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L’alfabeto sentimentale di Fabio De Luigi

O meglio dire analfabetismo, visto che ‘Ridatemi mia moglie’, la sua nuova serie Sky, racconta di una crisi di coppia tipica del nostro tempo. Offrendogli una possibilità inedita di gettare (ancora una volta) la maschera

Foto: Loris Zambelli

Ridategli pure sua moglie o, se preferite, non fategliela vedere mai più. Basta che a noi lasciate, ora e per sempre, Fabio De Luigi. Più o meno potrebbe essere questa la recensione della nuova miniserie Ridatemi mia moglie, il primo titolo original (si dice così) del canale Sky Serie, prodotto per l’occasione da Colorado film. La storia parte dalla sitcom inglese I Want My Wife Back, per poi trasformarla in due puntatone da un’ora e rotti ciascuna (in onda rispettivamente il 13 e il 20 settembre) che discettano sul tema più antico del mondo: la crisi di coppia. Il famoso “lei molla lui che però vuole riconquistarla”, ma raccontato con ironia e leggerezza. Esatto: più o meno come quattromilaottocento serie tv da ieri a questa parte. Peccato che le quattromilaottocento serie tv di cui sopra non abbiano una cosa che Ridatemi mia moglie invece vanta: Fabio De Luigi. E diamine se fa la differenza. Tanto per incominciare, De Luigi vale da solo il prezzo del biglietto: ti fa ridere, ha i tempi comici perfetti, crea empatia e infonde credibilità a una sceneggiatura che, di per sé, rischierebbe di essere a tratti esile.

Di fatto lui “è” la storia: spalleggiato da un cast di prim’ordine, che va da Anita Caprioli a Diego Abatantuono (con menzione speciale per il bravo Alessandro Betti), Fabione ti prende per mano dalla prima inquadratura e non ti molla più. Più che sapere come andrà a finire, aspetto che sembra non importare nemmeno agli autori visto il finale, non vuoi smettere di ridere con lui. Che poi è la rodata “formula De Luigi”, la maschera perfetta che ha ormai affinato di commedia in commedia. Il pubblico la adora e la guarderebbe in loop, all’infinto. Al cinema come in tv.

E qui arriviamo al secondo punto fondamentale. Ridatemi mia moglie è anche la prima serie di Fabio De Luigi. L’unico precedente è infatti Love Bugs di Italia 1, ma stiamo parlando di una sitcom, ergo di un altro territorio, e risale al 2004: quasi vent’anni fa, che per i tempi televisivi equivale più o meno all’Ottocento del piccolo schermo. E sapete cosa vuol dire? Che Fabio De Luigi, alias la maschera perfetta sbanca box-office, sta tentando nuove strade. Invece di sedersi sugli allori e campare di rendita da qui all’eternità (fidatevi, potrebbe farlo), il nostro ha deciso di gettare la maschera e sperimentare. Ha preso il suo talento ed è uscito dalla propria comfort zone. Prima tappa: il mondo seriale, ma sul suo cammino ha incrociato pure Carlo Cracco e la Befana, come ci spiega lui stesso.

Cosa ti ha convinto a tentare il doppio salto mortale nella serialità, a parte ovviamente i soldi offerti da Sky?
No, no, i soldi non c’entrano, giuro! (ride) Tra l’altro perché quelli te li danno sempre, anche quando il progetto è brutto! In questi anni mi sono arrivate diverse proposte televisive, ma nessuna mi convinceva fino in fondo. Con Sky invece era da un po’ di tempo che ci dicevamo che avremmo voluto fare qualcosa insieme, e quando abbiamo visto I Want My Wife Back l’intento è diventato realtà. L’aspetto più affascinante di questa serie è che si parte dalla fine, ossia dalla rottura, per poi andare a ritroso e capire le ragioni della separazione. Tutto ruota dunque attorno alla reazione anziché al motivo, che in realtà non è chiaro a nessuno dei due protagonisti.

Secondo te oggi sempre più persone si ritrovano disinnamorate o in crisi senza sapere bene perché?
In realtà credo che siamo sempre stati un po’ degli analfabeti sentimentali. Giovanni, il mio personaggio, è un uomo candido, ma proprio questo rappresenta parte del problema: come spiega lui stesso in una scena, si è seduto sul suo rapporto coniugale finendo per schiacciarlo.

E io che mi aspettavo una bella tirata contro il mondo virtuale che ci ha disabituati ad amare.
Non mi fare così anziano, ti prego! Comunque sia, anche se sono arrivato solo a un certo punto nella Storia dell’umanità, sono convinto che sia uno di quei temi universali. Quasi sempre nelle relazioni si creano crisi, incomprensioni, rotture che si tenta poi di ricucire, ammesso che si capisca quale sia stata la causa scatenante. Ridatemi mia moglie è una storia che richiede verità, per questo ho messo in scena sì una maschera, ma senza fare troppe concessioni alla slapstick o ai vezzi. La recitazione deve infatti sempre essere in linea con il tono della storia.

A proposito di variazioni, nel film La Befana vien di notte – Le origini ti calerai nei panni di un cattivo. Ci stai prendendo gusto, dopo il ruolo dark degli Uomini d’oro?
Si tratta di un film per ragazzi, quindi il mio personaggio sarà cattivo ma con delle fragilità e una sua umanità. Rispetto a Gli uomini d’oro è dunque meno duro. Però si tratta comunque di un ruolo diverso dal solito che, per certi versi, mi riporta ai tempi di Mai dire gol, perché sarò camuffato, con tanto di abito settecentesco e maschera. È stato anche questo a intrigarmi: esco dal “mio”, per sperimentare nuove strade.

Quanto ti ha aiutato aver partecipato a Dinner Club che è condotto dal cattivo per eccellenza, Carlo Cracco?
In realtà Cracco non è poi così cattivo come si racconta! (ride) In Dinner Club getterò, diciamo così, la maschera, perché non interpreterò alcun personaggio. Sarò solo Fabio, insieme ad altri colleghi simpaticissimi. Devo dire che è stato un esperimento molto interessante, un programma ibrido che mi ha divertito moltissimo (sarà disponibile dal 24 settembre su Amazon Prime Video, nda).

Fabio De Luigi con Anita Caprioli sul set. Foto: Loris Zambelli

Esigiamo uno spoiler sul Fabio De Luigi versione “reality”.
Mi sembra giusto, ma non posso dire nulla! (ride) Sappi solo che sarà più cattivo io di Cracco.

Non ti credo, ma andiamo avanti: altra metamorfosi in vista, ovvero la regia. È vero che torni a cimentarti dietro la macchina da presa?
Confermo. Sto girando il mio secondo film, sperando di aver tratto i giusti insegnamenti dal primo, Tiramisù, che non era andato benissimo. Ho deciso di riprovarci perché mi piace l’idea del doppio ruolo attore/regista, e credo che nella vita sia giusto misurarsi con nuove prove. È importante mettersi in discussione. La regia è un territorio che conosco meno: l’ho imparato sul campo, rubando con gli occhi e osservando chi mi dirigeva.

Come stiamo ad ansia da prestazione?
Per ora bene: prevale il piacere di sperimentare e poi ho scoperto delle ottime goccine che fanno volere bene a tutti, in primis a te stesso! (ride) La verità è che con il tempo ho imparato a non trasformare i film in cui recito nel giudizio finale sulla mia carriera. Una pellicola è infatti frutto di un lavoro corale e anche di tanti compromessi e punti di vista: se la torta esce bene, siamo tutti contenti; quando non è così, spiace ma non può diventare l’oggetto del proprio malessere. Nel frattempo, vuoi il nome delle goccine?

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