Les choses de la vie è un film, magnifico e dimenticato, di Claude Sautet. Da noi aveva il brutto titolo L’amante perché è appunto la storia di un uomo e una donna (bellissimi Michel Piccoli e Romy Schneider) che si amano anche se non dovrebbero (ma chi l’ha detto), tra viaggi in macchina, alberghi fuori rotta per non farsi trovare, e lettere, tante lettere. Lo stesso succede in Un amore – la nuova serie Sky Original prodotta da Sky Studios e Cattleya, dal 16 febbraio su Sky e in streaming su NOW – che fin dal titolo – “amore” sì, ma “un” – riporta tutto alle cose della vita, appunto, anche se l’intenzione, o per meglio dire l’ambizione, è raccontare l’amore tutto.
Alessandro (Accorsi) e Anna (Micaela Ramazzotti) si amano da sempre, da un Interrail a vent’anni che li ha portati, in tutti i sensi, alla fine del mondo: il faro di Finisterre, e la fine del mondo come lo conoscevano fino a quel momento, fino a prima di un amore, dell’amore. Rieccoli da adulti: viaggi in macchina, alberghi fuori rotta, e lettere, tante lettere, tutte quelle collezionate in vent’anni e più di relazione solo epistolare, platonica, ma non per questo meno assoluta, anzi. «Volevamo raccontare proprio quello, una storia tra un uomo e una donna maturi, una storia eccezionale ma che viene presa nella sua quotidianità», mi dice Stefano Accorsi, protagonista e ideatore (proprio nel senso di “da un’idea di Stefano Accorsi”: ci arriviamo più avanti). «E a una certa età, per quanto un amore possa essere assoluto, dev’essere contestualizzato rispetto a tutte le cose che si sono costruite prima».
L’amore
Un amore è un titolo sfacciatamente programmatico, sta lì a dirci: ora ti dico tutto. «Quella era l’intenzione, ma c’è l’articolo indeterminativo», sorride Accorsi. «Ci siamo resi conto che raccontare l’amore è una delle cose più difficili che ti possano venire in mente di fare, soprattutto se non lo si vuole travestire con il genere, come spesso succede oggi. L’amore dev’essere sempre messo dentro un thriller, un film di suspance… penso a The Affair, per esempio. Forse solo Normal People voleva raccontare i sentimenti per quello che sono, e basta, ma era un amore più giovane, è diverso. Noi abbiamo voluto raccontare non la storia maestra della coppia che si innamora, poi si sposa, fa i figli, ma della coppia che vive solo negli interstizi, e che è quasi sempre fuori sync: quando lui è disponibile lei non lo è, e viceversa. E non c’è nessun giudizio morale nei confronti dei personaggi, nessun senso di colpa nelle scelte che fanno».
«A me piace moltissimo questo amore preso nell’età matura», gli va dietro Micaela Ramazzotti. «Perché l’amore è vario, c’è quello adolescenziale a cui tante narrazioni televisive ci hanno abituati, e che c’è anche qui nei flashback di quand’erano ragazzi (i personaggi da giovani sono interpretati da Luca Santoro e Beatrice Fiorentini, nda), ma c’è anche quello adulto, e quello della terza età (nella serie rappresentato da Ottavia Piccolo, madre del personaggio di Accorsi, e Andrea Roncato, nda)… e questo mi affascinava molto. Quando t’innamori da grande devi prendere delle decisioni molto più complesse, ti porti dietro tutta la tua storia».
Alessandro è un uomo solo apparentemente libero, Anna ha un marito (Alessandro Tedeschi) che ama riamata, un figlio grande, ma «vive costantemente nella bugia, e questo ho detto a Francesco Lagi (il regista della serie, nda) e a Stefano quando li ho incontrati la prima volta: “Anna è una bugiarda”, e questa cosa l’hanno poi tenuta nel copione». E poi non diciamo come va a finire, in un sesto e ultimo episodio che è quasi un micro-film a sé e che (forse) ribalta tutto.
«Raccontare l’amore è una delle cose più difficili che ti possano venire in mente di fare»
Stefano Accorsi
Perché il punto non è (solo) la storia di questi due, è proprio come si racconta l’amore oggi. «Volevamo dare l’idea di quanti significati ci sono dietro questa parola di cinque lettere che tutti chiamiamo allo stesso modo, ma che per ognuno è profondamente diversa», spiega Accorsi. «È un sentimento legato alla sensualità, che è qualcosa di davvero atavico che ci portiamo dietro da sempre, e che scatena una delle nostre parti più profonde, il desiderio fisico. E ci siamo resi conto che mettere in scena tutto questo è difficile, che raccontare l’amore solo con delle frasette banali, come in certe canzoni, non basta, perché quelle frasi arrivano solo agli innamorati. E invece è tutto più complicato, come si complicano sempre le cose quando si parla d’amore».
Il pudore
Raccontare i sentimenti vuol dire anche abbandonare il pudore, e questo è l’altro punto interessante di Un amore: il lavoro dell’attore (dei due attori) che ci sta dietro, il lavoro sui loro corpi. «Già quello dell’attore è un mestiere in cui il pudore lo devi lasciare a casa, ma qui è ovvio che la richiesta era ancora maggiore», conviene Stefano. «La prima volta in cui Anna e Alessandro si ribaciano e fanno l’amore ci piaceva che ci fosse qualcosa di goffo, di fragile, anche di ridicolo. Rivivono un amore che è un po’ adolescenziale, e anche da attore devi aprirti a quell’emozione. In questo senso, Micaela è una partner con un approccio al lavoro molto emotivo, molto liquido. Arrivavamo sul set con un’idea, noi come anche il regista, ma poi capivamo di volta in volta dove ci portava l’emozione, e seguivamo quella. Non c’è mai stato un ciak uguale all’altro».
«Forse questa cosa dell’emotività è vera», replica Micaela, «anche se dal canto mio stavolta ho sentito di fare un lavoro molto più compresso. Parli con una che non si è mai posta limiti rispetto ai personaggi che ha interpretato, mi sono sempre buttata senza vergogna, senza pudore, nelle storie in cui credevo, ho sempre dato tutto quello che potevo dare. Se il regista era felice, allora lo ero anch’io. Con l’età ho capito che quest’energia è preziosa e che a volte va contenuta, per riuscire a portarla anche dentro personaggi diversi da quelli a cui sono abituata. E Anna per me è così, è il ruolo con cui inizio davvero a svelare un’altra faccia di me. Quindi mi sento di dire che ho affrontato tutto in maniera quasi accademica rispetto ai personaggi che faccio di solito, è sempre una donna problematica ma più contenuta, meno preda degli eventi. Le mie donne si fanno prendere in giro da tutti e hanno quella forza animalesca che le porta a salvarsi, Anna invece è una donna che vince e che perde, sì, ma sempre per sua scelta, e quello che ho fatto io è renderla solo un po’ annebbiata rispetto alle cose, con il pensiero sempre da un’altra parte. L’ho pensata come un’eterna distratta, con quello sguardo che non è mai lì dove dev’essere. Forse in quella sua assenza c’è anche l’assenza di pudore».
La verità
“Anna è una bugiarda”, la descrive Ramazzotti, ma gli attori sono bugiardi tutti, e forse la menzogna è l’unico mezzo che hanno per arrivare alla verità. «Questa è una cosa che io teorizzo da sempre», osserva Accorsi. «Credo che l’attore si debba preparare molto, ma che quella preparazione gli serva proprio per arrivare sul set pronto a tutto: anche al fatto che a un certo punto si decida di provare a girare una scena esattamente al contrario rispetto a come era stata scritta. E per me questo è fondamentale, soprattutto quando si affronta un tema come questo. Bisogna sempre fidarsi e affidarsi, e lo fai meglio se hai una sceneggiatura forte: a queste abbiamo lavorato per anni. Ma c’erano tante altre zone che avremmo dovuto esplorare, e non ci siamo mai ostinati a cercare una soluzione definitiva, abbiamo sempre lasciato decantare le cose. Io credo profondamente in quest’approccio: il set è un posto in cui piano piano le soluzioni e le risposte arrivano, a un certo punto senti se sono quelle giuste secondo te. Serve un abbandono totale».
«Io alla verità del cinema ci credo», questa invece Ramazzotti. «E per trovare la verità di Anna ho approcciato il personaggio studiandomelo in modo quasi matematico: questa è la situazione, che poi è quella di tutti gli amanti; devi essere scientifico, programmare tutto, non puoi uscire a caso, hai paura di essere beccata. Rischi tutto, ma non puoi mollare quella passione, e allora ti fai il tuo conteggio interiore… io l’ho vista così. E mi sono rivista i film che raccontano la coppia e le sue crisi, perché nel cinema c’è già la verità. Scene da un matrimonio e Io e Annie, anche se quello è un amore nevrotico che fa sorridere, ma mi piace il modo che ha Woody Allen di prenderlo in giro, l’amore. Perché alla fine è così, l’amore è una commedia in cui si mettono in campo tutte le nevrosi, le paure, oddio che succede, non ho più il controllo… è una matematica poetica, ti lasci andare e poi torni continuamente indietro. È una vita d’inferno, quella degli amanti».
Il metodo
Se si guarda alla filmografia di Stefano Accorsi, si riesce a tracciare una specie di linea, una storia sentimentale del maschio italiano dai primi 2000 a oggi: dall’Ultimo bacio e Santa Maradona passando per Saturno contro, e fino a Fortunata, La dea fortuna e, adesso, Un amore, approdo forse finale. «Sicuramente una linea c’è, poi a un certo punto, per fortuna, mi è capitato di interpretare anche ruoli diversi, che non solo raramente ti offrono ma che raramente trovi scritti così bene, come Veloce come il vento, Marilyn ha gli occhi neri… però questa linea di personaggi che hanno a che fare coi sentimenti, con l’amore o con il disamore, è vero che c’è. Io credo che l’amore, e la passione, e il desiderio siano responsabili di molti movimenti di quello che ci succede nella vita, ma anche un po’ nelle cose del mondo in generale, e avevo molta voglia di tornare a raccontare i sentimenti. Però non mi piacciono, non mi sono mai piaciuti, i personaggi senza macchia e senza paura, mi piacciono proprio i personaggi con le paure e le macchie, quelli che mostrano le fragilità, le imperfezioni. Perché è nelle esitazioni, nei piccoli passi falsi, nelle accelerazioni e negli errori che uno si riconosce. Siamo esseri complessi, e ci piaceva mettere in scena proprio questo. È da tutto questo che nasce la relatività della parola amore».
Accanto agli uomini da sempre (?) fragili di Accorsi ci sono le donne di Ramazzotti, come accennava lei prima. Fino a questa nuova sé. «Anna è un personaggio molto diverso dagli altri che ho fatto, io in genere m’immergo nel mondo romanesco subalterno, in quelle vite di donne vessate che cercano il loro posto di felicità nel mondo. Invece Anna il suo posto nel mondo ce l’ha, ha una casa, un lavoro, un marito, un figlio, e ha pure l’amante. Ha una vita più semplice di quella delle donne che spesso ho interpretato, sembra avere già tutto ma, in quel vecchio amore che ritrova, non ha mai messo il corpo, e allora ho dovuto mettercelo io, là dove non c’era mai stato sesso, contatto, dentro quell’amore fatto solo di parole, parole, parole… (canta la canzone di Mina, nda)».
La rappresentazione
I maschi con molte macchie e molte paure sono anche quelli che la rappresentazione (parola orribile, lo so) di oggi impone. È una cosa di cui bisogna tenere conto, quando si decide di realizzare una serie con un titolo così ingombrante ed eventualmente scivoloso come Un amore? «Non ci siamo posti più di tanto questa domanda perché la storia che volevamo raccontare era questa, ed è esattamente bilanciata, 50 lui e 50 lei», osserva Accorsi. «Ma oggi, se uno affronta certe tematiche, sicuramente è importante chiedersi quanto è cambiato il ruolo maschile, ed è un punto molto interessante. L’uomo deve reagire alle nuove affermazioni – giustissime – che fa la donna, ed è una narrazione che ho ancora visto poco, e che mi piacerebbe affrontare. In Barbie a un certo punto Ken non sa come reinventarsi, e tu stesso pensi: “E mo’ lui che fa?”. Te lo chiedi proprio, perché è uno scenario totalmente nuovo. E questa è ancora una pagina, se non bianca, quasi, che non mi dispiacerebbe provare a scrivere».
«In amore mettiamo in campo tutte le nevrosi, le paure, oddio che succede, non ho più il controllo… è una matematica poetica»
Micaela Ramazzotti
«Questo ribaltamento lo vediamo fin dall’inizio», sostiene Ramazzotti. «Qui è la donna al centro di tutto, è lei che sta tra due persone che la amano, è lei che desidera entrambi, è lei che deve decidere. E questo è un grande cambiamento. Alla fine, divisa tra un amore lungo vent’anni ma mai realmente vissuto e quello che ha voluto ma che al tempo stesso le ha impedito di compiere una vera crescita personale, Anna guarda sé stessa e sceglie. La libertà è una cosa che devi andarti a cercare, che ti devi costruire: questo è il messaggio. E, senza fare spoiler, sono felice di quello che lei decide di fare alla fine. Sono proprio felice per lei».
La creazione
“Da un’idea di Stefano Accorsi”, dicevo. «Spero tu l’abbia registrata alla SIAE», gli faccio io; lui ride: «Adesso però è “da un’altra idea di Stefano Accorsi”». Il creatore di Un amore è lui con Enrico Audenino, ed entrambi hanno scritto le sceneggiature insieme a Giordana Mari, Teresa Gelli e al regista Francesco Lagi. In tutto questo ideare, gli manca la regia.«Sì, ed è ovvio che ci penso. Però queste idee sono state tutte per delle serie (l’altra era per il ciclo 1992-1993-1994, nda) che mi vedevano anche davanti alla macchina da presa. Non ce la farei a mettermi contemporaneamente davanti e dietro, in una serie soprattutto. Lo sguardo del regista, se è il regista, porta tantissimo a quello che succede davanti alla macchina da presa, ed è indispensabile che ci sia questa divisione di ruoli. Mi piacerebbe girare un film, quello sì, se ti piace raccontare storie diventa un passaggio abbastanza inevitabile voler sperimentare anche quello. E forse un film sarebbe per me una materia più gestibile. Ci sto pensando, mi sto confrontando con alcune storie per capire quale sarà quella giusta. A un certo punto la storia la troverò, arriverà da sola, mi sono detto. E però poi mi sono accorto che, come in questo caso, le storie se non le cerchi non le trovi».
Micaela la sua storia l’ha trovata, si chiama Felicità ed è il suo esordio alla regia, Leone nella sezione Orizzonti Extra all’ultima Mostra di Venezia, ed esperienza che, da creatura, l’ha portata ad essere creatrice. Mi chiedo – le chiedo – se da lì è cambiato qualcosa. «Felicità ha cambiato totalmente lo sguardo che avevo verso il lavoro dell’attore. Mi ha fatto capire quanto l’attore è al servizio del film, del regista, della troupe. Quanto si affida, quanto è vulnerabile. Mettendomi dall’altra parte, mi sono resa conto di quanto un film senza attori così generosi, così al servizio del progetto, non possa nemmeno esistere. E mi è venuta una dolcezza infinita verso gli attori, una dolcezza infinita perché il nostro è un mestiere che mette a nudo tante cose: c’è il personaggio, sì, ma c’è sempre il tuo corpo, la tua voce, le tue lacrime. L’attore è un essere che si fida totalmente, ed è interessante vedere questa fiducia dall’altro punto di vista, quello del regista. Io in Felicità ho avuto attori che si sono totalmente fidati di me, che mi hanno dato un grande abbraccio, mi hanno regalato personaggi meravigliosi, e mi ha fatto piacere renderli contenti. L’approccio autoriale oggi mi fa vedere in modo diverso anche le mie scelte d’attrice: ora ci sono progetti in cui non vedo l’ora di buttarmi a capofitto, come accadeva anni fa, e altri in cui riesco a ridimensionare la mia emotività. Forse lavorare come regista mi ha fatto trovare un equilibrio come attrice, che è anche un modo per salvarsi da quella che è la nevrosi dell’attore, un mestiere che può portarti a impazzire, e infatti un po’ pazzi lo siamo. Ho imparato a dare i miei sentimenti ma anche a liberarmene. Ad essere meno artista e più presente alla mia vita di tutti i giorni. Ora è come se aprissi la porta che svela quello che ho dentro, ma solo in quel momento. Poi la richiudo, per non sprigionare troppo, come invece succedeva prima. Per proteggermi un po’ di più, forse».
L’amore, alla fine
Abbiamo capito cos’è Un amore, ma mi tocca chiudere chiedendo a loro se hanno invece capito cos’è l’amore, stavolta con l’articolo determinativo. «È un domandone…». Micaela fa una pausa. «L’amore sono mille amori. C’è l’amore dell’innamoramento, fatto di delirio totale, follia, perdizione, è una grande incognita, non sai come va a finire. E poi l’amore da grandi, che si trasforma. L’amore per me è bello quando è disinteressato, quando da una parte e dell’altra le cose sono pari e c’è solo il desiderio di costruire. L’amore che porta a farti scudo con l’altro. L’amore puro, se questo aggettivo significa ancora qualcosa. Ecco, quello è l’amore».
«Io non lo so che cos’è l’amore», ora è Stefano a parlare. «È qualcosa che nella mia vita ha un peso molto importante, che ha mosso davvero dei macro movimenti, a partire dalla passione per il mio lavoro. “Io voglio fare questo, voglio recitare”, dicevo, ma perché boh, non lo sapevo, però sentivo fortissima questa cosa. L’amore è quella cosa che, quando la vivi, riesci veramente a percepire tutto quello che ti circonda in modo molto più potente, ma soprattutto più empatico. È un moltiplicare di percezioni, un acceleratore di particelle, un motore che ti anima, che ti attiva quelle cose che credevi accese e invece erano spente. È una cosa che ha a che fare con il sogno nella vita. Le persone innamorate, quando le senti parlare, vivono tra l’onirico e il realistico, mi fanno pensare a certe cose di Fellini. Era come se Fellini vivesse in un lungo stato di innamoramento in cui sognava e allo stesso tempo viveva cose immaginifiche che avevano a che fare con la sua quotidianità, e che quindi quella quotidianità la coloravano in modo diverso. È come se il mondo diventasse tutto un po’ più chiaro, ti fa capire quello che vuoi fare veramente, quello che stai cercando, se c’è qualcosa che stai cercando. L’amore sono le cose della vita, avevi ragione tu». E l’amore è anche un po’ Fellini, ha ragione pure lui.
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Credits cover
Foto: Leandro Manuel Emede
Styling: Nicolo Cerioni
Assistente fotografo: Riccardo Andreaus
Digital: Andrea Mariniello
Assistente styling: Noemi Manago, Ilaria Taccini, Paolo Sbaraglia
Sarta: Viola Sangiorgio
Make up & Hair stylist Accorsi: Chiara Filini
Make up Ramazzotti: Francesca Lodoli
Hair stylist Ramazzotti: Maria Sansone
Assistente hair stylist Ramazzotti: Amelia Estriche
Scenografia: Labatà
Abiti: Dolce & Gabbana