«Adesso io faccio la cover di Rolling Stone, no? E i miei amici mi sfotteranno: “Mamma mia, quanto ti spari le pose, Lore’, quanto te la credi, come ti senti figo”». La faccia giusta Lorenzo Richelmy ce l’ha, ma di lui ti rimane altro. Innanzitutto il fatto che parla, parla tantissimo e soprattutto si prende in giro, sdrammatizza “quel” mondo: «Sento colleghi anche più giovani di me dire: “Noi in quanto artisti…”. Cosa, scusa?! Chi cazzo sei? Meglio che ti definisci attore, perché di artisti ce ne sono pochissimi».
Quello che pensi, mentre ci chiacchieri per più di un’ora e mezza, è che Lorenzo c’è e non ci fa. E quello che intravedi dietro agli occhioni verde-azzurri, alla solarità travolgente e al sorriso di uno che ti sorride perché ti vuole sorridere è la “tigna”, «la cazzimma», come la definisce lui. Non parliamo di never give up, «suona troppo arrogante», ma piuttosto della teoria del bombo: «Fisicamente non è predisposto a volare, è pesante e le sue ali sono troppo piccole. Però vola».
27 anni, figlio d’arte (i genitori sono attori di teatro, «dove a quattro anni ho visto il mio primo paio di tette»), «romano di La Spezia», la sua carriera è partita col botto a 17 anni grazie alla fiction I liceali. Ragazzine urlanti ovunque. Poi lo stop per studiare al Centro sperimentale di cinematografia, quindi nel 2014 l’occasione internazionale con la serie tv Marco Polo.
Un treno su cui è riuscito a salire grazie alla tigna di cui sopra: «In Italia c’era un casting director che non pensava fossi adatto per il ruolo, ma io ero certo di aver capito il progetto. Ho fatto un provino in camera con un amico regista e l’ho mandato al quartier generale di Netflix a Londra».
Due mesi dopo, quando Lorenzo è a Los Angeles per presentare il film Il terzo tempo, arriva la notizia-bomba: ha avuto la parte. «Ero in stato confusionale, ma mi sono dovuto riprendere subito perché a quei livelli sono pazzi, la produzione voleva che andassi in Malesia per il training pre-riprese. Ma io dovevo assolutamente tornare a Roma e dirlo ai miei di persona». All’aeroporto lo va a prendere la madre: «Come mai sei tornato prima? Ah, è arrivata l’assicurazione della macchina. Riusciamo a pagarla metà per uno?». «No, mamma, ci penso io». «Ma no, dai». «Mamma, mi hanno preso per Marco Polo». «È stata una bella botta per tutti quanti», ricorda Lorenzo.
Una “botta” che l’ha portato in giro per il mondo: dall’Oriente, tra corsi accelerati di kung fu e di inglese, agli Stati Uniti, dove ha vissuto, fatto promozione e conosciuto lo star system – quello con tutte e due le esse maiuscole. Adesso Lorenzo è tornato in Italia con tre film molto diversi tra loro (in uno recita al fianco di Toni Servillo e Jean Reno). E che ci ha raccontato insieme a tanto, tantissimo altro in questa chiacchierata-fiume. Senza filtro. A 360 gradi. A partire dal cognome.
Ma come si pronuncia? Alla francese? Perché la Y inganna…
“Richelmi”, all’italiana. La mia famiglia è di origine piemontese, e pare che al tempo di Napoleone abbiano aggiunto la Y per essere ammessi più facilmente nelle corti francesi. Mia nonna era una che a tavola parlava in francese. Pure mio padre lo sa benissimo.
E tu?
Zero, manco una parola. A me i francesi non stanno simpatici. No, non è vero (Ride), devo dire che i parigini però sono un po’ ostici.
Nato a La Spezia ma romanissimo: quindi per chi tifi?
Per nessuno, il calcio mi sta sulle palle. Mio padre era un grande tifoso del Torino e – si sa – la vita dei granata è fatta di sofferenza e stenti. Da piccolo, la domenica, lo vedevo inveire contro il televisore e pensavo: “Ma perché devo far entrare questa cosa nella mia vita?”.
E adesso?
Guardo le grandi partite, tipo i Mondiali, mi piace lo sport: ho giocato più che altro a tennis, a pallavolo. Mi piace muovermi, come ai bambini con il deficit d’attenzione: una cosa che non esiste, chiariamolo. Sono gli psicologi e le compagnie farmaceutiche che ci marciano, per vendere più psicofarmaci. Qui lo dico e mando un messaggio.
Ma perché, tu ci sei passato?
Sì, ero uno di quei ragazzini che avevano il deficit, che si distraevano tanto, il classico tipo che “è intelligente ma non si applica”. Non sono mai stato uno studente modello.
Come l’hai superato?
Mia madre è stata brava, alle medie faceva delle scommesse con me perché prendessi dei buoni voti: «Se vuoi il motorino devi avere tutti 7 in pagella». Mi dava una motivazione, anche pretestuosa magari: la scuola invece manca, in questo senso.
Rimanendo a quel periodo, hai raccontato di essere stato bullizzato…
Dai 9-10 anni fino ai 13, durante la pre-adolescenza. Ho sempre amato mangiare ed ero cicciottello: mi prendevano in giro e ne soffrivo, anche perché vedevo i miei coetanei con le prime fidanzatine. Durante l’estate tra la prima e la seconda superiore mi sono trasformato e quando sono tornato a scuola era divertente vedere come mi guardavano, soprattutto le ragazzine. Però da lì mi sono portato dietro una timidezza rispetto alle donne della quale non mi sono mai liberato.
Sei l’amico ideale per le ragazze?
Sì, hai presente la friendzone? Io faccio il confidente, quello dolce, poi arriva quello più scaltro: “Perché perdi tempo a parlare del senso della vita? Digli subito che vuoi portartela a letto”. E spesso essere così diretti funziona.
Sei innamorato adesso?
No, però ho amato tanto. Ho avuto due bellissime storie di cinque e quattro anni.
Dopo “Marco Polo” ho visto a New York la mia faccia alta 15 metri. Ma per me il massimo resta la birretta a San Lorenzo con gli amici di sempre
Sei fedele?
Sono sempre stato molto fedele, non ho mai tradito, una cosa che penso non si ripeterà più (Ride). Credo in un mondo possibile, in cui non ci sia la fedeltà intesa come quella cattolica, matrimoniale… Poi non è che dobbiamo fare le orge. Ma ci sono sempre più coppie per le quali l’atto sessuale in sé può essere una cosa di minimo apporto emotivo rispetto alla scelta di stare con una persona. Certo, bisogna levarsi dal gioco della gelosia, ma per me non è mai stato un problema.
Tornando al bullismo, hai subito anche aggressioni fisiche?
Non mi hanno mai menato veramente. Più maltrattato: l’insulto, lo spintone. Era una cosa psicologica, che andava anche sul fisico. Soffrivo perché sono uno socievole, che sta bene con la gente. E questo modo di essere viene fuori anche da una grande timidezza, che è il motivo per cui sono diventato attore. È una sfida. E lo stesso vale per il bullismo: è un ostacolo, ma non avere ostacoli nella vita può essere una grande fregatura. Senza i bulli non sarei qui, ora.
Ma come li hai sconfitti ’sti bulli?
In seconda media c’erano dei pariolini che volevamo spingermi a essere violento. Io sono pacifico, nel momento in cui mi incazzo però crollano i muri. Quando ho capito che non ce la facevo più li ho presi tutti e due e li ho buttati a terra, con le lacrime agli occhi, e ho cominciato a dire: “È questo quello che volete?”. Dentro abbiamo un magma, un’energia che può essere utilizzata e che però va incanalata. Se accetti i tuoi difetti e li trasformi in forza, hai vinto. Adesso dico una cosa politicamente scorretta e che va poco di moda…
Vai.
Il diritto al gioco dei bambini… ma che cazzata è?! Non è tutto un gioco. Lo strillo per zittirli se fanno i capricci o un bel pizzone quando rompono qualcosa sono salutari, mentre adesso abbiamo tutte queste filosofie per cui i ragazzini devono essere protetti: da piccoli fanno la vita più bella del mondo e poi si ritrovano a 13 anni che “oddio, ma è tutto una merda”. Questo protezionismo sta uccidendo la capacità dei ragazzi della mia generazione (e non solo) di tirare fuori le palle.
Con I liceali è arrivato il primo assaggio di fama: e poi?
E poi Claudia Pandolfi e Giorgio Tirabassi mi hanno detto: “Se vuoi fare l’attore, studia”. Quindi ho provato a entrare al Centro sperimentale con il monologo di Edward Norton allo specchio ne La 25a ora. C’era gente che sapeva l’Ivanov di Cechov a memoria, che stava lì a fare solfeggio con la voce. “Ecco – ho pensato – io sono veramente il più pippa di tutti”. Invece alla fine hanno preso me e non quello che faceva Cechov (Ride). Ma sì, perché poi in questo mestiere si rischia di cadere nel dramma, gli attori che sono ATTORI, no? Che si prendono troppo sul serio: “Io lavoro con il mio corpo, sono come un musicista, la mia voce è il mio strumento”: che palle! Che tra l’altro è una cosa insopportabile di Los Angeles…
Peggio gli attori americani o quelli romani?
A Hollywood sono talmente tanti i big che nessuno fa il gallo, nessuno dice: “Ce l’ho più lungo io”, perché sa benissimo che ci sarà sempre qualcun altro che ce l’ha più lungo di lui. Le star non se la tirano. Il nostro invece è un atteggiamento provinciale: quando sei il re del pollaio hai bisogno di fare il re ovunque. Poi in America c’è una grande percezione di quanto questo sia un mestiere, aspetto che si è un po’ perso in Italia.
Com’è il mercato USA?
È tutto più strutturato: sei protetto, ma il rovescio della medaglia è che ti senti anche un po’ una marionetta nelle mani di un sistema produttivo colossale. Noi soffriamo un grande senso di subordinazione che è infondato perché, se è vero che loro hanno più mezzi, sul contenuto non c’è tutta questa distanza.
L’american dream non ti attira?
Dopo Marco Polo sono tornato a New York e ho visto la mia faccia alta 15 metri a Times Square. La domanda che ti devi fare è: vuoi veramente la fama? Perché li ho incontrati i divi, hanno delle vite tristissime. Sei un mega attore hollywoodiano, abiti a Los Angeles e non puoi andare a prenderti una cosa da bere in compagnia oppure al cinema per i cavoli tuoi. Sei in una prigione, d’oro, ma è sempre una prigione. Per me il massimo è la birretta a San Lorenzo con gli amici di sempre, quelli che mi prendono in giro. La celebrità secondo me te la devi andare a cercare.
Da piccolo ti fanno credere di essere speciale. Non è vero! Sei un uomo, se ti fai il culo forse riuscirai a fare quello che vuoi fare. Forse
Tre nuovi film e tre generi diversissimi. Qual era il tuo obiettivo?
Volevo cercare il modo giusto di tornare in Italia dopo l’esperienza americana. E l’ho trovato con i fratelli Taviani e Una questione privata, tratto dal libro di Fenoglio, al fianco di Luca Marinelli e Valentina Bellé. Mentre in Marco Polo mi sentivo un pupazzo perché con la mia performance dovevo accontentare dieci persone con altrettante richieste diverse, a rischio di diventare piatto, qui avevo davanti due grandi maestri italiani che fanno un lavoro da artigiani sul cinema, prendendosi il tempo che serve. A volte in un giorno giravamo una sola scena ed è un lusso, un privilegio.
L’altro è La ragazza nella nebbia, opera prima del giallista Donato Carrisi…
La cosa interessante di Carrisi è che nasce come sceneggiatore e per quasi tutti i suoi libri parte proprio dalla sceneggiatura e poi scrive il romanzo. È molto cinematografica come idea, poi ovviamente c’è Toni Servillo, il Toni nazionale… Per me Il divo, più che La grande bellezza, è un caposaldo della cinematografia italiana degli ultimi 20 anni.
E lavorare con Carrisi com’è stato?
Nonostante fosse il primo film che dirigeva, aveva le idee molto chiare e non era ansioso. Sui set di entrambi i progetti ho trovato quello che mi è mancato spesso, ovvero il rispetto per gli attori e per il lavoro che si sta facendo. Soprattutto in ambienti romani è sempre tutto un po’ “allo svacco”.
Il terzo film invece è una commedia, giusto?
Sì, una commedia on the road con ambizioni da pulp, diretta da Marco Ponti: sono un fan di Santa Maradona, il suo esordio da regista. Lo scopo è aprire una nuova strada.
Che anima hai? Rock, pop, punk?
Metal, se dovessi prendere un gruppo di riferimento direi i Tool ma mi piace tantissimo anche il rock, sono molto trasversale. Amo da morire la musica, è la via di fuga migliore da tutto e mi aiuta un sacco nel mio lavoro.
Tipo? In Marco Polo cosa utilizzavi per entrare nel mood?
Ho usato molto Philip Glass, alcune canzoni dei C2C. Poi però quando tornavo in albergo via libera a metal o drum and bass. Anzi, forse la mia anima è drum and bass: mi rattrista il fatto che in Italia sia un genere completamente morto. Vai a Londra al Fabric e c’è ancora dj Hype che fa dei set pazzeschi. Invece qua ormai…
I divi hanno vite tristissime. Sei in una prigione, d’oro, ma è sempre una prigione
Miti a livello cinematografico?
Daniel-Day Lewis e Joaquin Phoenix. Il primo perché è un attore-artigiano, metodo Stanislavskij, può diventare chiunque voglia. Il secondo anche, ma è più emotivo. Poi ci mettiamo Tom Hardy come jolly perché mi fa impazzire con quella voce strana (Lo imita parlando a mezza bocca, nda).
Lo imiti bene…
Mi sono imparato a memoria tutti i suoi monologhi: per esempio Peaky Blinders, una delle serie più belle che abbia mai visto, insieme a True Detective e Vinyl. Hardy è genio e sregolatezza: l’unico difetto è che interpreta quasi sempre lo stesso tipo di personaggio, ma fa delle performance miracolose.
C’è un regista con cui vorresti lavorare?
Paul Thomas Anderson su tutti. Un altro che mi fa impazzire è Nicolas Winding Refn: Bronson mi ha fatto innamorare di Tom Hardy. Nonostante si dica che il cinema è per i registi e il teatro per gli attori, quando c’è un regista che dà la possibilità a un attore di creare qualcosa del genere, è come un’esplosione.
Hai detto che non cerchi la celebrità. E allora cosa cerchi?
Il riconoscimento del mio lavoro. Da piccolo ti fanno credere di essere speciale. Non è vero! Sei un uomo, se ti fai il culo forse riuscirai a fare quello che vuoi fare. Forse.