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La tua vita è perfetta? Luke Evans racconta “La Ragazza del Treno”

Nessuna vita è perfetta. Ne è convinto Luke Evans, che interpreta uno dei personaggi più logorati de “La ragazza del treno”, tratto dal libro di Paula Hawkins. E dove gli sguardi urlano più delle voci
Luke Evans sul set di "La ragazza del treno", uscito nelle sale italiane il 3 novembre 2016

Luke Evans sul set di "La ragazza del treno", uscito nelle sale italiane il 3 novembre 2016

È stato un moschettiere (Aramis), nei Tre Moschettieri, un dio greco (Apollo) in Scontro fra titani, un arciere (Bard) ne Lo Hobbit, un vampiro (Dracula) in Dracula Untold. Nel groviglio di inganni e involontari depistaggi al centro de La ragazza del treno interpreta invece il personaggio più depistato di tutti, Scott. Lui è Luke Evans, 37enne attore gallese, che l’anno prossimo sarà nel remake de La Bella e la Bestia. Nel film di Tate Taylor, in sala dal 3 novembre, Scott-Luke si ritrova con la giovane moglie, Megan, uccisa non si sa come, da chi e soprattutto perché. Quando cerca risposte, trova nuove bugie che lo allontanano dalla verità e terribili ricordi che scivolano fuori dall’armadio della memoria.

Fa un certo effetto vedere Evans trasformato in un personaggio logorato da un destino insensato, impegnato in un ruolo drammatico e a forte carica psicologica, con un maglione di lana e non con la solita cotta di maglia mentre sferra un attacco all’arma bianca o sorseggia idromele. Da una suite del Mandarin Hotel che domina Central Park, Evans si scusa per la sigaretta elettronica a cui si attacca parlando della sua esperienza sul set di questo allucinato spaccato della vita contemporanea sotto forma di thriller. La forza della sua interpretazione è racchiusa nella dimensione del non detto, nella capacità di evocare scenari alternativi senza aggiungere battute. Un’occhiata è sufficiente. È forse l’unico modo per mettere sullo schermo una storia raccontata attraverso lo sguardo appannato di Rachel Watson – interpretata da Emily Blunt – che guarda la vita dal finestrino di un treno che dai sobborghi felici di Westchester la porta tutte le mattine nella giungla di Manhattan. Vede coppie che si amano, famiglie che crescono, gente che fa i soldi a Wall Street e nel weekend riceve ospiti sorridenti nel backyard. Dietro ai muri di questa scena sazia e conformista succede di tutto. Tradimenti, vendette, colpe da espiare e cadaveri da seppellire nella boscaglia autunnale: una tragedia greca trasportata nell’impersonale regno di suburbia. Rachel ha la particolarità di essere un narratore totalmente inaffidabile. Non distingue fra ciò che vede e ciò che crede di aver visto, si inganna e inganna quelli che le stanno intorno nel goffo tentativo di aiutarli.

Nell’epoca della dissonanza cognitiva come forma di narrazione, La ragazza del treno è sorella di una serie tv come Mr. Robot, dove il pubblico vede il mondo attraverso gli occhi di un ragazzo che ha le allucinazioni. Il finestrino da cui Rachel vede la tragedia umana è in realtà uno specchio deformante che restituisce la vita che avrebbe potuto vivere se le cose fossero andate diversamente. Se non si fosse persa nei meandri della sua mente, se non avesse dei blackout, se non bevesse vodka nel suo pendolare verso un lavoro che non ha più. Inevitabile che a un certo punto del plot ci scappi il morto. Il film di Tate Taylor è tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice inglese Paula Hawkins, un caso editoriale globale, con oltre 11 milioni di copie vendute nel mondo nel giro di un anno e mezzo. Anche in Italia, dov’è edito da Piemme, è stato a lungo in cima alle classifiche. Evans ha letto il romanzo dopo aver visto la sceneggiatura, e ne è rimasto folgorato, anche se lo ha portato in un’ambientazione lontanissima dalle sue interpretazioni recenti.

Ti è piaciuta questa dimensione più contemporanea?
Avevo voglia di fare una parte drammatica e di indossare abiti di oggi. Volevo un personaggio con cui poter dialogare, che avesse qualcosa in comune con me. Mi è piaciuto un sacco potermi misurare con questa parte.

Qual è la stata la sfida più difficile?
Non concedere troppo a chi guarda. Non si capisce davvero il percorso di Scott, è un personaggio misterioso ed enigmatico. Ci si aspetta naturalmente che sia lui il colpevole, ed è lui stesso che alimenta questi sospetti. Allo stesso tempo è vittima di una donna che decide di raccontargli una bugia, che poi non è una bugia, ma una mezza verità, ma è abbastanza per depistarlo. Ha un sacco di domande e non trova risposte, e quando le trova sono false.

È iracondo e brutale, ma poi il suo totale smarrimento fa quasi tenerezza.
È una vittima. Sul set il regista ha aggiunto una scena in cui Scott compare soltanto, senza dire nulla, perché la sua figura sarebbe rimasta irrisolta altrimenti. È soltanto uno sguardo, ma comunica a chi guarda che lui ha capito. Ha capito che lei non lo stava ingannando di proposito, non c’era l’intenzione di portarlo fuori strada. Certo, rimane la speranza che si incontrino, che tutto si chiarisca.

E magari che s’innamorino, come nel libro.
Sì, ma nel film Rachel crea un casino tale con tutta questa serie di depistaggi e alterazioni della percezione che è impossibile a un tratto perdonarla e voltare pagina. Nel romanzo il percorso è costruito nel tempo, ma nel film la sterzata sarebbe troppo brusca. A un certo punto ti trovi a dire: ma cosa stai facendo? Smettila!

Emily Blunt nei panni di Rachel Watson in “La ragazza del treno”

La dipendenza, il tradimento, lo smarrimento e poi il ritorno in sé. Nel film ricorrono tanti temi: qual è per te quello dominante?
Una persona che riprende il controllo di se stessa dopo essersi persa, questo è il cuore del film per me. Per Rachel l’alcolismo è il modo in cui questo smarrimento si manifesta, ricordandole e ricordando agli spettatori a ogni passo del film la sua fragilità. Ma tutto sta nel ritorno in sé, nella riappropriazione di sé.

È un film fatto di personaggi e sensibilità femminili…
Mi è piaciuto enormemente questo aspetto. Seguire la storia attraverso gli occhi di una donna, capire il suo punto di vista, il modo di reagire e di gestire le situazioni. Ha un effetto enorme sul film, è uno degli elementi che lo rendono qualcosa di più di un thriller tradizionale.

Ci sono le belle ville dei sobborghi di New York, i manager facoltosi, le famiglie perfette e le vite ordinate. Ma dentro a questo involucro di soddisfazione e agio c’è tanta disperazione…
La tua vita è perfetta? Ecco, nemmeno la mia. Tutti hanno la propria croce da portare, a volte riguarda gli affetti, i rapporti, altre volte il lavoro. Insomma, c’è la vita, e poi c’è il modo in cui la rappresentiamo. Prendi i social media. Uno magari fa un lavoro normale, come impiegato, e in pausa pranzo prende lo smartphone, vede Kim Kardashian su Instagram e dice: la sua vita è stupenda! Che glamour! Ma sono certo che anche lei ha gli stessi problemi di tutti, e sarebbe sciocco pensare il contrario.

È un thriller che contiene anche un ritratto della vita contemporanea?
Certamente. La vita è complicata, non è facile trovare la felicità o anche soltanto un po’ di sollievo o comprensione in questo mondo. A volte non è facile nemmeno sopravvivere. Specialmente, io credo, se vivi in una grande città, dove, a dispetto delle apparenze, la solitudine e l’isolamento dominano. Rachel prende quel treno tutti i giorni, ma nessuno le parla, nessuno le chiede come sta, se ha bisogno d’aiuto, è come se non esistesse, anche se tutti vedono lei e il suo disagio. Trovo che la storia contenga una riflessione onesta, anche se portata un po’ all’estremo.

Sono tutti personaggi feriti.
C’è un senso di colpa che grava sulla testa di ciascuno, alcuni si puniscono per gli errori del passato condannandosi ad amori impossibili o che non daranno mai loro la felicità. Per odio verso se stessi rifiutano l’amore incondizionato.

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