Di passaggio a Roma per presentare l’edizione italiana della sua autobiografia, Gilliamesque (pubblicata questo mese dalla neonata Big Sur), Terry Gilliam è un fiume in piena di ricordi, pensieri e progetti: uno sguardo vigile sulla realtà che non si fa troppe illusioni, una fede incrollabile nel proprio lavoro e il desiderio di affrontare sempre nuove sfide. Un creatore a 360° che ne ha viste e fatte di ogni tipo, e non ha mai guardato indietro, contro tutto e tutti. Terry Gilliam si rivela ancora una volta non solo un artista entusiasmante ma, soprattutto, un essere umano di rara generosità.
Il libro racconta il viaggio di un creatore, un artista, un cineasta attraverso tre mondi: gli Usa, l’Inghilterra e l’Europa. Un artista rinascimentale giramondo. Come dire: ho visto tutto, ho fatto tutto e ne sono uscito fuori vivo in tempo per raccontarvi come è stata!
(Ride fragorosamente) A little bit of la mia vita (in italiano)… Più che altro mi sto guardando alle spalle, a quello che è stato. Io sono nato nel 1940 (il 22 novembre, per la precisione). Ho vissuto in una casa del 1694 in Inghilterra. Adesso vivo in Umbria, in un “rovinatt’ castello” (in italiano) le cui mura risalgono al XII secolo. In realtà, vivo nella casa che apparteneva al prete del paese, ma le pietre facevano parte del castello!
Uno degli aspetti più interessanti del libro è che evidenzia come tu ti sia trovato sempre a lavorare in momenti cruciali della storia. Quando stavi negli Usa si stava affermando il movimento per i diritti civili…
Ero preoccupato per quanto accadeva in America, era qualcosa che non condividevo, e faceva un certo effetto trovarsi in Spagna ed essere criticato in quanto americano! Sono cose che ti fanno incazzare: mica è colpa mia! Mi sono reso conto che il resto del mondo ha un’opinione molto diversa degli Stati Uniti rispetto agli americani.
Per esempio, per noi europei è davvero impossibile capire cosa c’è di sbagliato in una riforma che tenta di aiutare chi non si può permettere un’assicurazione sanitaria.
L’America è basata sull’individualismo. Si dice che se uno lavora duro può diventare anche presidente. Di conseguenza, se uno è un morto di fame, significa che non ha lavorato abbastanza. Se poi vuole anche le medicine gratis, allora deve essere un comunista! Persino il mio avvocato, che è una bravissima persona, la pensa così. Ogni volta che vado a trovarlo, mi dice: “Sostieni ancora Obama? Quello è un comunista! Sta distruggendo l’America!”.
Un altro dei problemi americani, che hai affrontato a più riprese nei tuoi film, è quello della diffusione di massa delle armi.
Un’altra follia assurda e incomprensibile. In America non si tratta più del diritto di avere una pistola o un fucile da caccia, ma di possedere un AK-47! Buona parte degli americani non si fida dello Stato. Temono che lo Stato si prenda la loro libertà. E quindi accumulano armi per prepararsi allo scontro. In Texas c’è stato un politico che ha dichiarato pubblicamente che non avrebbe permesso a Obama di prendere il potere anche in Texas. Ma lui è già il presidente di tutti gli Stati Uniti! Ti rendi conto? La cosa dolorosa è che la gente che ha votato per Bush Jr. è quella che ha sofferto di più sotto il suo regime.
Come regista sei sempre stato un alieno. Ogni tuo film è diverso dal precedente. Come ci sei riuscito?
Semplice. Io non ho una carriera (ride di gusto). Ogni film che faccio è l’unico film che farò in tutta la mia vita. Tutto qui.
Quindi tu ti presenti sul set pensando: “Questo è l’ultimo film che farò…”?
Il primo e l’ultimo. Sul set ti trovi con un gruppo di persone, tutte speciali, e quello che devi fare è tentare di essere onesto e realizzare il miglior film possibile. Alcuni film mi riescono, altri meno. Ma sono stato davvero fortunato. Il successo dei Monty Python ci ha permesso di fare Brian di Nazareth e io ero l’unico regista. Come dire che ho iniziato dalla vetta e ho continuato a lavorare verso il basso. Con I banditi del tempo ho avuto persino il mio mecenate. Il mio Lorenzo de’ Medici: George Harrison. Il film ebbe un enorme successo negli Usa e grazie a questo sono arrivati Brazil e Le avventure del barone di Münchhausen, che invece non ottennero alcun successo in America. Poi faccio La leggenda del re pescatore che è un successone. Il mio solo potere sta nell’avere successo. Purtroppo con i miei ultimi film non ci sono riuscito. Adesso sto tentando di fare un film per 8 milioni e mezzo di dollari e mi sembra di essere tornato all’inizio, quando muovevo i primi passi.
Quando ho visto I pirati dei Caraibi ho pensato: questo è un film di Terry Gilliam. Ti sei mai chiesto perché non te l’abbiano fatto dirigere, considerato anche la tua complicità con Johnny Depp?
Perché sono un alieno. Adoro lavorare con Johnny e probabilmente mi sarebbe piaciuto farlo, quel film. Se lo guardi con attenzione ti rendi conto che hanno visto per bene …Münchhausen. Avrei dovuto farlo io quel film. Ed è questa l’ironia. Dovrei stare sul set a fare film della Marvel. Adoro i fumetti. Ma Hollywood non si fida di me. Li spavento. Non serve a niente che la gente dica: “Terry rispetta il budget e non spreca tempo”. Preferiscono incasellarmi nella categoria degli anarchici fuori controllo, cosa che io non sono affatto. Sono diventato la vittima di me stesso (ride). La leggenda di Terry Gilliam è più interessante della realtà.
Dovrei fare i film della Marvel. Ma Hollywood non si fida di me
Anni fa girava la voce che stavi per fare Watchmen. Per quanto tempo hai lavorato a quel progetto?
Per un anno, credo. Ho lavorato con Joel Silver. Parliamo di un film da 40 milioni di dollari. Era subito dopo …Münchhausen. Joel era reduce da Hudson Hawk-Il mago del furto, un flop terrificante. E anche Münchhausen è stato un flop negli Usa. Due flop, e abbiamo pure la faccia tosta di chiedere 40 milioni di dollari. La sceneggiatura non mi è mai piaciuta. Abbiamo dovuto condensare il libro e non ne ero affatto convinto. Continuavo a dire che sarebbe stato molto meglio farne una miniserie per la tv. All’epoca, però, non si facevano miniserie.
Hai incontrato Alan Moore?
Gli dissi: “Adoro il tuo libro. Penso che sia fantastico”. E lui mi rispose: “Sono contento che lo faccia tu il film. Preferisco che sia tu a rovinare il libro, piuttosto che io!” (ride divertito). Ecco, ho speso più tempo a non realizzare progetti che a realizzarli!
Alcune delle cose che mi dici mi ricordano alcune considerazioni di Orson Welles…
Si diventa così. Ora la gente mi invita ovunque. Mi offrono premi. Billy Wilder diceva: “L’unica cosa garantita per i cineasti anziani sono i premi e le emorroidi!” (scoppia a ridere senza ritegno). La gente vorrebbe che io diventassi come Orson Welles.
Devi resistere a questa tentazione…
Lo so. Non aspettano altro per dire: “Guardalo, è diventato come Orson Welles. Sta ancora tentando di fare Don Chisciotte!”.
A che punto stai con il tuo Don Chisciotte?
L’ultimo produttore ha mollato un mese prima dell’inizio delle riprese. Se tutto va bene, dovremmo iniziare a girare il prossimo gennaio. Ti confesso, però, che sto raggiungendo il punto di saturazione. Parliamo di un progetto che mi divora da 25 anni. È stupido perdere tempo così. Mia moglie mi ha detto di mollare: fai qualunque cosa, ma non questo film. Io continuo a riscriverlo e mi sembra sempre nuovo. Da un lato, vorrei dimostrare a quelli che pensano che io non farò mai il film che sono perfettamente in grado di creare la mia realtà. Un’altra parte di me, però, dice: “Fanculo! Al diavolo tutto!”. Mi piace fare il contrario di quello che la gente si aspetta. Per questo motivo ho diretto due opere liriche di Berlioz, il Benvenuto Cellini e La dannazione di Faust, perché si tratta di lavori messi in scena di rado e quindi ho goduto di grande libertà creativa. Non capisco niente di lirica, ma mi sono detto: “Facciamo questo spettacolo!”.
L’opera è stato un genere popolare…
Esattamente. Ora è roba da museo. Il direttore musicale contestava il mio approccio. Ripeteva: io sono qui per curare un’opera. E io rispondevo: e io sono qui per creare un’opera.
Nel corso della tua carriera, hai lavorato con i più grandi divi e nei tuoi film non sembrano mai delle star.
Bruce, Brad, Johnny… li ho avuti tutti. Bruce l’ho incontrato mentre facevo Il re pescatore. Un giorno è venuto sul set e devo dire che, in qualche modo, mi è piaciuto. Lui però è Bruce Willis superstar. Quando iniziai a pensare a lui per L’esercito delle 12 scimmie pranzammo insieme a New York e gli dissi: “L’unica condizione possibile per me per lavorare con te è che tu venga da solo. Non voglio nessuno del tuo entourage. Non voglio Bruce Willis superstar. Voglio Bruce Willis l’attore”. E lui ha accettato. La sua idea di venire da solo, però, era un po’ diversa dalla mia. Si è presentato con il suo cuoco personale. Con un enorme roulotte dotata di una palestra stratosferica. A modo suo, però, era venuto da solo. Ai minimi termini. E ha funzionato. Il problema è che, all’epoca, stava lavorando anche a uno dei Die Hard. Si assenta qualche giorno per delle riprese. Bruce è una brava persona, ma il mostro è sempre in agguato per saltare fuori alla prima occasione. Quando torna, mi trovo all’improvviso Bruce Willis superstar tra i piedi. “Tutto questo è ridicolo”, dissi. “Portate via dal set questo tizio!”. C’è voluta una settimana per riavere sul set l’altro Bruce Willis!
Si parla molto del fatto che le serie tv sono meglio del cinema. Ha mai pensato di farne una?
La stiamo facendo in questo momento con Richard LaGravenese che ha scritto Il re pescatore. Subito dopo quel film, abbiamo scritto una sceneggiatura intitolata The Defective Detective. La Paramount non ci ha fatto niente per vent’anni. Ora siamo riusciti a riscattarla. Era pensata come un film di due ore e mezzo. Siamo al lavoro per una miniserie di otto ore.