L’importanza di chiamarsi Gia Coppola | Rolling Stone Italia
Interviste

L’importanza di chiamarsi Gia Coppola

Nipote di nonno Francis Ford e di zia Sofia, la più piccola della dynasty è tornata a Venezia con la sua opera seconda, un 'Quinto potere' ai tempi di YouTube con le musiche di Blood Orange. L'abbiamo incontrata

L’importanza di chiamarsi Gia Coppola

Gia Coppola sul red carpet di Venezia 77

Foto: Alessandra Benedetti - Corbis/Corbis via Getty Images

«Nonno dice: “Devi imparare ad amare l’ansia, perché fa parte del pacchetto”». Per Gia Coppola grandpa si chiama Francis Ford, in altre parole la Storia del cinema. «Un altro dei suoi consigli preferiti è: “Perfect is the enemy of good”», racconta sorridendo dietro la mascherina nera, che ogni tanto le scende e che lei diligentemente tira su. 33 anni, stilosissima, Gia è figlia di Gian Carlo (morto in un incidente nautico prima della sua nascita), nipote di Roman e Sofia Coppola, sangue hollywoodiano che più blu non si può.«Ho un sacco di vantaggi e tante persone di esperienza alle quali rivolgermi». Basta con il ritornello della raccomandata, probabilmente pensa. Ma alle domande elegantemente non fa un plissé. «Alcune porte sono aperte, molte altre invece chiuse. Credo che la gente a volte pensi che non me lo merito, ma io voglio soltanto avere la possibilità di creare». Anche perché la pressione è alta: «Sei intimidito dal talento che ti circonda. E io sono soltanto agli inizi, è un altro livello. Ma non puoi lasciare che questo ti blocchi, devi mettere a tacere i pensieri negativi e raccontare qualcosa che per te abbia un significato».


Dopo il debutto con Palo Alto, coming of age tratto dai racconti di James Franco, proprio qui a Venezia nel 2013, la più piccola della dynasty delle meraviglie cinematografiche è tornata con Mainstream nella sezione Orizzonti. «Ci sono voluti sette anni, a un certo punto sembrava fosse precipitato tutto, ma sono gli alti e bassi che ogni filmmaker vive». Il risultato è una sorta di Quinto potere ai tempi di YouTube, ispirato a Una faccia nella folla di Elia Kazan certo, ma con vibe di La La Land, Joker, eppure personalissimo: «In ogni film, persino in quelli più commerciali, c’è qualcosa che ti resta, anche se ovviamente i classici – Fellini, Visconti – sono il meglio. In Mainstream ci sono tante influenze… quando ho visto Birdman ricordo di aver pensato: “Cavolo, non credo che arriverò mai a quel livello. È impressionante”».

Andrew Garfield in ‘Mainstream’


La Città degli Angeli di Gia non più romanticamente in technicolor come quella di Damien Chazelle, ma tutta filtri Snapchat e grafiche rétro in 8 bit. Siamo su Hollywood Boulevard, a due passi da dove Coppola è cresciuta: «Gli abitanti di LA non bazzicano da quelle parti, c’è gente che pensa di andare lì per diventare una stella, ma ci sono soltanto personaggi eccentrici con costumi strambi, bizzarre attrazioni per turisti». Proprio come un Andrew Garfield larger-than-life che sbarca il lunario vestito da scarafaggio gigante, finché la cameriera con il pallino dei video interpretata da Maya Hawke (figlia di Ethan e Uma Thurman) non ne intuisce il potenziale “social”. E contribuisce a farne una star (o un mostro?) da milioni di follower, una macchina da money money money, un messia degli eccessi, vittima a sua volta di quello che succede all’ego quando viene gonfiato a dismisura. O forse no. «Ho sempre desiderato lavorare con Andrew, ha un talento assurdo, ho imparato tantissimo. Volevo lui e soltanto lui per quel ruolo, è molto dolce ed è stato divertente vederlo interpretare un bad boy, maniacale e folle».


Niente tip tap sul tramonto losangelino, ma uno show che si chiama Il tuo telefono o la tua dignità, con Garfield, alias la YouTube sensation No-One Special, a fare i deliranti onori di casa. Poi la situazione precipita e – avanti veloce – Maya vomita like e cuoricini. «Visto il tema, il tono doveva essere enfatico e chiassoso, tutte le mie decisioni hanno seguito questa logica. Volevo raccontare questa storia in un contesto un po’ favolistico, dove avevo la libertà di amplificare la realtà». E poi ci sono ancora una volta le musiche electropop di Blood Orange, già compositore della soundtrack di Palo Alto: «Sono una super fan di Dev, ascolto spesso i suoi album e avere la fortuna di lavorare con il tuo artista preferito è incredibile. Oltre a essere una bella persona, come musicista è davvero capace di catturare le emozioni del film e amplificarle».


Già, perché i sogni diventano realtà, e poi si trasformano in incubi. È il lato oscurissimo del web, l’esasperazione della celebrità digitale, la cultura dell’immagine scintillante e provocatoria “sotto al ciuffo, niente”. Ma Gia, come anche la protagonista del suo film, è chiaramente una ragazza vecchio stile in un mondo troppo moderno, troppo esasperato, troppo tutto, dove “se non sembri una Kardashian non sei nessuno” (cit.) e “le persone non hanno gusti, sono solo arrapate” (ri-cit.). La nostra nel film non si risparmia la morale finale: «I social media hanno molte qualità: hanno riunito le persone per protestare, ad esempio. Il film però è sul lato più pericoloso: non volevo salire in cattedra – figuriamoci – ma solo accendere i riflettori su cose che vedevo e sentivo. Quando posti una foto artistica su Instagram guadagna zero mipiace, quando ne metti una nuda invece like come se piovesse. Ovviamente non fa parte della mia personalità, in quel contesto mi sento davvero un’aliena». Just an old fashioned girl. Emoji occhi a stella, come direbbe MYSS KETA.