Milano da bere fino all’arresto di Mario Chiesa. Da lì agli inizi degli anni 2000, quando la Milano da bere è stata bevuta e la città si deve rifare il trucco. E poi da lì fino a oggi, la Milano dell’Expo e adesso delle Olimpiadi. Come nel Gattopardo, tutto è cambiato per restare com’era. La Mala c’è ancora, ma esattamente dov’è adesso?
Chiara: Guarda, ti rispondo con una riflessione che ha fatto Alberto Nobili durante la sua intervista. A un certo punto ha detto che in questo momento storico la malavita a Milano, ma anche nel resto del Paese, va benissimo perché è silente. Quando va tutto bene non si spara, non succede niente, perché gli affari vanno benissimo, indisturbati. E lui si è spinto con una frase che non abbiamo montato, ma che secondo me è molto indicativa. Nobili ha detto che ci vorrebbe una nuova strage. Perché nel momento in cui succede qualcosa di grosso, l’attenzione riporta tutto a galla. Ma la criminalità organizzata in questo momento è talmente inserita nel tessuto politico, nella gestione della città, che non si vede. Milano è una città sicura? No, è che non ce ne accorgiamo neanche.

Foto: Sky

La valigetta di soldi di Milano Calibro 9.
Chiara: Esatto, solo che adesso i soldi sono nelle banche, nella finanza, quindi è difficile definire una carriera criminale. Una volta era più facile perché c’erano le periferie, c’era la Comasina, il Giambellino, succedevano delle cose in questi quartieri, si sapeva che erano “malfamati”. Oggi c’è Buccinasco, completamente in mano alla ‘ndrangheta. Ma a Buccinasco le persone ci vanno a vivere lo stesso perché è un posto sicuro, ci sono le villette, ci sono i bambini, ci sono gli asili. Il problema è chi l’ha costruito, con quali soldi è stato costruito e dove va a finire l’economia del quartiere. Questo apparente funzionare per bene è il sintomo in realtà di una malattia incancrenita all’interno della sua gestione.

Infatti da La Mala si potrebbero tirare fuori altri dieci filoni narrativi. C’è una storia importante quanto quella che avete raccontato?
Paolo: Ce n’erano diverse. Uno dei rammarichi più grandi è stata la morte, poco prima che iniziassimo, di Sante Notarnicola, l’ultimo componente della Banda Cavallero, che sarebbe stato un ottimo filo conduttore tra la Ligéra, ma anche perché fu un personaggio molto importante dal punto di vista politico, perché era anche un brigatista, oltre che un poeta e uno scrittore. Per dire, durante le trattative del rapimento Moro, le Brigate Rosse lo inserirono. In generale, abbiamo dovuto fare delle scelte perché più andavamo avanti, più venivano fuori i personaggi. Ma in realtà quello che è mancato è stata una prospettiva femminile. Quelle che ci sono, Antonella e Marinella, sono marginali, ma un po’ in tutte le serie che trattano il passato ho riscontrato questo deficit, come se la figura della donna fosse stata spuntata dalla Storia. Chiara, condividi con me questo punto?
Chiara: Certo che lo condivido, ma tra l’altro anche tra i fotografi è impossibile che non ce ne sia una, mi sono detta. Invece è così, ce lo ha confermato anche Letizia Battaglia, che era l’unica che andava a scattare in faccia ai gangster. E anche nelle redazioni di cronaca era lo stesso: Marinella Rossi, grande cronista della nera e della giudiziaria sul Giorno, sarebbe arrivata all’inizio degli anni ’80. Tra i criminali c’erano, ed erano importanti, ma non erano in prima linea, e quindi sono state dimenticate.

Dopo La Mala, sapete già quale sarà la prossima storia che racconterete?
Chiara: Abbiamo una storia molto importante, complicata e delicata, e capiremo se c’è qualcuno sufficientemente matto in Italia da farcela raccontare. Altrimenti faremo il giro dall’estero, dove potremmo trovare dei soggetti meno coinvolti ma più interessati a raccontare un altro pezzo della nostra Storia.

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