David Foster Wallace affermava che “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”, una frase che ricorre spesso tra le righe e le immagini del viaggio cinematografico, ai confini fra vita e morte, compiuto da Laurie Anderson nel suo Heart of a Dog. A un anno di distanza dalla presentazione alla Mostra di Venezia, il film esce nelle sale italiane, grazie a Nexo Digital, il 13 e 14 settembre, un regalo inaspettato visto il costante pregiudizio della distribuzione italiana nei confronti di opere che, orgogliosamente, rinunciano alle convenzioni narrative. Heart of a Dog infatti è, solo in apparenza, un’opera concettuale, un film-saggio biografico e personale, un racconto di “storie” che esplora temi universali come la morte, l’amore e il linguaggio. I molteplici microcosmi della performer americana fluiscono in un fiume di ricordi, con la voce della stessa Anderson che, come un’abile tessitrice, traccia sullo schermo coordinate di memoria legate alla sua infanzia, alla morte dell’amatissima madre, alla New York pre e post 11 settembre. Centro pulsante del racconto è il cuore di Lolabelle, piccola rat terrier dalle spiccate doti musicali, che ha smesso di battere poco dopo la chiamata al cielo di Lou Reed. Nei suoi sogni, una Laurie Anderson, tracciata a matita nera, immagina di averla fatta nascere da sé stessa e, nelle immagini, Lolabelle e la regista passeggiano tra le montagne della California mentre la regista cerca di insegnarle l’uso della parola.
Un progetto, solo in apparenza caotico e auto-referenziale, che la Anderson stessa ci ha raccontato lo scorso anno davanti all’orizzonte adriatico del Lido di Venezia “Il canale televisivo francese Arte stava realizzando una serie di film su alcuni artisti” comincia Laurie “e il focus del progetto era come lavora un’artista e la propria filosofia di vita. Quando mi hanno invitata a partecipare, ho pensato che fosse un’idea terribilmente complicata ma per fortuna, il produttore, che da un po’ cercava di convincermi, mi ha incoraggiata a sviluppare qualcosa sul mio rapporto con Lolabelle e ho subito pensato che avrei potuto realizzare una serie di storie “per cani”. Così ho riunito piccole narrazioni scritte in precedenza con la consapevolezza però che non potevo “collezionare” e basta ma che serviva un link, un filo che le legasse tra di loro”. Il legame, esplicitato anche nel film, è il Bardo Todol, conosciuto in Occidente con il titolo di Libro tibetano dei morti, un testo che descrive le esperienze che l’anima cosciente vive dopo la morte. Il “Bardo” infatti è una transizione (questo è il significato della parola tibetana) dall’evento della nascita, al momento in cui ci si reincarna e, nel Libro tibetano dei morti, viene spiegato dettagliatamente cosa accade dal momento della morte alla successiva rinascita, una vera e propria “guida” insomma per questo passaggio. “Quel libro per me è stato un vero e proprio modello. Spero, nel mio film, di essermi almeno avvicinata all’energia che rilascia quel testo, una lettura che consiglio a tutti, un’esperienza dei sensi. Il mio film cerca di catturare la potenza di quelle parole ma è anche un film sulla fragilità delle parole e del linguaggio”. Language is a virus, cantava Laurie tanti anni fa in Home of the Brave, il documentario del 1986 che raccontava una delle sue strabilianti performance, trent’anni esatti tra i due film, perché? “Il cinema condensa tantissime cose che amo fare e così un giorno ho pensato “Laurie, perché non hai mai più fatto un altro film?” All’epoca non capivo che si può girare un film anche sui lacci delle scarpe perché Home of the Brave è stato realizzato con centinaia di persone e con uno sforzo tecnico incredibile se ci ripenso oggi”.
Heart of a Dog invece sceglie il minimalismo di filmati in 8mm, immagini GoPro, frasi, grafiche e disegni che compongono il mosaico visivo ma è inevitabile domandare a Laurie della presenza-assenza costante, e sempre in filigrana, dell’anima di Lou Reed “Lou e io abbiamo scattato centinaia di foto a Lolabelle nel corso degli anni, semplicemente perché era una splendida creatura. Entrambi siamo fotografi e lei era un soggetto fantastico ma a quel tempo non pensavo a un film. L’intera sequenza dell’ospedale, dove si intravede Lou nei panni di un medico, è stata realizzata per un altro progetto, girata un paio di anni prima e, devo proprio dirlo, non ci eravamo mai divertiti tanto visto che l’ospedale ci aveva offerto un’intera ala e tutti i camici e gli accessori di un vero medico”. Della scomparsa del marito infatti non si parla mai, ma è la sua voce, che intona (non a caso) Turning Time Around, a chiudere, solo momentaneamente, l’ultimo capitolo artistico di questa donna straordinaria.