Il suo primo, bellissimo corto d’animazione è nato osservando una donna che lavorava nei bagni pubblici di Villa Celimontana a Roma, e lei in fila si è chiesta: quante monetine servono per mandare un figlio a studiare all’estero? Il secondo è stato una dolorosa epifania mentre mangiava i vecchi confetti del suo matrimonio: certi oggetti sopravvivono all’amore che un tempo hanno rappresentato. Anche Fiore gemello, il film con cui si è presentata al TIFF nel 2018, in fondo è una storia d’amore e speranza tra due giovani esseri umani in fuga. Poi la follia di realizzare la sua versione della Bella estate dell’intoccabile Pavese, a cui solo Antonioni aveva osato avvicinarsi prima di lei. Il cinema di Laura Luchetti è entrato presto nel circuito degli «indipendenti hardcore», ma lei è una che ha bisogno di divertirsi, giocare alla casa delle bambole e scoprire tutto. Anche la televisione, con la serie teen Nudes sul revenge porn, e ora Netflix con l’enorme macchina italo-inglese del Gattopardo, capitanata da Tom Shankland, Indiana Production e Moonage Pictures, che hanno affidato la regia di due episodi a Luchetti e Giuseppe Capotondi.
Di nuovo a confronto con i giganti, dunque. Stavolta Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Luchino Visconti, ma anche Lancaster, Delon e Cardinale. Il Gattopardo di Luchetti arriva nel quinto episodio ed è quello dei sentimenti brucianti. I personaggi femminili esplodono, la serie percorre sentieri appena accennati nel romanzo, il paradosso del gattopardismo si fa ancora più moderno. Luchetti ritrova Deva Cassel – che con lei ha debuttato nel 2023, nel ruolo dell’ipnotica Amelia pavesiana –, dirige Saul Nanni che l’aveva colpita in Supersex, rimane folgorata da Benedetta Porcaroli e soprattutto lavora con Kim Rossi Stuart, il poster che aveva in camera da ragazza e che qui ci fa dimenticare persino l’Innominato.
Così Luchetti torna a citare Pavese – l’adolescenza è l’età che conosciamo meglio, perché è quella che più a lungo ha vissuto dentro di noi – mentre parliamo del suo modo di scavare i sentimenti, analizzare il non detto, le piccole emozioni, i dettagli, l’occhio che si chiude, la testa che si inclina. La sua è una vivissima malinconia per un tempo della vita, l’unico, in cui tutto è ancora possibile. La giovinezza. «Come non raccontare il momento in cui sei su un precipizio a cinquecento metri d’altezza e sai che, se volessi, ti potresti buttare?». È quello che le piace di più e che le riesce meglio, con il talento di ferire lo spettatore senza mai dichiararlo. Il suo animatore lo chiama “il fattore presa a male-Luchetti”. Touchée.

Laura Luchetti con Deva Cassel sul set del ‘Gattopardo’. Foto: Lucia Iuorio/Netflix
Lo dico? Il quinto è stato il mio preferito. L’episodio dei sentimenti.
Non è che io l’abbia scelto, me l’hanno dato, ma l’ho trovato anch’io molto affascinante. È un episodio sulle relazioni tra i personaggi, che fino a quel momento si sono basate sulle convenzioni e sull’affetto accettato per quello che è, fino a scoprire altre verità, come nel rapporto tra Angelica (Deva Cassel) e Tancredi (Saul Nanni) ma soprattutto tra padre e figlia. Poi rappresentava un’esperienza geografica differente, con la luce e la palette del mondo torinese, e raccontava molto bene il mondo femminile. Mi è piaciuto tantissimo il personaggio di Concetta (Benedetta Porcaroli), una donna nei canoni di quell’epoca ma con un desiderio molto moderno. Qui è evidente l’esplosione della serie rispetto al libro.
Nel quinto episodio di questo coralissimo Gattopardo ti ho riconosciuta.
Che cosa bella mi hai detto. A me piace lavorare sui dettagli e sui sentimenti, e stavolta l’ho fatto cercando un dialogo nuovo con degli attori così bravi, che avevano già lavorato per mesi con altri registi bravissimi. Per loro è difficile passare dalle mani di un regista all’altro, riuscire a scavare e trovare delle piccole perle in un grande tesoro già elargito per la serie.
Come funziona davvero? Come si porta la propria firma all’interno di un progetto del genere?
Intanto ho sposato felicemente la linea stabilita dal regista guida, perché adoro Tom Shankland. Ci è stata data una meravigliosa libertà di agire all’interno di un setup precostituito, era necessario non stonare all’interno di questa grande macchina, ma senza sacrificare la libertà di gestire certe emozioni, la messa in scena, le location: a Torino sono tornata anche nelle location della Bella estate. Poi c’era il rapporto con l’attore, che è sempre l’aspetto che mi interessa di più, anche nell’animazione. Perché io ho diretto anche i pupazzetti…
I pupazzetti di Sugarlove e Bagni?
Certo, i pupazzetti vanno diretti. Tu chiedi all’animatore: più triste, meno triste, più corrucciato, la testina più giù, il braccino più su… Sai che la sua voce è la mia? Me l’hanno fatta fare i fonici. Questo per dire che la direzione degli attori o è la tua o non è la tua, e forse è quello che porta gli altri a dire: ti riconosco. Ognuno di noi ha la stessa storia in mano ma vede gli attori in maniera differente e cerca delle emozioni differenti.
A questo punto della tua carriera, com’è stato farsi provinare da un altro regista?
Divertente. Io vengo dal cinema indipendente hardcore, quello che chiamiamo “cinema da festival”, quindi entrare in questa grande macchina a me sconosciuta mi ha fatto mettere in gioco. Ho rispettato le regole, perché è inutile voler imporre le regole di un ambiente ad un altro. Ed è stato bello apprendere cose nuove e lavorare su un linguaggio diverso dal mio. Non penso mai “sto facendo la Tv, l’animazione o un film low budget”, faccio quello che so fare e spero sempre che vada bene. Quando ho girato Nudes mica l’avevo mai fatta la Tv, ed erano tre microfilm con tre cast diversi. L’ho fatto con lo stesso amore che ho messo in Fiore gemello.
Cos’è che ti diverte tanto?
Be’, è il lavoro più bello del mondo. Per quanto possa essere complicato, sia economicamente che a livello di energie, con il cinema giochi alla casa delle bambole per tutta la vita.

Laura Luchetti. Foto: Erica Fava; Glam: Costanza Stefania; Gioielli: Iosselliani
Nel caso di Pavese avevi colto la scintilla della modernità nelle ultime quattro pagine della Bella estate.
Perché in mezzo a tutti quei non detti pavesiani, tutte le volte che menzionava queste ragazze le pagine prendevano fuoco. Quella modernità del finale, in una novella così semplice in cui dopotutto vince l’amore, mi aveva colpito tanto da farmi pensare: questa è la direzione da prendere.
Nel tuo episodio del Gattopardo, invece, dove hai sentito accendersi la modernità?
Nel grande monologo di Don Fabrizio (Kim Rossi Stuart), quando si rende conto che il mondo gli è sfuggito dalle mani e racconta il potere familiare, politico e pubblico in maniera eccellente. E poi tutta la meravigliosa linea di Concetta, questo suo aver sofferto senza mai essersi lamentata fino alla fine, quando decide finalmente di chiedere un pezzo di vita tutto per sé. Mi è piaciuto tutto di questo episodio, anche la malinconia di Angelica. Lei, come Concetta, ha fatto tutto per il padre, utilizzando l’unica cosa in suo possesso: la bellezza. E forse, chissà se dentro di sé avrebbe voluto essere Concetta?
Come hai ritrovato Deva Cassel?
Ancora più brava e matura, sempre con questa sua magnifica luce che la contraddistingue. È stato emozionante ritrovare un’attrice giovanissima che ho fatto debuttare, e proprio nella città dove abbiamo girato insieme La bella estate. Io seguo sempre i debutti dei miei ragazzi, quando fanno grandi cose è una soddisfazione per me, non li dimentico e continuo ad osservarli con un occhio – vogliamo dirlo? e diciamolo – materno.
Nella Bella estate Deva era “la ragazza che si metteva nuda per lavorare”, mentre nel tuo episodio del Gattopardo scopriamo che è una donna dell’Ottocento che rivendica di poter tradire un marito che a sua volta la tradisce.
Perché lei ha il piglio per interpretare queste grandi eroine, dirompenti e insieme molto malinconiche. Nella Bella estate anche Amelia finge di avere una vita che non ha, di essere felice quando non lo è, e rappresenta una bellezza decaduta e mangiata dai vizi cittadini. Deve avere sempre il sorriso perché posa per i pittori, ma nessuno sa il dolore che c’è dietro.
Chi altro non vedevi l’ora di dirigere?
Ah be’, questo cast è benedetto! Astrid Meloni è un’attrice eccezionale, sono stata felicissima di poter lavorare con lei e me la sono portata stretta stretta verso Nudes 2. Poi Francesco Colella che avevo visto a teatro e di cui sono una grandissima fan, Benedetta Porcaroli che mi ha davvero sorpreso per il suo talento eccezionale e Saul Nanni che ho amato moltissimo in Supersex, dove penso sia uno degli elementi che vengono fuori di più, con rispetto per tutti. Poi vogliamo aprire il capitolo Kim?
Ti aspettavo.
In conferenza stampa tutti hanno riso perché ho ammesso che anch’io avevo un poster di Kim Rossi Stuart in camera.
Eri una bimba di Kim.
Quando sei fan di un attore così giovane che poi fa una grande carriera, anche se cresci e diventi vecchia dentro di te rimarrà sempre quella parte di fan. Quindi il primo approccio è stato proprio: se me l’avessero detto venticinque anni fa, non ci avrei creduto. Non è solo bravissimo, è anche un regista con una visione d’insieme che aiuta molto sul set… Magari girare sempre con lui.
In gioventù sei stata Angelica, Concetta o Tancredi?
Tutti, e tutti insieme. Il mio è stato un disastro anarchico.
Ma chi avresti voluto essere?
Sicuramente Concetta. Questa Concetta della nostra serie, perché è la cenere sotto il fuoco. Quando pensi di averla catalogata ti sorprende, perché lei è tutto un non detto e anch’io sono così. Tancredi e Angelica li vedi subito per come sono, ma nel caso di Concetta ci vuole tempo affinché quella forza venga fuori, per questo mi piace.

Yile Yara Vianello e Deva Cassel in ‘La bella estate’ di Laura Luchetti. Foto: Matteo Vieille/Lucky Red
L’adattamento dei grandi classici potrebbe sembrare un tuo chiodo fisso…
Sai che in realtà è stata una casualità? La bella estate è nato dal mio produttore: “Ti piacerebbe?”, mi aveva chiesto. “No, perché quello è un mostro sacro e l’unico altro film l’ha fatto Antonioni”. Ma poi io dico sempre che quando sei follemente innamorato, sei destinato a fare follie. Essendo io innamorata di Pavese, la mia follia è stata adattare la sua novella.
Se non fosse stato Pavese, cosa avresti girato?
Un film che ho scritto su due adolescenti, si chiama Una centrifuga. Spero proprio di farlo, è molto piccolino. Magari dovrò anche imparare a lavorare con gli adulti, che dici?
Non so, ti riesce troppo bene raccontare la giovinezza. Da cosa credi che dipenda? Memoria storica, emotiva, nostalgia?
Si chiama adolescenza negata (ride). Mi sono ritrovata in una bellissima frase di Cesare Pavese: “L’adolescenza è l’età che conosciamo meglio, perché è quella che più a lungo ha vissuto dentro di noi”. Eccomi, io ne ho un ricordo vividissimo. Quello è davvero il momento più bello della vita, in cui tutto è possibile perché davanti a te hai un alleato infallibile: il tempo. Come non raccontare quell’energia, quella visione del mondo in CinemaScope che piano piano si andrà a stringere? Come non raccontare il momento in cui sei su un precipizio a cinquecento metri d’altezza e sai che, se volessi, ti potresti buttare?
Per questo la tua regia si mette all’altezza dei suoi personaggi?
Lo facevo anche con mia figlia. Quando tornava da scuola piccolina pensavo sempre: se apre la porta e trova ’sto gigante che la abbraccia? Allora mi inginocchiavo io e mi facevo abbracciare. Adesso ha vent’anni, studia a Stoccolma, ha visto Il Gattopardo tutto in una sera. È diventata il mio spionaggio industriale, mentre giravo Nudes la mia grande consulente era mia figlia.
C’è il suo zampino anche nel tuo rapporto con l’animazione?
In realtà la mia animazione ha una storia particolare. Ero in fila in un bagno pubblico, in questo bel parco di Roma che si chiama Villa Celimontana. La signora che lavorava nei bagni raccontava che era riuscita a comprare un computer per il figlio e a mandarlo in Inghilterra a studiare, e io guardavo quel piattino davanti a lei e pensavo: ma quante monetine avrà dovuto tirare su per mandare il figlio all’estero? Mi è subito venuta in mente la storia di una donna che lavorava nei bagni pubblici e ogni volta che le mettevano una monetina sul piatto, quel suono le faceva partire un sogno. Realizzarlo come fiction mi sembrava troppo smielato, così ho pensato all’animazione e ho trovato i miei animatori Moonchausen, Lulu Cancrini e Marco Varriale. Dopodiché, siccome Bagni andò molto bene – prima la nomination ai Nastri e poi lo abbiamo venduto alla Universal – abbiamo voluto farne un altro per capire se eravamo stati fortunati o se ci prendevamo davvero.
Ed ecco il Nastro d’argento Sugarlove. Che storia c’è dietro?
Devi sapere che io sono pazza dei dolci. Nel 2016 succede che mentre sto mettendo a posto la mia casa, trovo i sacchetti delle bomboniere del mio matrimonio iniziato nel 2000 e finito nel 2010. Penso: li devo assaggiare, ma se li assaggio muoio. Invece li assaggio: buonissimi, meravigliosi. Lì mi viene una grande malinconia, perché questo oggetto che doveva rappresentare l’amore è durato più dell’amore vero. Così decido che voglio fare un corto su degli oggetti che si amano più dell’amore che rappresentano.
Questa fa male, devo dirtelo.
Me lo dice sempre anche il mio animatore, Marco, quando gli porto nuove storie: “Bella! Pure questa c’ha il fattore presa a male-Luchetti”.

Kim Rossi Stuart (Don Fabrizio di Salina) e Benedetta Porcaroli (Concetta) nel quinto episodio del ‘Gattopardo’. Foto: Lucia Iuorio/Netflix
Prima hai detto “non so in cosa mi si riconosce”. Forse in questo, nella capacità di ferire lo spettatore senza dichiararlo.
Che cosa terribile, questa è la malinconia. Ed è vero, nell’animazione ho portato storie estremamente personali. Ora sto scrivendo un lungometraggio d’animazione, semmai qualcuno vorrà produrlo. Per fare quei corti ci abbiamo messo un anno, mentre finivo Sugarlove giravo tutto Fiore gemello.
Nel tuo lavoro torna spesso il tema della verginità perduta, e torna anche in questo tuo episodio del Gattopardo. Ma dopotutto, come si difende l’innocenza se bisogna perderla per crescere?
Io penso che tutto ciò che è perduto non si possa più difendere, perché sarebbe un ossimoro. Ma bisogna metterlo nel giusto compartimento della memoria e trasformarlo in un’esperienza che ti aiuta. Bisogna imparare a dare importanza a quella cosa in quanto perduta, non cercare di ritrovarla.