Il 23 Aprile è uscito il secondo prodotto firmato e diretto da Niccolò Ammaniti per Sky Italia, Anna, tratto dal suo romanzo omonimo del 2015. Così come nel Miracolo, a comporre l’immaginario sonoro della serie è stato coinvolto il music supervisor Roberto Corsi, che sta diventando la perfetta sintesi sonora della regia e del mondo descritto dall’autore.
Nel Miracolo la musica era distopica, quasi divina, in Anna si ripercorre un immaginario dedicato alla sopravvivenza e ai ricordi che sembrano ormai svanire. In questa intervista abbiamo discusso con Roberto Corsi di quale è stato il metodo elaborato per entrambi i lavori di Niccolò Ammaniti e di come si sta evolvendo anche in Italia il ruolo del music supervisor.
Come nasce la musica per un prodotto di Niccolò Ammaniti, considerando la sua scrittura e il suo background artistico, e come avviene il processo di selezione?
Ammaniti è un grandissimo appassionato di musica e ha grande conoscenza di molteplici generi musicali, il che gli permette di avere le idee sempre molto chiare riguardo lo stile che dovrà avere una sua colonna sonora. Il lavoro di selezione musicale parte dalla creazione di playlist molto ampie, che corrispondono alle immaginazioni e visioni che Niccolò vuole mostrare e rappresentare, e partendo da questo incipit avviene la supervisione musicale. Nonostante non sia un musicista, ci tiene ad indirizzare la composizione per piegarla alla sua visione d’insieme. Per quanto riguarda la creazione della colonna sonora vera e propria, ovvero la composizione di musica originale, iniziamo a fare una shortlist di potenziali compositori che si possano sposare con il progetto. Dopo una prima fase di interviste, Niccolò ed io cerchiamo di capire quale sarà la reciprocità da trovare nel fine musicale e la loro disponibilità nel calarsi nel progetto totalmente. Per Anna, ad esempio, la scelta musicale è ricaduta su Rauelsson, compositore cresciuto nella bottega di Nils Frahm, uno dei più importanti musicisti della corrente elettronica neoclassica. Fatte queste premesse, va infine eseguito un lavoro per eventuali musiche diegetiche, cioè quelle che verranno utilizzate direttamente in scena, per cui bisogna avere le autorizzazioni ancor prima di girare. Vedi in Anna la sequenza che si svolge nella villa, che vuole essere la rappresentazione di un rave contemporaneo in cui Angelica introduce la Picciridduna: non abbiamo voluto utilizzare un brano che si rifacesse all’immaginario rave, ma abbiamo optato per un classico della “disco cosmica”, Sirius dei The Alan Parsons Project, che successivamente ho scoperto essere il tema che i Chicago Bulls utilizzano per accompagnare i giocatori in campo.
Quindi come fosse la presentazione della guest star di questo mondo distopico…
Esatto. Via via che Niccolò gira, ci confrontiamo su quali possano essere nuove canzoni da inserire in base anche alle sensazioni date dal momento. Ammaniti ha un suo registro musicale molto definito, che si sente perfettamente sia nella colonna sonora del Miracolo che in Anna. Gli piace mescolare la musica classica/barocca a quella pop, che solitamente viene utilizzata per andare a contrasto con la scene a cui stiamo assistendo. Sempre in Anna, nella scena in cui lei è appesa ad una catena, per comunicare a Pietro che è prigioniera in questo supermercato degli orrori riesce a prendere una radio e da questa parte Minuetto di Mia Martini. Un’immagine di per sé dissacrante, ma anche liberatoria.
Nel Miracolo la musica era straniante, quasi divina, in Anna si ripercorre un immaginario dedicato alla sopravvivenza e ai ricordi che sembrano ormai svanire. Come si estrapolano queste due sensazioni in un processo di supervisione musicale?
Attraverso delle linee narrative legate a un immaginario fatto a monte, che si basa sulla mente creativa di Niccolò Ammaniti. Per entrambi i progetti sono partito principalmente da questi input, mi confronto con una persona che ha le idee chiarissime e con un immaginario ben definito. Per Anna lo è stato ancor di più, avendo a disposizione già una processo narrativo ben avviato. Il tema del ricordo è ciclico nei personaggi che popolano il mondo di Anna, e la musica rimane l’unico elemento per ricordare un mondo che non esiste più. Anna ricorda la madre attraverso Big in Japan degli Alphaville e Core ‘ngrato, i gemelli Mario e Paolo ricordano il padre con La voglia, la pazzia di Ornella Vanoni.
Hai studiato una colonna sonora che potesse rappresentare tutti i personaggi in scena? Ti sei ispirato ad altri prodotti in cui viene rappresentato un futuro distopico?
Non c’è stato un’ispirazione legata ad altri progetti dal tema distopico. Sia Niccolò che io siamo grandi fruitori di prodotti musicali, in particolar modo delle colonne sonore, ma cerchiamo sempre di differenziare le scelte per creare un prodotto originale. Il motivo per cui abbiamo scelto della musica che provenisse dagli anni ’80 è legato al fatto che i genitori dei bambini, ormai diventati gli adulti di questo mondo, potrebbero avere quel tipo di memoria musicale, quel tipo di ascolto. Negli anni ’80 Big in Japan, ad esempio, era una grande hit. Sui flashback legati alle memorie del mondo prima che finisse, abbiamo cercato di replicare quello che era l’immaginario sonoro degli adulti attraverso i figli, quindi non una colonna sonora che rappresenti i bambini, ma più il mondo come era prima. Un bambino fino ad una certa età subisce l’influenza della musica che può ascoltare la propria famiglia, e loro stanno vivendo proprio quella fase, quindi i ricordi sono ancorati alla visione dei genitori.
Sia nel tema iniziale del Miracolo che in quello di Anna, la musica rispecchia il tema fondante su cui si basa il prodotto. Il mondo di Jimmy Fontana descriveva la ciclicità della vita, Settembre di Cristina Donà una cartolina sbiadita. Quanto è importante secondo te rappresentare già nei titoli di testa la percezione dell’immaginario sonoro a cui si assiste durante la serie?
La scelta di utilizzare una canzone nella sigla iniziale è un input che nasce principalmente da una suggestione di Ammaniti. La tendenza generale di oggi è di non inserire proprio una sigla: questo perché i grandi player come Netflix e Amazon Prime Video permettono allo spettatore di skipparla, e di base la richiesta delle produzioni è proprio di non inserirla. Come hai evidenziato tu, Niccolò, attraverso il tema musicale della sigla, vuole anticipare la narrazione con qualcosa che ha a che fare con la storia, che possa riportare delle sensazioni primordiali che la serie vuole raccontare. Il fatto di caratterizzare un prodotto realizzato in Italia con della musica che proviene dal nostro panorama, ma con un respiro internazionale, è anche motivo di orgoglio per far conoscere i nostri artisti ed esportare determinate eccellenze come possono essere Jimmy Fontana e Cristina Donà. A parer mio, un prodotto attuale non può prescindere da un tema musicale iniziale. Penso ad esempio a Narcos: tutti ricordano la serie anche grazie a Tuyo di Rodrigo Amarante, che questa ha permesso di far conoscere il prodotto ancor prima di vederlo. Questo innesca anche un gioco nel provare a riconoscere delle canzoni non sempre famosissime e creare curiosità ed attenzione musicale nello spettatore.
Secondo te una colonna sonora potrebbe vivere autonomamente rispetto al film scaturendo nello spettatore le stesse sensazioni ed emozioni?
Una bella colonna sonora potrebbe vivere a sé, sì. Ad esempio con Anna, diversamente dal Miracolo, abbiamo realizzato un vero e proprio album, che al momento è disponibile in digitale e successivamente uscirà in vinile tramite la mia etichetta Goodfellas. È una grande vittoria per noi proprio perché in Italia, purtroppo, si è persa la concezione di creare quelle colonne sonore fantastiche che da sempre hanno fatto parte del nostro cinema. Se pensi agli anni ’60 e ’70, l’Italia ha fatto la storia di questo genere musicale partendo da Ennio Morricone fino ad artisti meno conosciuti a livello internazionale. C’erano un registro, una metodologia compositiva e una capacità di scrittura che immediatamente ti proiettavano nell’immaginario sonoro e visivo del film.
Oggi i compositori vengono coinvolti più come dei sound designer.
Un tempo i grandi produttori riuscivano ad ottimizzare i costi per la composizione di una colonna sonora dai rientri che avevano dalla stessa. I dischi venivano pubblicati, i passaggi in Rai ed eventuali proventi dall’estero fornivano dei rientri a livello editoriale, per cui il produttore era stimolato ad investire nella costruzione di una bella colonna sonora.
Nell’ultimo anno hai lavorato a molti prodotti di punta del panorama audiovisivo italiano: penso a SanPa, Mi chiamo Francesco Totti e L’incredibile storia dell’Isola delle Rose. Come si è sviluppata la tua professione nel corso degli anni, cos’è per te la supervisione musicale?
Ho iniziato quasi per caso anni fa collaborando con il primo music supervisor in Italia, Giovanni Guardi, che lavorava come interno per Fandango. Da casa di produzione lungimirante, fu una delle prime ad investire sulla creazione di una figura professionale dedicata a seguire tutto l’aspetto musicale legato alla produzione di un film. Nel corso degli anni ho iniziato ad imporre questa figura che prima nel cinema italiano non c’era. Quando un regista voleva un dato brano, era un membro della produzione ad occuparsi degli aspetti legali, oppure era il montatore che, “appoggiando” una canzone in una data sequenza, faceva innamorare il regista di quella scelta, che non sempre poi poteva essere finalizzata per motivi di budget o autorizzazioni. Il music supervisor è una figura che opera a metà tra la parte creativa e quella produttiva, quindi lavori a servizio sia del regista che della produzione e devi mediare tra queste due realtà, entrambe fondamentali. Questo lavoro presuppone una vasta conoscenza musicale e la capacità di sapersi districare tra la contrattistica e la conoscenza dei diritti di sincronizzazione. Devi riuscire a coniugare la parte creativa a quella finanziaria. Ad esempio, per L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, prodotto da Groenlandia e diretto Sydney Sibilia, sono stato contattato per la mia conoscenza della musica degli anni ’60. Inizialmente la mia idea era quella di utilizzare solo cover di grandi classici americani e inglesi riprodotti da artisti italiani. Alla fine ne abbiamo utilizzati solo due e tre, spingendo soprattutto sul creare un repertorio originale che si differenziasse dall’immaginario italiano Sixties, inserendo anche brani di Nico Fidenco, grandissimo autore di colonne sonore, ad esempio, ed evitando scelte scontate.
Secondo te la supervisione musicale sostituirà il ruolo del compositore per come l’abbiamo sempre visto?
Io mi auguro di no, e lo dico contro i miei interessi: credo che il compositore sia una parte fondamentale nel raccontare un film. Il supervisore musicale è una figura che ha preso piede negli anni ’90, fino a quel momento lì esclusivamente il compositore lavorava all’immagine sonora di un film. Grazie al cinema di Tarantino questa cosa è stata sovvertita con l’utilizzo diretto di musica originale, e ciò ha stravolto il settore grazie anche all’avvento della serialità televisiva. Alla fine credo che il compositore e il supervisore musicale siano entrambi fondamentali per la costruzione di una buona colonna sonora attuale.
Sempre più prodotti audiovisivi stanno puntando sull’interattività tra immagini e suono. In Sound of Metal, che ha appena vinto l’oscar per il miglior sonoro, viene replicato fedelmente il processo di perdita dell’udito coinvolgendo lo spettatore in prima persona; l’esperimento di Bandersnatch del 2018 permetteva di poter generare la colonna sonora in base alle scelte narrative. Pensi che stiamo andando sempre più incontro a una soundtrack interattiva/generativa?
Credo che sicuramente sia una strada che verrà percorsa nel futuro, che poi sia quella definitiva non saprei dirtelo, ma sicuramente si stanno iniziando a fare i primi esperimenti per valorizzare l’aspetto percettivo. Già negli anni ’70 fu avviato un esperimento denominato “Sensurround”, un sistema audio che provocava la percezione fisica/reale rispetto a quello a cui stavi assistendo, operazione che vidi di persona nel film Terremoto di Mark Robson nel 1974. Credo che si stiano andando verso la prosecuzione di quel percorso, sia attraverso la musica che attraverso il sound design, come avviene perfettamente in Sound of Metal, in cui è stato fatto uno studio a stretto contatto con le persone che hanno subìto la perdita dell’udito e con esperti del settore.
Quali sono i tuoi prossimi progetti, a cosa stai lavorando?
Al momento sto lavorando a una nuova serie prodotta da Wildside per Amazon Prime Video, Bang Bang Baby, che racconta di una famiglia calabrese a Milano negli anni ’80. E stiamo lavorando molto sull’immaginario pop, non solo musicale, per far calare lo spettatore nel mood e in quel sound tipico degli anni ’80. Così come nel nuovo film di Emanuele Crialese, L’immensità, ambientato nel 1971, dove la parte musicale avrà una grande importanza, vista l’interazione tra immagini televisive e musica.
Pensi che finalmente anche in Italia si possa iniziare a parlare seriamente di supervisione musicale e della figura del music supervisor?
In Italia ci sono sempre più figure che si occupano della supervisione musicale, come Lina Cardillo e Giorgia Benedetti. Stiamo cercando di affermare questa figura soprattutto agli occhi delle produzioni per far capire l’importanza che questo ruolo ha nel nuovo immaginario sonoro. Sinceramente credo che anche in Italia si svilupperà, proprio perché in tutto il mondo le produzioni stanno investendo in questa nuova figura, che sta prendendo sempre più piede e spazio nelle produzioni cinematografiche.