Chi è diverso? Cosa riteniamo non conforme ai canoni estetici del nostro millennio? E soprattutto chi viene considerato differente si accetta effettivamente per quello che rappresenta? Sono molteplici le domande e le trappole che Aaron Schimberg pone allo spettatore durante la visione di A Different Man, uno dei casi cinematografici più interessanti del 2024, prodotto da A24 e al cinema per Lucky Red dal 20 marzo.
La favola oscura che Schimberg costruisce, attraverso stilemi sognanti ed enigmatici, narra il caso di Edward (Sebastian Stan), aspirante attore affetto da neurofibromatosi di tipo 1 che, sottoponendosi come cavia al test di un nuovo farmaco capace di guarirlo definitivamente, riuscirà a distruggere la sua precedente identità calandosi in una nuova visione di sé stesso totalmente idealizzata. Ma cosa comporterà tutto ciò?
In una perfetta spirale oscura e tragicomica in cui il nostro antieroe si perderà, sfidando la sua stessa identità “passata”, anche la colonna sonora crea al suo interno tante vie narrative impervie, rappresentando quasi l’anima multipla di Edward. Definendone le ambientazioni, tra una New York decadente e notturna di scorsesiana memoria e un mondo onirico e trasfigurativo, la composizione si struttura attraverso un tematismo sonoro fortemente riconoscibile che riporta alla luce non solo la grande orchestrazione hollywoodiana ma anche i memorabili fasti della musica per il cinema italiano, arrivando effettivamente alla concezione di un linguaggio sonoro concretamente universale. È il lavoro di Umberto Smerilli, che abbiamo avuto il piacere di incontrare per analizzare con lui quello che si nasconde nella colonna sonora di A Different Man. Che sia anch’essa un sottotesto allucinatorio o sognante?
Com’è nata la tua collaborazione con Aaron Schimberg e come sei arrivato a lavorare a A Different Man?
Ho conosciuto Aaron nel 2017, in un contesto davvero stimolante. Ero stato invitato a partecipare all’Artist Academy del Festival di New York, un laboratorio creativo dove selezionano videomaker da tutto il mondo con l’obiettivo di favorire il networking e la crescita professionale. Ci siamo trovati subito in sintonia e abbiamo iniziato a scambiarci delle idee. Lui mi ha fatto leggere alcuni suoi progetti e mi ha mostrato il film su cui stava lavorando in quel periodo, Chained for Life. È stato un momento molto importante, perché osservando il suo lavoro entrambi abbiamo capito subito che c’erano i presupposti per realizzare qualcosa insieme, per questo ci siamo detti: “Sarebbe bello, un giorno, lavorare insieme”. Quel giorno è arrivato qualche anno dopo, quando Aaron mi ha chiamato all’improvviso. Mi ha detto che stava preparando un nuovo film e che, secondo lui, la mia musica si poteva effettivamente sposare con la narrazione. Però c’era un ostacolo: la produzione non mi conosceva, quindi mi ha proposto di fare un provino. Mi ha inviato la sceneggiatura e mi ha dato qualche indicazione generale sul progetto. A quel punto mi sono chiuso in casa per qualche giorno e ho elaborato una proposta. Era qualcosa che pensavo potesse servire a noi due per ragionare insieme e, se necessario, aggiustare il tiro. Invece, senza dirmi nulla, Aaron ha subito girato la mia proposta a A24. E da lì è arrivata la conferma. È stato tutto molto naturale, ma anche sorprendente.

Umberto Smerilli al piano. Foto: press
Il film sembra muoversi tra noir e introspezione. Come hai costruito una composizione che potesse restituire questa doppia anima, tra tensione e riflessione interiore?
Il tono generale della storia è sicuramente cupo, inquietante, e ho cercato di esprimere questa atmosfera attraverso alcune scelte specifiche di orchestrazione e armonia. Ho lavorato su suoni che fossero sfuggenti, in bilico tra il rassicurante e il minaccioso. Una continua oscillazione tra qualcosa di familiare e di inaspettato che fosse proprio alla base del perturbante. Questo approccio è stato determinante nella costruzione dell’armonia del tema principale. Ho privilegiato armonie apparentemente semplici, tradizionali, che richiamassero l’universo del blues minore, un linguaggio musicale che appartiene al nostro background collettivo. Ma dentro queste strutture c’è sempre un elemento armonico al di fuori del contesto che rompe l’equilibrio. Queste scelte, a livello di tono, rimandano anche all’immaginario del noir. L’idea era di usare la musica in modo vagamente scenografico, per evocare anche il mondo notturno di New York. Nonostante non venga mai dichiarato apertamente che sia l’ambientazione principale, è presente come un sottofondo costante, una “newyorkitudine” che si avverte anche quando non è messa in scena in modo diretto. Per quanto riguarda il tema del doppio, la riflessione compositiva è stata sicuramente più complessa. Più che una semplice dualità, ho lavorato sull’idea della disintegrazione del personaggio. L’identità del protagonista non è mai perfettamente definita, è come se ci fossero delle spinte centrifughe che lo portano a dissolversi. Ho pensato a un’immagine: uno specchio rotto, frammentato. E questa frammentazione si riflette anche nella musica. Le linee armoniche e melodiche si muovono spesso in direzioni diverse, generando una sensazione di instabilità. C’è sempre un’allusione alla bitonalità, un gioco di sovrapposizioni e contrasti che contribuiscono a quella sensazione di inquietudine e smarrimento che accompagna il percorso di Edward.
Ti sentiresti di definirla quasi una musica trasfigurativa?
Sì, senz’altro, e mi sento di aggiungere che proprio nel tema centrale del film, quando avviene la trasformazione di Edward, c’è un passaggio armonico e timbrico determinato dal passaggio dal clarinetto al sax tenore che evidenzia dettagliatamente questa trasfigurazione. E penso che sia qualcosa che effettivamente ritroviamo in tutta la composizione.
Il tema musicale portante ha un carattere ipnotico, tanto da tornare ciclicamente all’interno del film. Come hai lavorato per creare questa sensazione di trance e sospensione della realtà, e quali strumenti o tecniche hai privilegiato per riportare in auge un elemento portante del cinema hollywoodiano?
Sicuramente la composizione di una musica fortemente tematica fa parte della mia vocazione artistica, quindi tendo naturalmente a orientarmi in quella direzione. Quando trovo sponda nel regista, quando c’è un’apertura a raccogliere i miei suggerimenti, il lavoro funziona bene perché si crea un dialogo creativo che valorizza questa mia inclinazione. È un approccio che potremmo definire un po’ “old-fashioned” nel mondo delle colonne sonore, perché oggi si tende quasi sempre ad evitarlo. Quando ho iniziato a lavorare su questo film, la prima idea che ho proposto – e che poi è stata la base per cui sono stato scelto – era proprio il tema che ritroviamo nel film. In ogni caso, un input da parte del regista c’è stato. Tra le reference che mi ha indicato c’era L’inquilino del terzo piano di Roman Polański, che è costruito intorno a un tema fortemente riconoscibile. E l’idea di sviluppare la colonna sonora intorno a un tema mi piace, perché il tema è di per sé molto narrativo. Se riesci a inserire gli ingredienti giusti, può diventare un modo per raccontare una storia. La difficoltà sta nel fatto che un tema musicale dice sempre molto. E oggi una delle tendenze più diffuse, sia estetiche che di linguaggio, è quella di mantenere l’ambiguità il più possibile. Il rischio è che la musica finisca per dire tutto in modo troppo diretto, perdendo quella complessità che può rendere una narrazione più stratificata. Quindi la vera sfida oggi è riuscire a comporre una musica che dica molto, ma che permetta anche di controllare le diverse connessioni semantiche. In altre parole, costruire un tema capace di contenere più livelli, più layer di significato. Perché quando una musica viene associata a una situazione in maniera troppo netta, rischia di impoverire il senso di quella scena. È come se la musica diventasse una chiave che racchiude tutte le possibili interpretazioni, appiattendo la polisemanticità su un’unica alternativa: triste o allegro, positivo o negativo. Per questo credo sia difficile comporre una musica che al suo interno riesca a contenere più cose. È una musica un po’ sfuggente, forse anche beffarda o sarcastica, che riesce a suggerire più significati senza asserirli in modo diretto. Anzi, credo che riesca a porre molti interrogativi.
Ascoltando la tua colonna sonora ho percepito una sensazione tragicomica, una componente ironica che mi ha colpito molto. Mi ha ricordato, ad esempio, il tema del nano di Twin Peaks (Dance of the Dream Man), oppure alcune sfumature di Edward mani di forbice, soprattutto nel suo tono da ouverture fiabesca ma leggermente oscura. Volevo capire quanto questi elementi siano entrati effettivamente nella tua ispirazione.
L’elemento della fiaba oscura è senz’altro presente, ma non lo definirei un elemento centrale. Penso che questa dimensione emerga soprattutto attraverso l’idea di una musica trasfigurativa, come dicevi prima, capace di alterare la percezione della realtà. Nel film ci troviamo di fronte a una narrazione ambigua, sospesa tra una realtà tangibile e una dimensione onirica, da incubo. Per questo nella colonna sonora ho voluto inserire elementi che lasciassero un margine di dubbio: quello che vediamo appartiene davvero al nostro mondo reale o c’è qualcosa di più, un sottotesto allucinatorio o sognante? Ho cercato di tradurre questa ambiguità anche attraverso l’uso di una determinata strumentazione. Ad esempio, l’uso della celesta e dei flauti contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, quasi irreale. C’è poi un momento di apoteosi musicale, in cui i piatti introducono un crescendo che porta a una sorta di parossismo sonoro. È come se la musica si spingesse oltre i confini della realtà, suggerendo che probabilmente sotto la superficie di ciò che vediamo si nascondano altre verità, forse più oscure o distorte.
Prima accennavi alla centralità scenica di New York e, guardando il film, ho percepito delle sensazioni e delle atmosfere che mi hanno riportato alla colonna sonora di Taxi Driver. Ho avvertito molto l’influenza del lavoro di Bernard Herrmann, soprattutto per quella dimensione notturna che attraversa il film. Anche se Edward è per certi versi differente da Travis Bickle, ne condivide senz’altro alcuni tratti psicologici come l’alienazione, e sono allo stesso tempo due personaggi molto notturni, che si legano perfettamente a un’atmosfera oscura urbana. In che modo Herrmann è stato una fonte di ispirazione e come ha influenzato il tuo approccio stilistico?
Lo è stato assolutamente. Non so se Herrmann sia il compositore che apprezzo di più in assoluto, ma sicuramente è tra quelli che considero fondamentali nel mio pantheon. Di Herrmann ho sempre ammirato la capacità di esplorare le dimensione psicologica, l’inconscio e persino l’incubo in un modo unico e inarrivabile. Penso a lavori come La donna che visse due volte o Psycho, soprattutto nelle loro sfumature più disturbanti. Ma poi c’è anche un altro aspetto della sua musica, quello più legato all’atmosfera notturna e urbana, come in Taxi Driver. C’è una scena in A Different Man in cui emerge chiaramente questa “sinfonia notturna” dal sapore jazzistico. L’idea era quella di accompagnare un personaggio solo, in lotta contro il mondo, immerso in una notte che per lui segna una sorta di trasformazione. Una maturazione che, in un certo senso, può anche essere vista come un passaggio all’età adulta, perfino con una sfumatura di risveglio sessuale. Quindi sì, c’è sicuramente un’allusione a quell’universo musicale e narrativo fatto di atmosfere maledette, adulte, fumose. Sicuramente Herrmann è stato un riferimento importante nella stesura della colonna sonora, ma c’è anche molta Italia nella mia composizione. È stato un processo naturale, legato al mio percorso personale, ma anche una scelta esplicita. Aaron non ha scelto un compositore italiano per caso: lui è convinto che i compositori italiani siano i migliori al mondo. Se abbia ragione o meno non lo so, ma di certo è un grande appassionato di cinema e colonne sonore italiane. Quindi mi ha praticamente invitato a nozze, e io ho potuto attingere a piene mani dal mio DNA musicale e credo che questo sia evidente. C’è un sapore “rotiano”, soprattutto nel tema principale e nell’orchestrazione che si gonfia nei momenti più intensi. Non voglio azzardare paragoni e non sono un maniaco delle citazioni, ma ammetto che ho guardato anche a Puccini. C’è una certa dimensione operistica, una forza orchestrale che è profondamente italiana. Non è un sinfonismo americano, è qualcosa di diverso, più vicino alla nostra tradizione. E poi ci sono riferimenti a Umiliani, a Piccioni… È un mix interessante, un cocktail che mescola influenze italiane con elementi di derivazione afroamericana come Duke Ellington o Charles Mingus. Posso dire che c’è davvero tanta Italia, in questa colonna sonora.
La scelta di un ensemble prettamente jazzistico è molto particolare. Cosa ti ha spinto verso questa direzione e che ruolo gioca il jazz nel racconto sonoro del film?
Il jazz è entrato nel film per diverse ragioni. Innanzitutto, per raccontare New York e creare un contesto sonoro che fosse autentico e coerente. Ma c’è anche una questione di gusto personale: il jazz è un linguaggio che piace molto sia a me che al regista, su questo ci siamo trovati subito in sintonia. Il clarinetto è lo strumento protagonista del tema principale. È uno strumento jazz per eccellenza, e nel film è suonato in modo volutamente “sporco”, con un tocco ruvido, imperfetto. C’è quindi un legame diretto con il mondo del jazz, un mondo che ha anche un immaginario fortemente maschile. Non voglio che suoni in modo stereotipato, ma il film ruota attorno a un protagonista maschile, e c’è un’allusione a quel tipo di eroi cinematografici: uomini soli, persi nella loro maledizione. Perché sì, c’è una maledizione al cuore di questo film. Il personaggio principale è segnato da un grande peccato, così come avveniva nella costruzione narrativa della tragedia greca. Se pensiamo a Icaro, che per hybris ha osato troppo e si è scontrato con gli dèi, qui il protagonista commette il peccato di misconoscere se stesso. E questa mancanza di consapevolezza lo condanna a un fallimento esistenziale: non riesce a convivere con la propria condizione nefasta e finisce per essere punito dalla mostruosità stessa della società. C’è poi un altro livello, più nascosto e quasi inconscio, che ho scoperto confrontandomi con il regista. Nel film, e forse anche nella musica stessa, il protagonista incarna una figura tipica della narrativa ebraica: un uomo vessato dal destino, che porta il peso di una colpa esistenziale. Il regista è ebreo, non praticante, ma credo che qualcosa della sua cultura sia emerso nella sceneggiatura. In modo quasi inconsapevole, credo di aver colto questa sfumatura. Il clarinetto, pur restando jazz, ha anche delle tonalità che richiamano al klezmer. Non era una scelta conscia, ma forse è stato un passaggio a livello inconscio, un’associazione mentale legata al contesto del film. Ed è interessante come certi elementi emergano quasi da soli, senza che te ne renda conto immediatamente.
In A Different Man c’è sempre una forte ambiguità legata all’accettazione, non solo di sé, ma anche dell’essere un uomo con evidenti difficoltà sociali, che vanno oltre l’aspetto fisico. Nella tua musica c’è questo senso di ambiguità? Questo conflitto tra accettazione e giustificazione?
Sì, penso che “ambiguità” sia effettivamente la parola chiave. È un elemento che ho cercato di abbracciare e tradurre nella colonna sonora. A livello di citazionismo, poi, il film riflette chiaramente la cinefilia di Aaron. La sua cultura cinematografica è impressionante: ha passato la vita a guardare film di ogni tipo, di ogni epoca e provenienza. Vive a New York anche per questo, perché è una delle poche città dove puoi ancora vedere film in pellicola ogni giorno. C’è sempre un cinema che proietta un classico, che sia del cinema coreano o di qualsiasi altra parte del mondo. Questa passione traspare in ogni suo lavoro: i suoi film sono ricchi di riferimenti, non solo cinematografici ma anche letterari e artistici. In questo film, per esempio, c’è un forte richiamo a Munch. Tutti questi riferimenti hanno influenzato anche il mio approccio musicale. Ho cercato di creare una colonna sonora stratificata, che potesse dialogare con le immagini e i significati nascosti del film. L’ambiguità musicale nasce proprio da questo: dal cercare di restituire le contraddizioni e le sfumature emotive del racconto, senza mai renderle troppo esplicite. La musica suggerisce, evoca, lascia spazio al dubbio, proprio come fa il film.

Umberto Smerilli al sax. Foto: press
Com’è avvenuta la registrazione della colonna sonora? Hai lavorato a New York o a Roma? La musica sembra un mix tra un ensemble jazzistico e un’orchestrazione più imponente, quasi hollywoodiana. Come hai strutturato il tutto basandoti anche sulle immagini?
La colonna sonora si sviluppa su due livelli: uno più raccolto e intimo, l’altro più operistico e magniloquente. Questa scelta nasce da un’esigenza narrativa: il film racconta una vicenda profondamente personale, che si svolge nella mente del protagonista. Per questo, la base musicale è minimale e jazzistica, con un organico ridotto che ho curato autonomamente nel mio studio a Roma, suonando ogni strumento. In alcuni momenti però sentivo la necessità di ampliare il respiro della musica quasi come se un coro, per riprendere il tema della tragedia greca, intervenisse a commentare e amplificare la storia. L’orchestra, in questo senso, riprende l’intimità della vicenda e la trasforma in qualcosa di più universale. Per queste sezioni più imponenti, abbiamo registrato un’orchestra d’archi di 32 elementi presso i Fame Studio in Macedonia. In questo processo sono stato affiancato dal mio music producer Piernicola Di Muro e dal co-orchestratore Angelo Maria Farro, due collaboratori fondamentali per la realizzazione della colonna sonora.
Si parla molto di A24, non solo per la sua qualità produttiva, ma anche per l’attenzione alla promozione dei loro film, soprattutto sul piano musicale. La tua colonna sonora, infatti, uscirà proprio con A24 Music. Com’è stato lavorare con loro rispetto ad altre produzioni con cui hai collaborato? Quali differenze hai notato, in particolare riguardo all’importanza che danno al lavoro del compositore?
Questa è stata la mia prima esperienza con il cinema americano, quindi non ho termini di paragone con altre produzioni statunitensi. Se confronto il lavoro con A24 alle mie precedenti esperienze italiane, ci sono molti gradi di separazione: non solo per la casa di produzione, ma anche per il modo in cui si fa cinema in America, che è diverso. Non saprei dire se le differenze dipendano dal fatto che fosse una produzione A24 o semplicemente americana, ma ho percepito una chiara divisione dei compiti e una grande organizzazione. Tutto era ben definito e strutturato. In termini di libertà creativa, mi ritengo fortunatissimo: non ho mai ricevuto feedback negativi durante tutto il processo. Ho avuto l’impressione che loro si comportassero un po’ come curatori d’arte. Una volta scelto il talento e create le condizioni ideali per lavorare, il loro approccio è stato quello di lasciarmi spazio, intervenendo solo per facilitare la mia espressione. È stata una condizione di lavoro davvero ideale.
Secondo te, perché in Italia è difficile replicare un approccio come quello che hai avuto in questo progetto? Ho la sensazione – ovviamente personale – che quando un compositore italiano lavora su un progetto internazionale, non necessariamente americano, sia più libero. Invece, quando si tratta di progetti nazionali, è come se ci fosse il freno a mano tirato. Portare una musica come la tua in una produzione italiana sembra quasi impensabile, come se ci fosse il preconcetto che non funzionerebbe. Per questo mi chiedo se esista una sorta di blocco non riconducibile all’arte stessa della composizione.
Credo che in Italia ci sia una forma di censura preventiva, diffusa sia nelle produzioni che negli stessi autori. Spesso ci si autocensura, pensando che certe idee o soluzioni non passeranno. Ma il problema è più ampio e riguarda il concetto stesso di autorialità. C’è stato un periodo in cui il cinema italiano era veramente sperimentale, soprattutto tra la metà degli anni ’50 e i ’70. Era un’epoca in cui si producevano opere originali, con una voglia evidente di innovare. Anche quando l’autorialità ha iniziato a ritirarsi dal cinema più “ufficiale”, ha trovato rifugio nei generi: è stato proprio lì che si continuava a sperimentare, a cercare nuove strade. Oggi, invece, l’impressione è che si tenda a replicare formule già collaudate, cercando di non uscire troppo da un’aspettativa di mercato. Ma chi stabilisce queste aspettative? Algoritmi, sondaggi, previsioni? Non lo so. Quello che so è che quando ho lavorato su questo film, l’approccio era esattamente opposto: l’obiettivo era fare qualcosa di nuovo. Ogni idea, anche la più strampalata, veniva considerata plausibile, perché anche tra le cose più assurde poteva esserci quella giusta. In Italia, invece, ho spesso la sensazione che se qualcosa non è mai stato fatto o sentito prima, venga automaticamente considerato sbagliato. Ed è questo, forse, il limite più grande. Allo stesso tempo, voglio anche spezzare una lancia in favore della categoria. Spesso i compositori sono molto più estrosi, fantasiosi e creativi di quanto gli sia effettivamente permesso di essere, come per esempio il compositore Fabrizio Mancinelli, che ha uno stile sicuramente molto legato a Puccini, a un tematismo che sposa le centralità narrativa della musica stessa. Viviamo una sorta di sindrome d’inibizione imposta, dove a volte è il regista stesso a non volersi avventurare in territori sconosciuti. Capita che, parlando con un regista, dopo pochi minuti io capisca se ha voglia di fare qualcosa di nuovo. Lo percepisci già da come vuole approcciare la musica: se ha già in mente di utilizzare dei brani temporanei sul montaggio, che tipo di reference fornisce, quanto sono dettagliate. Sono indizi che ti fanno capire subito se c’è spazio per sperimentare o se, invece, il progetto richiede un lavoro più “funzionale”. Il problema più grande, però, spesso è l’emulazione. Lo noto soprattutto con i registi più giovani o alle prime esperienze: c’è l’idea che per fare qualcosa di buono bisogna rifarsi a ciò che è già stato fatto, copiare qualcosa che ha funzionato. Ma questa è una trappola. È come guardare il dito e non la luna. Capisco che rischiare sia difficile e pericoloso, ma credo che ci dovrebbe essere più coraggio nel tentare di fare qualcosa di mai visto o sentito prima, anche a costo di sbagliare. Se non c’è mai il rischio, l’adrenalina scompare. E lo stesso vale per la creatività: avventurarsi in un territorio inesplorato, o addirittura inventarlo, è ciò che rende un’opera interessante. Quando crei qualcosa di nuovo, stai conquistando una terra che esiste solo nella tua testa. E chi la ascolta o la guarda lo percepisce. È questo rischio che rende l’arte davvero coinvolgente.

Umberto Smerilli. Foto: Francis Bravo
A quali nuovi progetti stai lavorando? Ti vedremo nuovamente collaborare con Aaron Schimberg?
Sicuramente lavorare con Aaron è stata un’esperienza molto positiva, e ci siamo già promessi di collaborare nuovamente. Al momento sto semplicemente aspettando: lui è impegnato nella scrittura, quindi vedremo come si evolveranno le cose. Intanto sto lavorando su due commedie. La prima è l’esordio alla regia di Alex Mechanic, che è coautore del soggetto di May December e compagno di Sammy Burch, la sceneggiatrice del film, candidata all’Oscar nel 2024 e autrice anche di questo nuovo progetto. L’altro film è una commedia brasiliana diretta da Gabe Klinger, regista di San Paolo, e prodotta da Walter Salles. Siamo ancora a metà del processo, ma è un progetto a cui tengo molto. Vediamo che sviluppi avrà.