Sono passati trent’anni da quando una quindicenne Maggie Gyllenhaal esordiva in Waterland, diretto dal padre Stephen, regista di mestiere con almeno un paio di film da ricordare in carriera (Il cuore nero di Paris Trout, Una donna pericolosa). Soprattutto, ne sono passati venti da quando incantò il Sundance Film Festival con la sua ipnotica performance in Secretary, in cui interpreta una donna che libera se stessa scoprendo il piacere di essere sottomessa e il potere che ne deriva. In Italia uscì il 4 aprile del 2003, prendiamo come un segno che La figlia oscura, esordio dietro la macchina da presa di Maggie, esca il 7 aprile.
Tratto dal romanzo omonimo di Elena Ferrante, il film – che vede protagonista Olivia Colman, contrapposta a una Dakota Johnson di bellezza rinascimentale – è una riflessione sull’essere donna e sulla maternità che ha debuttato alla 78esima Mostra di Venezia vincendo l’Osella per la migliore sceneggiatura. È stato l’inizio di una Awards Season che ha visto il film protagonista fino all’ultimo atto, gli Oscar dello schiaffo, dove era in corsa oltre che per la sceneggiatura non originale (battuto da I segni del cuore – CODA) anche per l’attrice protagonista (Colman) e non protagonista, la bravissima Jessie Buckley (che sullo schermo interpreta Colman da giovane). Perfettamente a suo agio nel ruolo della regista, Miss Gyllenhaal ci ha raccontato com’è nato La figlia oscura, proprio a partire dalla fonte letteraria.
Qual è stato il tuo primo incontro con le opere di Elena Ferrante?
Ho letto i romanzi dell’Amica geniale non appena sono stati tradotti in inglese. Quando avevo finito i primi due, il terzo ancora non aveva una versione inglese e il quarto non era stato ancora pubblicato neanche in italiano. Nell’attesa avevo recuperato anche La figlia oscura, e la storia mi aveva colpita in maniera profonda. Mentre leggevo, pensavo a quanto fosse sconnessa questa donna, e poi dopo tre giorni mi scoprivo a essere completamente empatica nei suoi confronti, quasi rassicurata dal fatto che ci fosse qualcuno che parlasse di un argomento che nessuno ha mai voluto affrontare. Mi ritrovavo a leggere e rileggere quelle pagine da sola, pensando alla mia maternità ma soprattutto al mio essere donna dal punto di vista intellettuale, emotivo, sessuale, tutte cose di cui si ha paura di parlare. Allora ho cominciato a pensare a come sarebbe potuto essere costruire una situazione in cui non essere più sola con questi pensieri, ma poterli condividere con tuo marito, tua figlia, tua madre. Una situazione pericolosa ed eccitante, in cui ti mostri indifesa e racconti un momento in cui ti sentita spezzata, non perfetta. Perché la pressione di essere la madre perfetta è schiacciante ed è una fantasia: nel mio momento migliore penso di esserci andata vicina per 15 minuti.
Il romanzo di Elena Ferrante era ambientato in Italia, per il film la scelta è invece ricaduta sulla Grecia.
Ma inizialmente doveva essere ambientato negli Stati Uniti, in qualche località di vacanza sulla costa del Maine, tutta lungomare e sandwich all’aragosta. Nonostante mi sia sposata e abbia passato la gravidanza in Italia, non la conosco affatto e non avrei potuto avere la voce di una donna italiana: ho pensato che avrei avuto più cose in comune con una donna inglese, quantomeno per la lingua, ma la cosa importante era che la storia funziona per qualunque donna del mondo. Quindi Stati Uniti, ma poi è arrivato il Covid e ci siamo resi conto che non era possibile. Abbiamo provato con il Canada, ma il cast era troppo internazionale e non ci permettevano di far arrivare tutti, era troppo pericoloso nel mezzo della pandemia: avevamo produttori israeliani, un direttore della fotografia francese, attrici inglesi e irlandesi. Il mio produttore aveva suggerito di spostare tutto in Inghilterra, ma per me sarebbe stata una situazione come l’Italia. Finché a un certo punto ho pensato che sarebbe potuta essere la Grecia, un posto dove mi sarei sentita una turista come la protagonista della storia. Quando abbiamo scoperto che le agevolazioni per le produzioni in Grecia sono molto vantaggiose, abbiamo capito che quella era la strada.
(Così è andata, con la famiglia Gyllenhaal che si è trasferita al completo nel Peloponneso per quasi un anno compreso il fratello Jake, che ha seguito l’impresa della sorella maggiore con grande passione.)
Quando si parla di Elena Ferrante, la domanda è d’obbligo: hai avuto contatti con la scrittrice misteriosa?
Naturalmente non l’ho mai incontrata. Le ho scritto una lettera, preparata molto a lungo, per convincerla a concedermi i diritti per lo sfruttamento cinematografico del romanzo, e la richiesta prevedeva che io sicuramente avrei scritto il film, ma anche con l’opzione di dirigerlo. Elena Ferrante mi ha risposto dicendomi che l’accordo sarebbe stato valido solo se fossi stata io la regista del film. E poi un giorno scrisse un articolo per il Guardian in cui parlava di me dicendo che l’adattamento avrebbe potuto davvero funzionare solo se l’avessi fatto completamente mio, e che voleva che mi esprimessi liberamente attraverso il suo lavoro. Era esattamente la direzione che avevo preso, non volevo più avere il romanzo costantemente al mio fianco, ma che l’adattamento avesse una sua vita indipendente. Quando Ferrante ha letto la sceneggiatura, mi ha dato alcuni consigli e mi ha scritto due note più articolate, e una delle due è stata fondamentale: ovvero che Leda, la protagonista, non doveva essere o sembrare una squilibrata, perché non avrebbe dato al pubblico alcuna ragione di empatizzare con la sua condizione di madre.
L’uomo che spinge la giovane Leda a prendere la decisione che segnerà il resto della sua vita è interpretato da tuo marito, Peter Sarsgaard. Una scelta non facile.
Avevo scritto il ruolo pensando a lui, poi mi sono detta che non era una buona idea, che non avevo tutta questa voglia che fosse mio marito ad avere una relazione con un’attrice incredibilmente bella e di talento (Jessie Buckley, nda). Poi, ancora una volta, una voce dal fondo del cervello mi ha detto che mi stavo comportando come una piccola borghese, non c’era nessuno che potesse interpretare quel ruolo meglio di lui. Stiamo insieme da vent’anni, abbiamo passato insieme tante esperienze, ci amiamo, e oltretutto quanti attori hanno avuto profonde relazioni sentimentali e sessuali con un loro regista andando a letto con qualcun altro sullo schermo? Inoltre Jessie è diventata molto presto come una sorella per me, e credo che questo triangolo abbia permesso di esprimere emozioni molto sincere sullo schermo: loro due sono fantastici.
La tua prima esperienza dietro la macchina da presa è in realtà “metatelevisiva”. La prostituta Eileen “Candy” Merrell, che interpretavi nella serie The Deuce, diventava una regista di film porno. Difficile non pensare che il personaggio non abbia accelerato il tuo desiderio di passare alla regia…
A dire il vero, Candy originariamente doveva essere solo una produttrice, secondo il creatore della serie David Simon tutto doveva girare attorno ai soldi. Io invece pensavo che sarebbe dovuta essere un’artista, e quindi diventare una regista. Alla fine sono riuscita a convincerlo, e certamente interpretare Candy ha svegliato il mio desiderio di raccontare storie e quella parte di me che ha sempre sognato essere una regista». Negli esordi il pericolo è sempre quello di fare troppo o troppo poco, non trovare il giusto equilibrio. Un problema che sembra non avere preoccupato Maggie Gyllenhaal. «Anche se è il mio primo film, ci sono molti aspetti della regia che conosco molto bene che riguardano l’essere sul set, il rapporto con attori, il direttore della fotografia, la troupe. Ho lavorato con cinquanta, sessanta registi diversi, sono esperienze che ho assimilato sul campo. Quello che conoscevo davvero poco erano i processi di pre e post produzione ed è stato importante lavorare con persone molto esperte. Il montaggio è stato un momento entusiasmante, ma la cosa che mi premeva di più e che doveva arrivare da me era che quello che stavo raccontando fosse sincero. Avere qualcuno che mi aiutasse a raggiungere questo obiettivo è stato fondamentale.
E veniamo al cast.
Avevo bisogno di persone che non si limitassero a interpretare un copione, ma che avessero una sensibilità artistica personale che li spingesse ad andare oltre, a interrogarsi e a sorprendermi. Sono tutti molto diversi tra loro, e ho pensato che fosse parte del mio lavoro riuscire a metterli insieme e spingerli fino al limite, così come loro hanno fatto con me.
A partire dalla meravigliosa Olivia Colman. Non hai mai pensato che avresti potuto essere tu Leda?
Non ho mai davvero considerato l’ipotesi di dirigere e recitare insieme. Mi piaceva l’idea di offrire a un’altra attrice la possibilità di fare qualcosa che io reputavo importante. Quando poi ho visto Olivia trasformare Leda in qualcosa di così diverso rispetto a come sarei potuta essere io, mi sono emozionata. Parlavamo davvero la stessa lingua, forse se non avessi avuto la possibilità di avere un’attrice di così grande talento avrei preso in considerazione l’ipotesi di mettermi in gioco: per fortuna non ce n’è stato bisogno.
A proposito di talento, un altro ruolo molto importante nel film è affiato a Ed Harris. Corsi e ricorsi storici: nel 2000 portò a Venezia il suo esordio alla regia, Pollock.
Davvero? Non me lo ricordavo, è una cosa fantastica! Ed è un attore straordinario, per quel ruolo avevo pensato immediatamente a lui, mi sono detta che il peggio che potesse succedere era che mi dicesse di no. Invece ha accettato, e anche lui mi ha dato tanto sul set, dicendomi un paio di cose che mi hanno aiutata moltissimo. Sono stata davvero fortunata.
L’ultima domanda è obbligatoria: vedremo Maggie Gyllenhaal recitare ancora oppure il suo posto adesso è dietro la macchina da presa?
Amo recitare e mi manca. E dirigere un film è faticosissimo, ma trasmette un’energia e un piacere che non avevo mai provato. Comparabile, appunto, solo con l’essere madre. Non ho intenzione di smettere di recitare, ma i copioni che ho letto ultimamente non mi hanno fatto sentire le stesse sensazioni. Invece sto lavorando a una nuova sceneggiatura, sempre tratta da un romanzo: ma è ancora prematuro parlarne.