‘L’albero’: intervista a Sara Petraglia, Tecla Insolia e Carlotta Gamba | Rolling Stone Italia
Big Girls (don’t) cry

‘L’albero’ e la giovinezza che se ne va

Abbiamo incontrato Sara Petraglia, Tecla Insolia e Carlotta Gamba per parlare dell’esordio alla regia della prima, starring le due giovani e formidabili attrici. Tra nostalgia, amore, dipendenze, e un finale forse ancora da scrivere

‘L’albero’ e la giovinezza che se ne va

Carlotta Gamba e Tecla Insolia nel film ‘L’albero’ di Sara Petraglia

Foto: Sara Petraglia

A un certo punto c’è stata una casa da trovare e una location in cui girare. Così Sara Petraglia è tornata a cercare l’appartamento in cui aveva abitato per vent’anni, nel quartiere Pigneto di Roma, per vedere se era ancora lì e se affacciava sempre su quell’albero. Ad aprirle la porta due giovani studentesse: «Sembravano i nostri doppelgänger, l’antitesi di come eravamo state noi in quella casa. Però l’albero non c’era più. È stata una brutta giornata».

Nell’appartamento di Bianca e Angelica c’è un poster sul frigo, si legge di sfuggita e non è lì per caso: “Il tempo è prezioso, non sprecarlo”. Impossibile. Loro infatti lo bruciano tra noia e ossessioni, dentro un’amicizia che le spezza come un amore incompiuto, con una dipendenza dalla cocaina che le unisce al punto da doversi separare per sopravvivere. Prima di vederlo, l’albero del titolo potrebbe far pensare all’espediente fichetto di un film indie ambientato al Pigneto, insomma l’altra faccia del cinema romano di periferia. Ma si capisce subito che non è un pretesto e neanche una madeleine di Proust. L’albero è il simbolo consapevole di qualcosa che non puoi dimenticare, e tutti ne abbiamo uno. Il mio è una pesca in riva al mare a luglio, con lo zucchero della polpa che s’incolla alla salsedine sulle dita. Non la mangerò mai più. Sara Petraglia ha smesso di passare davanti all’albero del film: «Non lo guardo più», dice.

Un tempo felice e disperato

In occasione della nostra chiacchierata il trio si riunisce nello studio di Petraglia, ovviamente al Pigneto, all’insegna di un’allegra nostalgia: «Questo film mi ha fatto staccare un po’ dalla mia vita, e non succede sempre quando uno gira qualcosa», rompe il ghiaccio Carlotta Gamba (nel film Angelica). «So che è stato così anche per Sara e Tecla, quindi la nostalgia è per tutto quello che abbiamo vissuto insieme, e poi c’è la nostalgia di Sara rispetto ad un altro momento ancora. Quindi è nostalgia che chiama nostalgia canaglia». «Io ce l’ho sempre un motivo per essere nostalgica di qualcosa», fa eco Sara, «ma adesso che sta uscendo il film è veramente quasi finita» (opera prima di Petraglia, L’albero arriva in sala dal 20 marzo, distribuito da Fandango e prodotto da Angelo Barbagallo per BiBi Film).

Tecla Insolia e Carlotta Gamba in una scena del film. Foto: Sara Petraglia

Strano a dirsi, ma il trio ride parecchio, a volte per cose tutte loro e incomprensibili agli altri, mentre insieme rivendicano la quota leggerezza del film (non mi convinceranno mai, preparate i fazzoletti). «Credo sia un film anche molto gioioso», ecco Tecla Insolia, che parla un po’ come il suo personaggio Bianca, «perché nelle cose tremende che succedono c’è la gioia di vivere, il desiderio di tendere verso un determinato modo di essere. Quando ci siamo incontrate è stato magico, capisci subito quando ti riconosci in qualcuno. Questa storia mi ha ossessionato subito e mi sono sentita pronta ad accogliere sia Sara che Carlotta nella mia vita». «Quando ci siamo viste per la prima volta a casa mia è stato un disastro, in panico», racconta Petraglia, «abbiamo fatto la tinta ai capelli, ci siamo spaccate dalle risate per tre giorni di fila mentre c’era da parlare di cocaina, di come ci si sente quando si usano certe sostanze, delle scene emotivamente impegnative come la litigata in autogrill».

È complesso spiegare al cast e alla troupe un racconto che nasce dal tentativo autobiografico di «riportare indietro quello che se ne stava andando o che già se n’era andato». Fare un film per bloccare un pezzetto di tempo felice e disperato, quindi, nella storia di due ventenni che condividono un appartamento, una dipendenza e un lutto. «Sono stata molto onesta con loro due e con tutte le persone che hanno lavorato al film», dice Petraglia, «perché una volta che conosci me capisci anche quell’urgenza lì. Ho raccontato una storia che mi ossessionava, e l’unico modo di metterla in scena con sincerità era trasmettere a loro le mie nostalgie. La sensazione di non essere mai uscita davvero da quelle immagini che avevo in testa».

Mettendo da parte l’ovvio, e cioè che un attore non deve mai giudicare il suo personaggio, dall’altra parte bisognava voler bene a due personaggi estremamente vivi e squarciati, quasi radiosi nel prendersi gioco della vita e della morte, sempre sull’orlo dell’autolesionismo. Per Tecla Insolia è stato immediato: «Qualcosa di questa storia ha risuonato in me, nel mio immaginario dei rapporti e delle relazioni. E poi ero molto curiosa di fare cose che nella mia vita non avevo mai fatto, che non avrei mai fatto». Per Carlotta Gamba è stato diverso, perché tra le due è la sua Angelica «quella più dura, quella che se ne va, quella che abbandona. Quindi amarla sì, molto, però è stato difficile trovare quella misura di goffaggine in una ragazza allo stesso tempo così radicata alla realtà».

“A me non interessa la realtà”, dice la Bianca di Tecla con orgoglio. “A me piace essere triste”. E poi se lo domanda, guardandosi dall’esterno nel suo gruppo di amici: “Ma perché siamo tutti così tristi?”. E vestiti di nero, anche. Di nero brillano in giro per Napoli, Bianca e Angelica, staccate dal mondo circostante, stagliate contro l’azzurro del mare mentre soffrono l’astinenza, oppure fuori da un locale all’alba, quando la vita riprende a scorrere e loro sono in cerca della prossima botta. Nere e malinconiche, tristi e compiaciute di quella tristezza, Petraglia le ha volute così: «Ho frequentato molti gruppetti un po’ esistenzialisti, durante l’adolescenza e all’università, eravamo tutti vestiti di nero. Ma io ho smesso, da un paio d’anni ho scelto il rosa pastello». Certo, perché nel frattempo ha cambiato il finale.

La regista Sara Petraglia. Foto: Margherita Panizon

Il tramonto della luna

È vero che il personaggio di Angelica – con il distacco e l’innocenza che Carlotta Gamba le restituisce – si fa detestare perché ci porta a comprendere chi abbandona e non solo chi subisce l’abbandono. Ma se Sara Petraglia l’avesse girato cinque anni fa, forse L’albero avrebbe avuto un finale diverso: «Le cose che si sono sedimentate hanno cambiato umore e tono nella mia memoria. Ho sempre visto Angelica come una persona che ne abbandona un’altra, anche perché il dolore di Bianca nel trovare quella casa vuota è bello presente… Però il suo andar via è anche una salvezza, perché è lì che Bianca decide di andare al SerT. Forse Angelica sa che in due, così unite, non se ne esce. Anche amandosi sarebbero sprofondate ancora di più, perché non può funzionare se non si guarisce da una dipendenza difficile. Nella prima versione della sceneggiatura immaginavo un film più cupo, come se Bianca e Angelica fossero i fantasmi di loro stesse. Come a dire che in fondo la vita era quella e basta. Poi ho cambiato idea. C’era già il Verano, il cimitero era la parte più brutta di questa storia. E io invece ho sentito che c’era una vita dopo, un po’ di speranza che non avrei mai detto».

L’albero ci racconta quello che tutti sappiamo ma che non vogliamo ricordarci, nello sbattimento quotidiano della vita adulta: che la dimensione spensierata della giovinezza si consuma velocemente, e che spesso è proprio con un lutto che un’epoca finisce. Penso al bellissimo esordio di Riccardo Meozzi, che nel suo romanzo Addio, bella crudeltà capisce che “tutto sarà così finché tutto non finirà” e cita Giorgio Bassani nel Giardino dei Finzi Contini, quando dice che se vuoi veramente capire come stanno le cose, devi morire almeno una volta. Nel suo film Sara Petraglia ce lo sbatte in faccia attraverso Il tramonto della luna, con Bianca/Tecla Insolia che spiega la poesia di Leopardi alla sua Angelica: per lui la luna che tramonta è come la giovinezza che se ne va, “solo che mentre il giorno dopo la luna sorge di nuovo, la giovinezza non torna. E la vita rimane monca, a volte in un’oscurità che termina solo con la morte”. Ma come si muore per imparare a guardare al futuro?

Carlotta Gamba e Tecla Insolia. Foto: Sara Petraglia

Bianca ha tre libri da scrivere, e vuole scriverli tutti insieme: “Uno sulla cocaina, uno sull’amicizia e il terzo sull’amore”. Non ne scriverà nemmeno uno, o forse sì ma non lo sapremo mai. Scopriremo invece che la vera dipendenza è quella verso l’instabilità, la vertigine di poter vivere o morire in base al caso, spingendosi sempre un po’ oltre. Resta il fatto che la narrazione della dipendenza era centrale, sì, ma era anche un rischio. Per molti spettatori un elemento claustrofobico e repellente, per molti registi l’irresistibile tentazione di spettacolarizzarla. Petraglia, Insolia e Gamba riescono a raccontarla con eleganza, senza macchiettismo, sottraendo anziché sfoggiare, da una prospettiva intima, quotidiana e perfino femminile, sì. È qui che emerge davvero L’albero: due attrici, quattro mura, la messa in scena della paranoia. O scatta la magia o crolla tutto, o così o niente. E invece funziona, perfino nelle scene più angoscianti ambientate a Napoli, in una coreografia di silenzi, sguardi e complicità frutto di un’incredibile chimica tra Insolia e Gamba.

«Non volevamo la striscia sempre in primo piano», spiega Carlotta. «Il discorso che ci ha fatto Sara è stato subito chiaro: non c’era nessuna intenzione di mettere al centro la sostanza o enfatizzarne gli effetti, quindi ci chiedeva sempre di fare meno. Poi certo, c’è stato anche un feticismo mio e di Tecla nel voler sapere come fare, come usarla, come tenerla in mano. Ma per noi era soprattutto il collante tra queste due anime, quello che le tiene unite e che tiene Bianca unita alla sua idea di vita da fermare e da trattenere nel tempo. Inoltre ho trovato molto interessante mettere una sostanza del genere in mano a due ragazze che vengono da famiglie benestanti, è raro vederlo ed è molto coraggioso». E poi il rischio di far diventare la cocaina un terzo personaggio, appunto, e l’istinto di forzare la mano che Petraglia ha schivato: «Dettagli su dettagli, stare sempre lì a inquadrarla, farla scendere dal cielo… Capisco che possa sfuggire di mano, anch’io ho avuto la tentazione di farlo. Ma avrebbe tolto forza a tutto il resto, e Angelo Barbagallo mi ha ricordato che a noi non serviva un documentario sulla cocaina, che era già stato fatto. Anche perché qui parliamo di due personaggi che usano cocaina da anni: noi vediamo il passaggio da un abuso a una dipendenza, ovvero il momento in cui si sprofonda, ma chi è abituato ad usare quella sostanza non ha più gli occhi di fuori».

L’età dell’albero

Il prossimo film di Sara Petraglia, un giorno, sarà la storia di due persone che si incontrano, si innamorano e poi finisce tutto. Una storia d’amore e basta, dice, magari fra due adolescenti e purché finisca. «Ma deve finire per forza?», le chiedo. «Sì», risponde. «Ho le mie fisse e me le voglio tenere». Giusto, anche se adesso si veste di rosa pastello.

Non c’è niente da fare, ognuno di noi ha un albero e un albero non è una madeleine. Sara Petraglia di alberi in testa ne ha tanti, almeno tre. Quello di Carlotta Gamba è una casa che la riporta alla sua infanzia, mentre Tecla Insolia passa davanti all’albero del film tutti i giorni con la sua bici. Tre donne con tre storie diverse si sono ritrovate nella dimensione che questo film racconta, in un modo di pesare e rincorrere il tempo che non è generazionale, ma è il cuore dell’infanzia, dell’adolescenza e poi dei vent’anni. L’ultimo batticuore prima dell’età adulta. «Avevo 19 anni quando giravamo», racconta Tecla, «e ho compreso profondamente il senso di appartenenza che si ha di sé stessi a quell’età, quella ricerca della sofferenza che sto esplorando io adesso. E proprio grazie al film, ora sto capendo che c’è altro oltre al lavoro e alle proprie passioni. Anche per questo sono un po’ rinata. Quella tristezza appartiene all’età dei due personaggi, e io mi chiedo se un giorno cambierà. Probabilmente è così, però devo vivere, aspettare e vedere che succede».

"L'Albero" di Sara Petraglia - Trailer Ufficiale

Sara sorride e capisce, resta in silenzio e lascia che sia Carlotta a continuare: «Pensavo, mentre parlava Tecla, che io sono un po’ più grande di lei e mi sento già in un momento di vita diverso. Ricordo quanto mi divertivo quando avevo l’età di Bianca e Angelica, però sento che questo divertimento sta cambiando, che diventa un’altra cosa. Mentre vivevo quel periodo della vita non pensavo che a un certo punto finisse. La mia nostalgia sta tanto nell’infanzia, perché forse è il momento meno divertente della mia vita e quindi, paradossalmente, mi sono legata alla me bambina. È come se volessi tornare indietro e farmi divertire di più. Ma non so se ha senso». Ce l’ha eccome. Anzi, forse il senso dell’Albero è quasi tutto qui.