Lorenzo Mieli, il creatore di mondi | Rolling Stone Italia
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Intervista a Lorenzo Mieli, il creatore di mondi

Nel 2020 guarderemo la tv? Intervista al produttore che sta rivoluzionando l’entertainment italiano (a partire da X Factor) con la sola forza del pensiero

Lorenzo Mieli, produttore di "X Factor" dal 2011, nelle vesti del super mentalista della Marvel. Illustrazione di Paolo D’altan per Rolling Stone

Lorenzo Mieli, produttore di "X Factor" dal 2011, nelle vesti del super mentalista della Marvel. Illustrazione di Paolo D’altan per Rolling Stone

Lorenzo mieli ha 41 anni, due figli, una laurea in Filosofia e si guadagna da vivere creando «piccoli universi di senso». Sguardo magnetico, il profilo affilato, te lo immagini circondato da un manipolo di X-Men, con quella faccia da mentalista che sa già la risposta alla prossima domanda per il fatto stesso di averti spinto lui a farla. Figlio del Mieli giornalista, coscienza storica e politica di un’epoca, Lorenzo ha bypassato il peso di una figura paterna intellettualmente ingombrante inventandosi prima regista, poi scrittore e poi ancora produttore di serie tv, film, show e documentari.

Il filo d’Arianna, nel suo infinito curriculum, si insinua in mezzo a oscuri format su oscuri canali satellitari, icone generazionali (Boris), esperimenti letterari (Masterpiece), docureality per teenager (Ginnaste), serie tv introspettive (In Treatment) e telenovele (Un posto al sole). Invece la sua agenda è fitta di note tipo: “riposizionamento X Factor”, “lancio 1992”, “nuovo film Soliti Idioti”, “appuntamento vertici HBO a Los Angeles”, “montaggio serie tv Paolo Sorrentino”. Non male, per uno che ha il vizio di «sparire appena cominciano le riprese». Lo abbiamo incontrato per conoscere meglio il significato – ma soprattutto il futuro – della parola entertainment. E Professor X non ha deluso le nostre aspettative.

Che cosa vuol dire fare il produttore?
È un lavoro che presuppone la ricerca costante di cose e di idee, da libri, altri film, qualcosa che uno ti racconta, da un articolo di giornale, da tracce che tu trovi da qualche parte, e ti obbliga a immaginarti cosa ne può venire fuori: un docu, un programma, un film, una serie… Io cerco costantemente idee, fa parte della mia natura. E poi penso: con chi posso parlarne, di questa cosa? Il grosso del mio lavoro è questo, costruire un nucleo di persone intorno a un progetto. Nel momento di ideazione e di scrittura ci sono tantissimo, ma quando cominciano le riprese io sparisco, e ritornerò solo al montaggio.

“Boris” è stato un miracolo.
Ci ho messo tantissimo a trovare persone che conoscessero il popolare fino a volergli bene 

Strano, per uno che ha mosso i suoi primi passi, in questo mondo, come regista.
Ero convinto che sarei diventato un regista fin da bambino e così, in automatico, dopo l’università ho fatto quello che negli anni ’90 tutti gli aspiranti registi facevano: piccoli video industriali, clip musicali, spot, cortometraggi… Ma quando andavo sul set non mi divertivo, e aspettavo il momento del montaggio. Mi è bastato girare qualcosa in tv da regista per capire che non faceva per me. Un giorno, parlando con un amico, viene fuori che è un altro il lavoro perfetto per me: inventare progetti e farli realizzare.

Quanto tempo passi a inventare?
Sono affetto da una grave forma di bulimia di idee, il che è un problema.

Una volta nate, che fine fanno queste idee?
Per tanti anni ho girato con dei foglietti piegati in tasca e che scrivevo compulsivamente a qualsiasi ora del giorno e della notte e ovunque fossi. Erano foglietti minuscoli, contorti, mi prendevano tutti in giro. Poi li raccoglievo e li riordinavo, in un processo continuo di riscrittura, che è un po’ il mio pattern mentale. Alla fine mi sono dovuto adeguare ai tempi, e adesso uso le note dell’iPhone.

Questo “pattern mentale” te lo sei fatto all’università o c’era già prima?
C’era già prima, l’università è stata una conseguenza. Mi sono laureato in Filosofia, con una tesi sperimentale a metà tra Estetica e Filosofia della mente. Avrei voluto insegnare e continuare a studiare. Mi proposero di fare anche un dottorato in Sicilia, ma senza stipendio, vitto e alloggio. Alla fine ho rinunciato.

Che cos’è la Filosofia della mente?
È una disciplina che cerca di includere all’interno delle grandi questioni filosofiche anche gli studi sul cervello, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale e la psicologia cognitiva.

Credi nell’esistenza dell’anima?
Diciamo che il vero Lorenzo cercherebbe la localizzazione dell’anima nel cervello. Non a caso nella mia tesi di laurea ho provato a tradurre in scienza quello di cui si occupa l’Estetica: la percezione del bello come scoperta di sé. E siccome nella Filosofia della mente e nelle neuroscienze il problema è proprio l’individuazione della coscienza, cercavo di mettere insieme le due cose. Poi si è finito col parlare del Truman Show, nell’ultimo capitolo, e non mi ricordo neanche perché.

Forse perché c’era scritto il tuo futuro.
C’era scritta la mia estetica personale, nel senso di gusto, che è una rielaborazione più sofisticata della cultura di massa: nella letteratura, nel cinema, nella tv, nel giornalismo, nell’arte. Anche se faccio il pop, cerco di metterci un’implicita interpretazione “meta-pop”.

L’entertainment non è divertimento, è partecipazione. Io partecipo a una comunità che gode della stessa cosa di cui godo io

“Boris” deve essere stato un bel traguardo…
Boris è stato un miracolo. Ci ho messo tantissimo a trovare le persone che sapessero realizzare quell’idea. Significava fare meta-televisione, poter dire “buscio de culo” e contemporaneamente prendere in giro chi dice “buscio de culo”, ma anche conoscere veramente il popolare fino a volergli bene: non potevamo costruire dei mostri e non amarli allo stesso tempo. Questa idea della riscrittura, della doppia chiave di lettura, dell’uso del pop, in questo caso anche del trash, ma in una chiave più alta, è una cifra estetica da cui sono attratto naturalmente, non è una questione mentale o intellettuale. Non a caso le mie playlist sono piene di cover, e la cosa che mi fa andare più in fissa con X Factor sono proprio le scelte musicali. Sono uno che ascolterebbe la stessa canzone cantata 14 volte da 14 artisti diversi. Certo, se lo fai in maniera banale diventa un karaoke, ma se ci metti la testa puoi lavorare davvero sulla musica. Quello che fa Morgan è esemplare, mi dà la chiave per dire: cazzo, stiamo facendo una roba che è anche tanta musica! Poi c’è tutto il resto, il circo, il baraccone e il famoso storytelling…

Ti sei mai chiesto il perché di questa passione per il meta-qualcosa?
Per il senso di estraniamento che ti dà. Come una grande emozione, la stessa che ho provato una settimana fa a Los Angeles, quando ho conosciuto, durante una cena allo Chateau Marmont, l’icona della meta-letteratura contemporanea per antonomasia, Bret Easton Ellis. Era il prodotto “riletto” di uno dei suoi libri, Lunar Park: scrittore a Hollywood, un po’ off, felpa, tante sigarette, botulino, super gay, cinico, molto intelligente. L’emozione è quella del riconoscerci qualcosa dentro, in quell’autore lì, in quel pezzo di film, in quella musica, qualcosa di te, ti specchi in una cosa, è una piccola estasi. E con la tv si può fare. Un esempio? In 1992, la serie su Tangentopoli che stiamo per lanciare su Sky, un pezzo di Non è la Rai, reinterpretato, diventa la chiave di lettura sociale della prima puntata.

È difficile, diciamo impossibile, rintracciare frammenti di Dna paterno nelle tue parole…
Da lui ho ereditato il finto cinismo, cioè l’ironia, e una certa competenza nell’arte della dissimulazione, il riuscire a convincere le persone su determinati argomenti partendo dall’apparente adesione al senso comune per poi modificare quest’asse, lentamente, con piccoli movimenti della testa, senza mai dare l’impressione di voler essere controversi.

Che cos’è l’entertainment?
È la creazione di piccoli universi di senso, che generano amore e unità intorno a sé. L’entertainment non è divertimento, è partecipazione. Io partecipo a una comunità che gode della stessa cosa di cui godo io. E che cos’è? È una bella storia raccontata bene.

Qual è il programma in cui è scattata l’ora x di Lorenzo Mieli?
Una cosa che forse non c’è neanche su Wikipedia, una delle prime che ho fatto dieci anni fa su un canale satellitare sconosciuto, si chiamava Planet 430. Era un programma quotidiano assurdo, in diretta, fatto da un gruppo di persone che parlavano di qualsiasi argomento in uno studio vuoto. Quando invitavamo gli ospiti dicevamo che eravamo Sky, perché avevamo il teatro attaccato al loro, altrimenti non sarebbe venuto nessuno. Chiamavamo chiunque e parlavamo di tutto, dalla politica estera alle pornostar.

Che cosa ci facevi a Los Angeles?
Ero lì per discutere di The Young Pope, la nuova serie tv di Paolo Sorrentino, con i tipi di HBO e i potenti new comer di Netflix.

Di che cosa avete discusso?
Si è parlato delle implicazioni culturali nel fare una cosa sul papa, nel farla con un papa italoamericano, del tipo di narrazione… Abbiamo fatto un pitch lunghissimo.

Che cos’è un pitch?
È quello che di un film o di una serie tv si può raccontare anche dentro l’ascensore.

Qual’è il pitch di “The Young Pope”?
È una serie in otto puntate che racconta le vicende di un papa immaginario, Lenny Belardo, una specie di sliding door rispetto al papa di adesso, ed è tutta “charachter driven”, cioè fondata sulla potenza di un personaggio, non sui grandi colpi di scena.

Che implicazioni avrà l’arrivo di Netflix?
Netflix sta a Spotify come la pay tv sta a iTunes, tu paghi un canone bassissimo e hai accesso a tutte le serie e a tutti i film, poi su quel “tutti” si giocherà la partita finale. La tv generalista è spacciata, se abbandona il campo. I network americani, quando la pay tv ha fatto la rivoluzione nei linguaggi e nei contenuti, hanno risposto rifacendo il meglio di quello che veniva proposto lì, con i loro codici, i loro soldi e la loro ampiezza di pubblico. Se si giocherà questa partita, una Rai avrà molti più mezzi, e potrebbe spaccare tutto.

Il cinema è un’esperienza che rimarrà, come il teatro, che è vivo e vegeto

Dove si stanno spostando gli interessi catodici del pubblico italiano?
L’entertainment in senso classico, lo show televisivo, è in stallo. Il vero fenomeno, adesso, sono i docureality, il racconto seriale di cose reali. Uno dei motivi per cui ero a Los Angeles è che voglio farne uno su Elon Musk, quello che ha inventato PayPal e adesso fa i missili. Fra 11 anni vuole costruire una colonia su Marte e sta selezionando le persone. Se io potessi seguire per i prossimi 10 anni i test psicologici, i campi di addestramento nel Nevada, la costruzione delle astronavi, i primi viaggi…

Hai appena prodotto “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo, Nessuno si salva da solo di Castellitto e sei al lavoro con una trilogia firmata Soliti Idioti. Che senso ha, oggi, produrre un film che verrà subito messo in streaming il giorno dopo l’uscita?
Perché per i film esiste ancora una vita, nelle sale. Ma non in quelle che conosciamo adesso. Se vai al’Electric di Londra, dici: ecco, questo è il cinema! È un club, dove stai lì, hai dei divani, ti portano da mangiare, hai degli schermi pazzeschi. È un’esperienza che rimarrà, come il teatro, che è vivo e vegeto. Mentre la fruizione di massa, quella sì, è destinata allo streaming digitale.

Di che cosa parla “1992”? È una serie-denuncia? L’attualità offre sempre molti spunti…
Non è proprio così. Accade nel 1992, “sotto” Tangentopoli, ma è una storia di personaggi finti, 30enni che avrebbero voluto e potuto cambiare il mondo, per poi finire travolti da un’epoca di grande trasformazione.

È la tua meglio gioventù?
Direi piuttosto “la peggio”. Sono persone parecchio controverse.

Ti riconosci in quella generazione?
Io mi riconosco in quelli che organizzano le feste e che poi, quando il party è cominciato e tutti si divertono tantissimo, spariscono.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di settembre di Rolling Stone

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