La storia dietro ‘The Bikeriders’ è ancora più incredibile del film | Rolling Stone Italia
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La storia dietro ‘The Bikeriders’ è ancora più incredibile del film

L’adattamento firmato Jeff Nichols del foto-reportage anni ’60 di Danny Lyon racconta un’America che non c’è, ma che rivive – seppur romanzata – sullo schermo in modo sorprendente. Ne abbiamo parlato col regista e l’autore del libro da cui la pellicola è tratta

La storia dietro ‘The Bikeriders’ è ancora più incredibile del film

Austin Butler in ‘The Bikeriders’ di Jeff Nichols

Foto: Kyle Kaplan/Focus Features

Il motociclista è una figura costante del mito hollywoodiano – il ribelle, l’outsider, l’ultimo pioniere americano – tanto che ci si potrebbe chiedere cosa sia rimasto da dire su di lui. Ma il dramma di Jeff Nichols The Bikeriders, interpretato da Austin Butler, Tom Hardy e Jodie Comer, si libera della mitologia e ci riporta alle radici umane di questo archetipo. Il club di motociclisti del Midwest al centro della storia, i Vandals, si sente autenticamente forte e feroce (a volte si giura di poterne sentire l’odore); sono una banda di fratelli alla ricerca di qualcosa che vada oltre le piccole comodità della classe operaia. «Sono americani, ma non si bevono la Storia americana», dice il fotografo e scrittore Danny Lyon a Rolling Stone.

La verosimiglianza del film non è dovuta solo all’ensemble di alto livello e alle giacche di pelle ben indossate. Per scrivere The Bikeriders, Nichols si è basato su immagini e interviste tratte dall’omonimo libro di Lyon del 1968, costruendo una narrazione fittizia intorno alle storie reali che Lyon ha registrato quando si è unito alla sezione di Chicago degli Outlaws in quel decennio. Come racconta nel suo nuovo libro di memorie This Is My Life I’m Talking About, Lyon è persino diventato un membro a tutti gli effetti del club – contro il parere di Hunter S. Thompson – e la sua documentazione fornisce un ritratto indelebile di quel segmento di controcultura.

Qui Nichols e Lyon parlano della trasposizione di quel lavoro sullo schermo, del perché saremo sempre attratti dalle storie “di strada” e del perché Nichols ha impiegato vent’anni per realizzare questo film dopo aver scoperto per la prima volta le foto di Lyon.

Attenzione: l’intervista contiene spoiler sul film.

Jeff, Danny, come va?
Nichols:
Molto bene. Sono a Berlino per il tour promozionale del film, ma mi sono appena svegliato da un pisolino e ora mi sento un essere umano (ride).
Lyon: Ed è proprio questo il senso di The Bikeriders. Parla di esseri umani, ed è per questo che si svolge negli anni Sessanta e non nel presente. Penso che parlerà ai giovani di ciò che è possibile [realizzare] nella vita e soprattutto di ciò che è andato perduto.

Questo film si basa sulla documentazione di Danny sulla cultura dei motociclisti, ma la storia è di fantasia. Volevo chiederti, Jeff, come hai attinto a queste foto per creare la storia che abbiamo visto sullo schermo.
Nichols: Uno dei motivi per cui mi ci è voluto così tanto tempo per scrivere il film è che ho dovuto trovare un equilibrio tra cosa romanzare e cosa no. È un ibrido davvero strano, perché molto di ciò che Danny ha registrato, la maggior parte del suo libro, è nel film. Direi che il 70% dei dialoghi è costituito dalle registrazioni che ha fatto negli anni Sessanta. Ma ricordo anche di aver avuto delle conversazioni con Danny sul fatto di dover romanzare il club stesso, anzi proprio sull’importanza di questo aspetto. Gli Outlaws esistono ancora e non volevo assolutamente pestargli piedi. E non volevo essere vincolato alla storia del loro club. La cosa che m’interessava davvero era l’incredibile ritratto delle persone fatto [da Danny]. Le fotografie, naturalmente, ma combinate con le interviste: solo grazie a questo mix Danny è riuscito a cogliere quadro complesso e completo di queste persone.

Danny, i personaggi che alla fine vediamo sullo schermo rispecchiano le persone che hai incontrato negli anni Sessanta?
Lyon: Oh, sono molto di più. Sai, i riflessi… è quello di cui parla Platone. Sono identici a loro. Sai, è davvero sorprendente che io abbia realizzato questo lavoro più di sessant’anni fa, quando avevo 25 anni: era il mio bambino. Ho passato così tanto tempo a metterlo insieme, Dio mio. Mi interessava la fotografia, ma non riuscivo a pubblicare quei materiali solo sotto forma di libro fotografico: un grande editore mi disse che avevo bisogno di un testo. E proprio come la macchina fotografica era una macchina, ho pensato: perché non usare una macchina per scriverlo? Ho scelto un registratore, che è un’altra macchina, e nessuno l’aveva mai fatto prima. È difficile da credere, ma solo un altro libro è stato pubblicato utilizzando nastri audio, e ha vinto il Premio Pulitzer: I figli di Sanchez (libro del 1961 che documenta la vita di una famiglia dei bassifondi di Città del Messico, nda). Così ho iniziato a sedermi a parlare con le persone e a registrarle. A quel punto non contava il loro aspetto, ma il modo in cui parlavano. Scoprii che la persona più eloquente del club era una donna che non faceva parte del club. Si trattava di Kathy, che si era messa con Benny (i personaggi, che mantengono gli stessi nomi, sono interpretati nel film da Jodie Comer e Austin Butler, nda). E naturalmente è così che inizia il film. Lei era una grande chiacchierona, e l’altro più eloquente era Cal (interpretato da Boyd Holbrook nel film), che era un Hell’s Angel. La mia generazione era quella dei fattoni. Anche lui veniva dalla California, era un fattone, quindi tra noi c’era un legame. Siamo diventati molto amici. Veniva a casa mia e mi raccontava le sue storie: che fossero vere o meno, erano storie fantastiche. La cosa più bella per me è che gli attori hanno potuto ascoltare i nastri originali. Infatti, Boyd Holbrook mi fa: “Vengo dal Kentucky”, e io dico: “Ahia…”. Poi cambia accento e mi recita questo lungo monologo. Sembrava esattamente Cal. È un attore brillante, come tutti i membri del cast. Sono davvero sorprendenti.
Nichols: Se il 70% dei dialoghi è basato su quelle interviste, forse solo il 30% della trama è lo è altrettanto. Perché se dicessi che le cose che succedono in questo film sono basate solo sulla vera vita di queste persone, sarebbe un’affermazione parziale: per esempio, il triangolo amoroso tra Johnny, Benny e Kathy l’ho inventato. Mi sono preso molte libertà, unendo diversi personaggi reali e altre cose. C’è molto del libro di Danny. Ma allo stesso tempo, se qualcuno mi dicesse: “È un ritratto fedele di queste persone?”, non sarebbe corretto.

Austin Butler e Tom Hardy in ‘The Bikeriders’ di Jeff Nichols. Foto: Focus Features

Un aspetto efficace del film è che ci si potrebbe aspettare una “glamourizzazione” di questa cultura – vestiti alla moda, attori attraenti… – ma invece questa storia ha il sapore di una tragedia. Cosa ne pensate entrambi del bilanciamento di questi elementi apparentemente contraddittori?
Lyons: Tragedia… (scoppia a ridere). Stiamo parlando di Aristotele o di Shakespeare?
Nichols: Credo che ci sia una parola migliore di “glamourizzare”. Danny e io ne abbiamo parlato molto, diciamo che si potrebbe parlare di romanticizzazione. E credo che ci sia una certa differenza. Abbiamo parlato di quanto siano romantiche quelle foto. Sono davvero bellissime. Quelle persone sono bellissime. E ancora, Danny ha parlato di loro in questo modo, della loro giovinezza, del loro stile e di tutto il resto, ma quando questi elementi si combinano con le interviste, tutto diventa più complesso. E credo che sia questo il punto di equilibrio.
Lyon: È fantastico che questo film sia stato realizzato. Ho 82 anni, quindi sono contento di essere vivo per vederlo. Penso che la gente ne trarrà ciò che vuole. È questo il senso di ogni buona opera d’arte. Di fronte a una fotografia si può provare tutto ciò che si vuole. Puoi guardare queste persone e dire: “Sono la feccia della società”, oppure puoi osservarle e dire: “Sono meravigliose”. Ero appena uscito dal movimento per i diritti civili, ero molto giovane, e stavo cercando un soggetto per affermarmi come fotografo, per dimostrare quanto fossi bravo. Hai sempre bisogno di un soggetto. La fotografia riguarda la superficie, è ciò che si vede. E questi ragazzi hanno un aspetto fantastico. Questa è stata una parte importante, ma anche una sorta di lezione. Ho frequentato l’Università di Chicago, Bernie Sanders era uno dei miei compagni di classe. Vengo da un ambiente intellettuale. Mio padre era un medico. Erano professionisti, e guardavano le persone [come quei motociclisti] dall’altro in basso. Non esistevano i media. Io volevo mostrare la loro umanità e la loro importanza, e volevo sottolineare il fatto che quelle persone valevano quanto te, o che addirittura erano migliori di te. Cal, Zipco (il personaggio di Michael Shannon, nda), Kathy sono persone straordinarie, ma per la società di allora non erano nessuno. Anzi, erano peggio di nessuno. E quando Cockroach (interpretato da Emory Cohen) parla di mangiare insetti, è come se stesse facendo il dito medio a tutta la società americana. L’America era in guerra con il Vietnam, cosa che mi faceva assolutamente orrore. Erano i soldi delle nostre tasse. Questi ragazzi non ci stavano. Non gli importava nulla della politica. Volevano essere liberi. E il modo in cui si esprimevano era salire su una moto e scendere in strada. Ogni tanto venivano uccisi da un’auto di passaggio. Io li amavo. Mi piacevano. E anche a me piaceva andare in moto.

In questo film ci sei anche tu come personaggio, e sei interpretato da Mike Faist. Sei un sorta di osservatore che si muove ai margini. Cosa pensi della scelta di mettere in scena anche te, cioè colui che ha documentato questa storia?
Lyon: (Ride) Be’, non lo so… Jeff, cosa pensi che debba dire?
Nichols: Puoi dire tutto! Non gli piace il modo in cui l’ho ritratto, perché non l’ho reso abbastanza radicale o sporco. Ed è una cosa assolutamente giusta da dire.
Lyon: Cominciamo dalla sporcizia. C’è un funerale che ho fotografato. Sono andato a Detroit con la mia moto, sono andato a questo funerale e c’è una foto [che ho scattato] di una bara. Avete messo questo funerale nel film, Jeff?
Nichols: No, ma l’abbiamo in qualche modo replicato attraverso il funerale di Brucie.
Lyon: Brucie fa un incidente con un’auto. Questo è ciò che dice Cal, che è molto profetico. Cal fa questo grande discorso sull’andare in moto e sull’essere vivi. E la sua battuta finale è: “È quello che arriva dal nulla che ti prende”, che è vero, triste a dirsi, ma mostra l’esistenzialismo insito in quell’universo. Così vado a questo funerale e nel pomeriggio sono seduto in un bar con due donne, che sono molto belle, vestite di pelle, in abiti eleganti. Una di loro dice all’altra, parlando di me: “Danny è piuttosto carino, se solo si lavasse i capelli”. Ecco, questo per quanto riguarda la sporcizia. E poi guidavo una moto, cosa che invece non faccio nel film, ed ero un membro del club a tutti gli effetti. Andavo a tutte le riunioni e bevevo birra insieme agli altri, il che è problematico perché ero una specie di proto-hippie o post-punk. Ma sì, sono stato influenzato dai beatnik. Ho incontrato Mike [Faist]. Gli ho mostrato come si usa una Nikon. Doveva imparare a usare le macchine fotografiche dell’epoca. E anche il registratore analogico. Io avevo un piccolo apparecchio tedesco, che pesava tre o quattro chili. Potevo metterlo sul retro della mia Triumph, oppure tenerlo al collo. E lui ha dovuto imparare a utilizzare questi strumenti come li utilizzavo io.

Abbiamo accennato al rapporto che hai avuto con Kathy come voce principale di questo club, un’outsider in mezzo a un gruppo di outsider. Che cosa è stato particolarmente prezioso nell’adottare per il film il suo punto di vista?
Nichols: La prima parte della risposta è che lei è il personaggio più interessante. Le sue storie sono le migliori. Detto egoisticamente, da regista e narratore, sono quelle che ti attraggono immediatamente: penso ai 20 minuti iniziali in cui lei ci fa “incontrare” tutto il club. E queste cose sono quasi testuali, sono le sue vere parole. Ma se si fa un passo indietro, se avessimo scritto questo film solo dal punto di vista maschile, sarebbe stato davvero pesante e forse un po’ insincero, perché Kathy era, credo, di gran lunga la più perspicace, persino la più introspettiva. Si ha la sensazione che, mentre parla, stia cercando di capire quale sia il suo posto nel mondo in cui si trova, e questo è uno dei motivi per cui credo che piaccia così tanto a tutti. È disarmante. E se quello che vogliamo dire è che alcuni di questi uomini hanno problemi a esprimersi, che si atteggiano ad altre persone rispetto a quelle che sono realmente… be’, se avessimo scritto il film usando le loro parole, non credo saremmo arrivati al cuore della questione così chiaramente come facciamo grazie a Kathy. Lei è davvero colei che può aiutarci a interpretare meglio questi aspetti della storia.
Lyon: È un peccato che non sia vissuta abbastanza per vedere il film. Era una persona straordinaria. Se parliamo di tragedia classica, Kathy era una persona non istruita, madre di tre figli, che praticamente ha lasciato il marito e la sua vita borghese per mettersi con una specie di pazzo borderline, un affascinante diciannovenne… a proposito di dramma! Lui è un motociclista incredibilmente bello, ma per cosa è conosciuto? Per aver attraversato il cortile di una scuola a 100 chilometri all’ora in moto, con la polizia che lo inseguiva…

Austin Butler (alias Benny) e Jodie Comer (Kathy) in una scena del film. Foto: Focus Features

Come siete entrati in contatto con gli Outlaws?
Lyon: Andavo con la mia moto nel South Side di Chicago. C’erano due negozi di moto, uno a Gary, Indiana, e uno a South Chicago. Questo tizio, Jack, stava lavorando sulla mia moto e gli ho chiesto: “Conosci qualche club che posso fotografare?”. E lui: “Sì, sono un membro dei Chicago Outlaws, perché non vieni alla nostra riunione?”. Venerdì vado alla riunione, dall’altra parte della strada c’era una vera tavola calda di Chicago con sgabelli e pavimento a scacchiera – il chili costava 35 centesimi, il caffè un nichelino – ed entro. Jack era lì, gli scattai una foto perché aveva l’uniforme del club, e Kathy era seduta accanto a lui, ed era così accogliente. Naturalmente, ero un pesce fuor d’acqua. Era come andare su Marte. Stavo interpretando un ruolo. Ero un giornalista, ma non potevo ancora parlare con loro di quello. Ho detto che ero un motociclista, e Kathy mi ha dato il benvenuto. Questo è stato l’inizio. Le persone volevano che gli scattassi una foto, bevevano birra e si mettevano in posa. Uno di loro si è rivolto a me dicendo: “Perché non ti unisci al club?”. Lì mi si è accesa una lampadina. Ero stato in contatto con Hunter Thompson. Avevamo un amico in comune, ci scrivevamo cartoline e lettere. Gli scrissi e gli dissi: “Ho fotografato dei motociclisti e volevo iscrivermi al club”. Lui mi scrive una lunga lettera e mi dice: “Non entrare nel club”. Mi disse quanto gli Hell’s Angels, su cui stava facendo un reportage, fossero pericolosi, diceva cose terribili su di loro. E io gli risposi dicendo: “Oh, questi ragazzi invece dicono che gli Hell’s Angels sono degli zuccherini”. Io che ne sapevo? Non avevo mai incontrato un Hell’s Angel. Lui continuava a dirmi di non entrare nel club. E poi alla fine mi fa: “Mettiti sempre il casco, quando vai in moto”, che è una cosa davvero borghese. Ironia della sorte, alla fine ad essere picchiato dagli Hell’s Angels è stato Hunter Thompson, non io. Io andavo d’accordo con qui ragazzi. A loro è piaciuto quello che ho fatto, anche il libro che ne è uscito. Erano tutti vivi per vederlo. Ho una foto di Cal che leggeva il libro in Canada che qualcuno ha scattato e mi ha mandato.

Giusto, ricordo che Hunter, alla fine del suo reportage, è stato fatto a pezzi dagli Hell’s Angels.
Lyon: Be’, questo dimostra che aveva un brutto rapporto con i soggetti che voleva raccontare. Ma davvero brutto. Io lavoro solo con persone che mi piacciono, e dove sono ben accetto. Altrimenti non mi sento a mio agio. Comunque, all’inizio è stata Kathy ad accogliermi, e alla fine ho capito che lei era più interessante di tutti gli altri. Sono tornato da New York per fotografarla, perché a quel punto stavo finendo il libro. L’ho fotografata nella sua casa.

Così hai evitato di essere preso a calci nel sedere. Ma la violenza che vediamo nel film non si sottrae a quell’impulso che comunque hanno. Era puro machismo, o nella rissa trovavano qualcosa di liberatorio?
Nichols: Una volta abbiamo parlato, Danny, e tu hai detto che il fatto che avessero bruciato il bar te lo sei inventato. Il che è vero, non hanno mai bruciato un bar.
Lyon: L’hanno fatto dopo, probabilmente (ride). Ma non l’hanno fatto quando c’ero io.
Nichols: In una delle interviste che ha dato, Kathy racconta che Benny si trovava in questo bar e che è stato picchiato da un paio di persone del posto. E Johnny parlò di bruciare il bar. Questo è un buon esempio di come io abbia preso qualcosa che è menzionato nel libro, ma solo come idea, e l’abbia trasformato in una scena del film. Ed è una scena davvero cruciale.
Lyon: Nel libro c’è una scena in cui si festeggia il Capodanno. Eravamo a Milwaukee e i ragazzi di Milwaukee erano più duri e cattivi degli Outlaws. Comunque, fecero una festa al Seaway Diner. A quanto pare, l’edificio stava per essere demolito. Si trovava in quartiere che stava per essere sottoposto a una riqualificazione urbanistica. Ricordo che ci fu una discussione sul fatto che avrebbero dato questa festa e poi avrebbero bruciato l’edificio, cosa che sicuramente non fecero. Era una specie di iperbole.
Nichols: Kathy parla anche di Benny che tira un pugno a un tizio, il quale si sposta e dunque la sua mano attraversa una finestra. Lui si ritrova con la mano piena di vetri ma continua a combattere.
Lyon: È quello che fa Marlon Brando [in una scena di Fronte del porto]. Prende a pugni una finestra. Tu l’hai mai fatto, Jeff
Nichols: No, grazie a Dio.
Lyon: Io sì. Una volta ho tirato un pugno a una finestra. E credo di averlo fatto dopo aver visto Fronte del porto quando avevo 14 anni. Ma ero molto arrabbiato.

Le aspettative della società “normale” sembrano pesare molto su questi ragazzi. Hanno questo schiacciante senso di non appartenenza…
Lyon: È lo stesso che provo anch’io! Sul serio, chi vuole appartenere alla società? Cosa sta succedendo? Sono passati cinquant’anni e guarda in che mondo ci siamo trovati a vivere.
Nichols: Danny, penso che tu sia un vero radicale. Quello che ho trovato interessante di alcuni di questi ragazzi è che parlavano di ciò che non gli piaceva della società tradizionale, ed erano davvero bravi a farlo. Alcune interviste che ho ascoltato nelle registrazioni non sono state inserite nel film. C’è un ragazzo – non so esattamente chi – che diceva di non voler possedere una casa, di non voler possedere un’auto. Quello che trovo interessante è che parlano di non voler far parte della società, ma poi, se prendete la fine del discorso di Zipco sulla commissione di leva, è incazzato perché non è potuto andare in Vietnam. È arrabbiato perché non è stato accettato. È interessante il fatto che non volessero farne parte, ma allo stesso tempo alcuni di loro si sentivano offesi per non essere stati accettati dalla società.
Lyon: Il suo è uno dei discorsi più brillanti del libro e del film. E Michael Shannon è Zipco. Voglio dire, ha proprio lo stesso odore di Zipco. Lo si capisce subito. Queste persone stanno parlando con questo ragazzo, che poi sarei io, ed è per questo che si rivelano. Stanno rispondendo a me perché sentono che io li amo. Zipco fa un discorso assolutamente straordinario sull’America. Hai ragione, vuole andare in Vietnam. È un completo idiota. La sera prima è talmente ubriaco che riesce a malapena a parlare. La mattina dopo si presenta con il vomito nella barba perché beve sempre come una spugna. Lui è davvero un personaggio shakespeariano. Zipco è incredibilmente divertente e lo sa. Sembra un personaggio teatrale, e vive come se lo fosse. Ed è davvero finito in Florida, dove è morto. Non credo fosse ubriaco, ma pare che stesse attraversando la strada in pieno giorno e che sia stato investito da un’auto e ucciso.
Nichols: Ecco perché lavoro con Michael Shannon, perché è più intelligente di me. Ho inserito quel monologo nella sceneggiatura, è molto divertente. E poco prima di girarlo, Mike viene verso di me… non facciamo mai prove, anzi in realtà io e Mike proprio non parliamo molto, perché è così dannatamente intelligente che non ce n’è bisogno.
Lyon: È come Zipco.
Nichols: Viene da me prima delle riprese e mi dice: “Pensi che questo monologo sia piuttosto divertente, vero?”. E io: “Be’, sì, penso che lo sia, Mike. Zipco si ubriaca, sua madre lo tira fuori dal letto e poi fai questo test e maledici tutti”. E lui: “Non credo affatto che sia divertente”.
Lyon: Non credo che Zipco pensasse che fosse divertente!
Nichols: Alla fine non lo pensa più, perché parla di piangere. Mike fa questo monologo e io vedo tutti gli altri attori seduti intorno a questo falò che ascoltano Zipco e le sue parole, ma guardano anche Michael Shannon che recita, li fa ridere e poi li calpesta [con] il modo in cui pronuncia la fine del discorso. C’è Mike Shannon che prende questo monologo che forse un’altra persona avrebbe pronunciato in modo diverso, e fa una sorta di seduta psicologica a tutto il gruppo seduto davanti a lui. Questo è successo durante la prima settimana di riprese, e quel discorso continuava a venire fuori [nei giorni successivi]. Gli altri attori continuavano a parlarne, in parte per il discorso in sé e in parte per l’interpretazione di Michael Shannon.
Lyon: E che mi dici di questa battuta? “Se non lavori con le mani, non sei buono a nulla”.
Nichols: È una delle mie battute preferite di tutto il film.
Lyon: Guardateci in questo momento. Qualcuno usa le mani? Ho due pezzi di plastica incastrati nell’orecchio. Sono seduto a 10 metri di distanza dallo schermo del mio computer. Sto usando un dito su un piccolo schermo alto circa tre centimetri. Zipco sapeva tutto questo sessant’anni fa. Ecco perché erano sporchi e andavano in motocicletta.

Il motociclista è stato un archetipo così duraturo, nel corso dei decenni. In tutta questa mitologia, cosa c’è oggi di sbagliato?
Lyon: I motociclisti di oggi non sono le persone di questo film, non sono le persone con cui sono andato in moto, e non sono nemmeno quello che sono io. Io sono un animale completamente diverso.
Nichols: Questo è il senso dell’intero film. Ciò che ha spunto quei ragazzi a fondare il club è diverso da quello che ha attirato i giovani delle generazioni successive a farne parte. Quello che il film cerca di fare è mostrare che c’è stato un cambiamento negli anni ’60: non era più un club “sociale” per ragazzi della classe operaia che cercavano qualcosa al di fuori del mainstream. È arrivata la violenza. E più tardi, in questi club, sono entrati degli obiettivi che non erano quelli originari. Quello che si prova alla fine del film è un senso di nostalgia. La sensazione che questo tempo e queste persone non esisteranno più. Perché non possono più esistere.
Lyon: Be’, ci sono ancora dei ribelli in America. Sai, me l’hanno chiesto. Abbiamo fatto [un’intervista] a Londra, ricordi? E mi hanno chiesto: “Chi sono i ribelli di oggi?”. E io ho risposto: “Gli indiani Lakota che hanno fermato un oleodotto”. Alla società quel gesto non è piaciuto.
Nichols: Questo si ricollega all’approccio di Danny alla sua carriera e ai suoi soggetti. Ci saranno sempre persone che guardiamo dall’alto in basso per una miriade di motivi. Di solito si tratta di classe, come ha detto Danny, o forse è solo perché hanno pensieri e comportamenti che ci sconvolgono: ma questo non significa necessariamente che non valga la pena parlare con loro.
Lyon: È quello che diceva Dostoevskij.

Da Rolling Stone US

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