Nel seminterrato di una villa fatiscente a Los Angeles, due donne in abiti del XIX secolo se le danno di santa ragione. Una indossa una camicetta con dettagli di pizzo; l’altra ha un vestito nero e una striscia di sangue viscoso lungo il viso. Stanno lottando in una stanza dalle pareti di pietra, e vengono incitate da scommettitori in panciotto e cappello a cilindro, in una specie di incontro tra Downton Abbey e Fight Club. Dentro a un camerino improvvisato collocato direttamente sopra di loro, James Franco ascolta il trambusto attraverso le assi di legno del pavimento, e sorride mentre una ragazza gli distribuisce con il pettine una pomata sui capelli. Indica due enormi baffi a manubrio che nascondono il suo labbro superiore: «Sono finti», dice, «quindi scusa se parlo in un modo strano».
È la fine della prima settimana di produzione di un film intitolato The Mad Whale, realizzato da un gruppo di universitari; Franco, che è il loro professore, sta per prendere parte a una scena. «Sono miei allievi alla UCLA – no scusa, alla USC», dice Franco. Insegna in entrambe le università, e per un momento ha fatto confusione. «È un corso di regia pura: in autunno, gli studenti di scrittura realizzano il concept, e in primavera io intervengo e giriamo». La premessa di The Mad Whale, di cui Franco si attribuisce l’idea, vede un dottore di un istituto per malattie mentali del XIX secolo organizzare una rappresentazione teatrale di Moby Dick, utilizzando i ricoverati come attori. «Mi piace la cornice dell’istituto mentale, perché mettere in scena il vero Moby Dick richiederebbe un budget ben diverso», dice Franco, «poi perché l’idea di un cast formato da soli pazienti permette scelte non convenzionali. E fuori dalla rappresentazione puoi far succedere qualsiasi follia».
The Mad Whale è chiaramente una produzione a bassissimo budget. Franco ha convinto Camilla Belle e Summer Phoenix a recitare come pazienti del manicomio, soltanto come favore personale; i familiari e gli amici dei ragazzi della produzione danno una mano come comparse. All’esterno non c’è nessuna flotta di roulotte climatizzate per gli attori; nessun esercito di assistenti personali. In altre parole, questo non è in alcun modo il genere di set in cui ti aspetteresti di trovare una star del cinema famosa in tutto il mondo – tranne per il fatto che James Franco non è come le altre star del cinema. Ha recitato in commedie di successo e blockbuster di azione come L’alba del pianeta delle scimmie, Strafumati e la trilogia di Spider-Man; in film indie che hanno fatto discutere, come Spring Breakers e Milk; ha vinto un Golden Globe nel 2001 per il biopic televisivo su James Dean, e una nomination per il suo primo ruolo da protagonista in 127 ore. Ma Franco è anche un idiosincratico e instancabile eclettico – oppure, a seconda del grado di scetticismo che si vuole applicare, un dilettante iperattivo – che ha passato gli ultimi 10 anni saltabeccando tra una sconcertante varietà di progetti. Oltre a insegnare, Franco ha seguito corsi universitari di regia e letteratura; ha pubblicato volumi di narrativa e poesia con l’editor di Don DeLillo; ha collaborato con l’icona dell’arte performativa Marina Abramovic, ha organizzato mostre delle proprie opere, tra cui video in primissimo piano di peni che urinano e ani che defecano; è apparso nella soap opera General Hospital, e ha avuto il ruolo di protagonista nella pièce di Broadway Uomini e topi; ha fondato una rock band di nome Daddy; ha diretto progetti basati sulle sue passioni, tra cui i romanzi di Faulkner e le vite di sconosciuti attori omosessuali. Se a questo vertiginoso elenco aggiungiamo circa un milione di altre improbabili scelte di carriera, possiamo tranquillamente affermare che Franco, a 37 anni, è il più prolifico esponente della pop culture. Il suo progetto più importante, al momento, è la mini serie tv 22.11.63, prodotta da J.J. Abrams per il servizio di streaming Hulu (in Italia su Fox), e tratta dall’omonimo romanzo di Stephen King; Franco interpreta un viaggiatore del tempo che ha il compito di impedire l’assassinio di John F. Kennedy. È una delle sue cose migliori apparse nel giro di diversi anni, e un promemoria del fatto che, nonostante tutte le sue molteplici attività parallele, rimane uno degli attori più magnetici e talentuosi della sua generazione.
arrivato il momento di andare in scena. Franco va al guardaroba e si infila un gilet a motivo cachemire e un soprabito. Interpreta un ricco impresario teatrale di nome Fry, con soltanto due battute in questa scena, 14 parole in tutto. Ma Franco diventa immediatamente l’entità più seducente sui monitor – capace di irradiare l’impazienza e il potere di Fry con poco più di qualche piccolo scatto della testa e veloci, disdegnose occhiatacce. A un certo punto delle riprese strizza gli occhi e assume un ghigno intorpidito – caldo e caustico al tempo stesso – che è familiare a tutti quanti l’abbiano mai visto recitare. Quel sorriso è una delle sue armi più versatili: può comunicare una dolcezza disarmante, una minaccia di pericolo o una beatitudine simil-buddista. Il regista David Gordon Green ricorda di avere chiesto a Franco il motivo di quel sorriso, durante le riprese di Strafumati: «Cosa stai facendo?». La risposta: «A volte immagino che una fan mi stia soffiando addosso aria calda. E a volte immagino che sia il gas di scarico di un autobus». Stasera Franco tira fuori il suo sorriso scena dopo scena. E ogni volta, il gruppetto di studenti che osserva da un’altra stanza ridacchia di piacere.
La scena termina con 45 minuti di anticipo. I ragazzi si scambiano pacche sulle spalle e si danno il cinque. Emergendo da una calca di studenti e comparse che vogliono una foto con lui, Franco mi avvista e spara quel sorriso, con il suo baffo finto che riluce nella penombra del seminterrato. «Divertente, eh?».
È difficile trovare una carriera attoriale che si sia sviluppata in modo altrettanto confuso di quella di James Franco. Si è fatto un nome fin da giovane con la sitcom di culto Freaks and Geeks, recitando insieme a Seth Rogen, che in seguito è diventato un amico e collaboratore abituale. È stato indicato come la nuova grande promessa del cinema, dopo avere interpretato James Dean, e il passo successivo è stato ugualmente prestigioso: è stato il figlio di Robert De Niro in Colpevole d’omicidio, poi il fidanzato di Sean Penn in Milk, quindi l’escursionista bloccato Aron Ralston in 127 ore – dimostrandosi all’altezza della difficile sfida di essere l’unico volto sullo schermo per quasi l’intera durata del film. Franco avrebbe potuto continuare così: forse diventando la nuova musa dell’ultimo Martin Scorsese, o bofonchiando profonde banalità in un’epica alla Terrence Malick, e collezionando altre statuette. Ma non è successo. Al contrario, il suo curriculum è esploso in un turbine proteiforme di opere incuranti delle distinzioni di genere: alte e basse, sperimentali e popolari, viste da tutti o di fatto passate inosservate. Se c’è stata una logica dietro queste scelte apparentemente caotiche, è decifrabile soltanto da lui. Discutendo di questo, Franco fa sua una battuta di Jonah Hill pronunciata durante il Roast of James Franco di Comedy Central: «Il mio modello, in un certo senso, è: “Uno per voi, cinque per me”».
Alle 8.30 del mattino successivo alle riprese nella villa, Franco arriva nel lotto della Fox, a Century City, per lavorare a uno dei 15 e rotti progetti che IMDb dà in uscita nel 2016. Quello attuale, previsto per dicembre, è una commedia natalizia con coprotagonista Bryan Cranston, dal titolo Why Him? Il regista, John Hamburg, ha un notevole curriculum nelle commedie: ha lavorato alla sceneggiatura di Zoolander e Ti presento i miei, e ha diretto I Love You, Man. «Questo di sicuro fa parte del tipo “uno per voi”», dice Franco del film, «ma è comunque una figata. Ho l’occasione di lavorare con Bryan Cranston, e si sta rivelando molto divertente». La scena attuale è la numero 63, e prevede un’altra rissa – questa volta tra Franco, nei panni di uno sfacciato giovane magnate dell’hi-tech, e Cranston, la cui figlia Franco intende sposare. «Un po’ come Ti presento i miei», spiega, «il mio personaggio vuole la benedizione di Bryan, ma Bryan mi odia e non ne vuol sapere». La tensione tra i due finisce per esplodere in una violenza slapstick – un pugno nei reni, un colpo di karate e altre trovate simili.
La battaglia con Cranston in Why Him? prevede un sacco di coreografie realizzate da controfigure, e questo si traduce per Franco in un sacco di pause. Dato che odia perdere tempo, il risultato è una specie di quadro assurdo: mentre il suo stuntman si azzuffa di fronte a lui, Franco sta seduto a gambe incrociate sulla sua sedia da regista sorseggiando un caffè e leggendo due libri contemporaneamente – una biografia di Jackson Pollock e Giochi al buio di Toni Morrison. Franco legge un po’ di pagine da un volume, poi passa all’altro, senza prestare attenzione al casino che c’è attorno a lui. «Nelle commedie di solito tutti cazzeggiano, tra una ripresa e l’altra, ma James è diverso», dice Hamburg. «Lui sfrutta ogni singolo momento. L’altro giorno era seduto al trucco, e intanto scriveva sul suo portatile. Gli ho chiesto: “Cosa fai, scrivi un romanzo?”, e lui mi fa: “Eh, sì”. E lo stava facendo davvero!».
David Simon, creatore di The Wire, ha scelto Franco per la sua prossima serie di HBO, The Deuce, che racconta la scena dell’industria del porno a New York negli anni ’70 e ’80, in cui lui interpreta due fratelli gemelli. «Ero un po’ nervoso», dice Simon. «Alcune persone mi avevano detto: “È un grande attore, ma Dio ti aiuti se perde interesse”. Mi avevano raccontato di quella volta in cui lo avevano trovato addormentato tra una scena e l’altra con un romanzo di Faulkner annotato in grembo. Ma quando si è presentato sul mio set, i suoi personaggi erano perfetti, non ha dimenticato nemmeno una battuta». Un’importante attrice, che nel 2012 ha fatto un film con lui, dice che con Franco la vera domanda non è se sia autentico o meno, «perché lui è autentico. La vera domanda è se sia sano di mente oppure no».
Ma quali regole per fare carriera! Cioè, ero in “General Hospital” e allo stesso tempo ero nominato agli Oscar
James Franco è cresciuto a Palo Alto, California, madre autrice di libri per ragazzi e padre che lavorava nelle telecomunicazioni. «I miei genitori si sono conosciuti a un corso di arte all’università, anche se mio papà poi si è laureato in matematica», ricorda Franco (che ha due fratelli più giovani: Tom, un artista che vive a Berkeley, e Dave, che sta diventando anche lui una star del cinema, ndr). «Mi ha insegnato a fare calcoli complessi molto presto. Penso di avere preso da lui, perché lavorava in Silicon Valley, ma aveva anche un sacco di progetti paralleli, problemi matematici che richiedevano anni per essere risolti. E faceva anche esperimenti scientifici nel giardino di casa, qualcosa di simile all’alchimia – aveva una teoria secondo cui nell’acqua dei fiumi era nascosto l’oro, e se lui avesse trovato il modo di raccoglierlo avrebbe potuto metterlo insieme. Non ci è mai riuscito, ma ricordo tutti questi tupperware di acqua di fiume in giardino con dentro dei filtri. Erano i suoi esperimenti. Non ci era permesso parlarne, all’epoca, ma dato che è morto, oggi posso farlo». Franco sfoggia un sorriso malinconico. «Aveva l’abitudine di fare tante cose, e io mi ci rivedo molto, in questo bisogno di lavorare a progetti diversi». Franco è passato attraverso quello che ha descritto come un periodo di rabbia e ribellione adolescenziale (faceva graffiti, e ha distrutto almeno un’auto), ma oggi è attaccato alla famiglia – coinvolge Dave nei suoi progetti, e fa frequenti viaggi nell’area di San Francisco per visitare la madre e Tom.
Franco ha iniziato a recitare verso la fine del liceo, e dopo un anno di Inglese alla UCLA, ha lasciato l’università per dedicarsi alla carriera da attore. Ha adoperato fin dall’inizio un metodo basato sulla ricerca intensiva: «Un giorno, dopo l’episodio pilota di Freaks and Geeks, ero seduto nel mio ufficio», ricorda Paul Feig, «e ricevo una telefonata. È Franco, ed è andato al mio liceo in Michigan per fare ricerche! Nella mia vecchia scuola! Quanto spesso capita di trovare qualcuno così zelante?». Per il poco noto film drammatico d’azione Flyboys-Giovani aquile, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, Franco ha addirittura ottenuto un brevetto di volo, «ma poi, per motivi legati all’assicurazione, non ho potuto pilotare realmente l’aereo», dice, ancora sinceramente deluso.
Per sua stessa ammissione, però, non è stato sempre la persona più piacevole con cui dividere un set. Durante Freaks, quando non era al centro dell’attenzione si irritava a tal punto che, per essere notato, si metteva a fare gesti stravaganti sullo sfondo. «Alla scuola di recitazione mi hanno insegnato che i registi che guidano gli attori non esistono più», dice, «che gli Elia Kazan e i Billy Wilder e i John Ford sono passati, che nessuno sa veramente cosa significhi recitare. Mi hanno insegnato che bisogna lottare per la propria performance. Quindi quando a un regista non piaceva quello che facevo, o mi chiedeva di farlo in un modo diverso, io mi ribellavo: lui non era contento, io non ero contento, e nessuno otteneva quello che voleva».
Strafumati, nel 2008, è stato un punto di svolta. «Quello che avevo fatto in precedenza non funzionava», dice, «ho capito che dovevo seguire la corrente. Quelle erano le persone di cui mi fidavo, le più divertenti in circolazione, e se fossi riuscito a seguirle avrei soltanto potuto migliorare. Ho capito che avrei dovuto farlo in ogni altra cosa».
Nonostante la devozione febbrile di Franco per i progetti di cui è appassionato, nessuna delle sue mostre, opere di fiction o imprese come regista ha ancora ricevuto successo critico, né tantomeno commerciale. Al secondo, almeno, Franco si dice non interessato: «So bene che se dirigo un adattamento da Figlio di Dio di Cormac McCarthy, che racconta di un necrofilo, un sacco di gente non andrà a vederlo. Ma resta un mio sogno, cazzo». Danny Boyle, che lo ha diretto in 127 ore, dice: «Lui non si dà limiti. Hai presente il detto per cui “Il genio sta nelle scelte”? Lui non la pensa così». Quando chiedo a Franco se riesce a immaginare di dedicarsi a un solo progetto per diversi anni, scuote la testa. «Il problema di fare un film ogni due o tre anni è: A) finisci per non lavorare molto, e a me piace lavorare; B) su quel progetto ricade troppa pressione». Dice che rifiuta «le tacite gerarchie e le regole sul genere di progetti che definiscono una grande carriera. Cioè, ero in General Hospital nello stesso momento in cui ero nominato agli Oscar, e ho capito che in una soap opera puoi fare cose che non potresti fare in nessun altro posto».
Una delle principali preoccupazioni artistiche di Franco è l’omosessualità, che ha esplorato in diversi progetti, come il biopic che ha diretto e interpretato nel ruolo di Hart Crane, il poeta gay degli anni ’20, o un film del 2013 intitolato Interior. Leather Bar, ispirato a Cruising, il film di William Friedkin su un killer che prende di mira la scena underground gay della Manhattan anni ’70. Non sorprende il fatto che la sua stessa sessualità sia diventata oggetto di speculazione. Lo scorso anno ha chiarito in qualche modo la questione pubblicando un pezzo su una rivista in cui dichiarava: “Sono gay nell’arte ed etero nella vita”, aggiungendo però, “sono anche gay nella vita, ma solo fino al momento del rapporto sessuale”. Ma la linea che separa la vita dall’arte può diventare indefinita, come nel caso del suo Instagram, in cui ha pubblicato numerosi scatti omoerotici di se stesso – a torso nudo in palestra, abbracciato a un attore oliato e in slip, o tutto pompato mentre si rade i capezzoli in una stanza d’albergo. Franco mi dice che vede Instagram come «un mezzo per esplorare i confini, e provocare delle reazioni».
James Franco possiede una villa a Silver Lake, ma in questo periodo vive in un hotel del centro. «A casa mia ci sono troppe distrazioni», dice. Una sera, dopo che ha finito il lavoro sul set di Why Him?, lo incontro per cena nel ristorante del suo hotel. Franco ha dichiarato di non prendere più droghe dai tempi del liceo; la caffeina, invece, è il suo vizio, e si siede al tavolo con il suo thermos – poi ordina anche un americano, per sicurezza. Dice che l’hotel gli ha fatto uno sconto perché ci resterà per quattro mesi, mentre segue vari progetti. Oltre al romanzo, all’insegnamento, ai film, sta dipingendo nella sua camera – di recente, dice, ha completato una serie di ritratti di colibrì e ha iniziato a dipingere tele basate su vecchi annuari scolastici. Questo significa che anche in albergo, dopo una giornata piena, continua a lavorare. Rogen descrive così l’allergia di Franco per l’ozio: «Io vado in spiaggia a non fare un cazzo per tutto il weekend. O passo un giorno intero a guardare una stagione di Boardwalk Empire. Lui non fa queste cose. Mai. James direbbe: “Dai Seth, ripigliati, cazzo!”». Quando dico a Franco che sembra avere una fisiologica avversione verso il prendersela comoda, lui ride e risponde: «Qualche volta lo faccio», e fa notare, per esempio, che ama andare a vedere vecchi film al Cinefamily, un cinema d’essai sulla Fairfax.
Di tutti i progetti che Franco sta tenendo in equilibrio in questo momento, quello in cui ripone le maggiori speranze è The Disaster Artist, film che ha diretto e che – pensa – potrebbe soddisfare una sua ossessione e fare anche un po’ di soldi al botteghino. «È il punto d’incontro tra qualcosa di artisticamente interessante e al tempo stesso un po’ commerciale», dice. La sensazione è che Franco si trovi sul punto di fare il botto. Dice che l’accoglienza positiva di 22.11.63 è stata confortante, ed è emozionato per il prossimo The Deuce. «Credo sia una specie di nuovo corso, per la mia carriera», dice.
Stiamo parlando da qualche ora, quando Franco prende il suo thermos e si alza. È passata mezzanotte. Va verso l’ascensore e sale in camera. Forse sta andando a dormire, oppure a leggere, o forse a fare qualsiasi altra cosa.