La sacra legge dei ruoli vuole che i protagonisti siano gli unti del casting director, coloro che si prenderanno la scena: tu spettatore ricorderai loro e nient’altro che loro. Poi, però, arriva Lucia Mascino e questa regola la fa a pezzi. Nel film Una terapia di gruppo, in sala dal 21 novembre, interpreta la segretaria Sonia: una parte che di solito grida “qui nessuno si ricorderà di me”, soprattutto all’interno di un parterre di altri pesi massimi che schiera Claudio Bisio, Margherita Buy, Valentina Lodovini, Claudio Santamaria e Ludovica Francesconi. Invece lei appare in scena, fa il suo (peraltro molto bene) e poi sgancia una battuta che buca lo schermo. Un “big love, per everybody”, con tanto di pugno battuto sul petto in stile maranza, che nel contesto in cui viene proferito (non possiamo fare spoiler) si candida a migliore trovata del film. Quando uscirete dalla sala, sarà una delle battute che più vi ricorderete. Con Lucia Mascino finisce più o meno sempre così: che sia in una serie corale come I delitti del BarLume, nel provocatorio Nudes (su RaiPlay) o nello spettacolo teatrale Il sen(n)o, ti resta impressa.
Chi è il genio di quel “big love, per everybody”: tu o lo sceneggiatore?
L’ho inventata io. Sul set c’era un clima all’insegna della grande libertà. Il regista Paolo Costella mi ha detto: “Quando vuoi entra pure nel personaggio”. Così ne ho approfittato e ho improvvisato quella battuta.
E meno male che, fino al 1997, dovevi fare la biologa…
Mi ero iscritta all’università per un eccesso di serietà, spinta dalla preoccupazione per il futuro. Pensavo che bisognasse costruirsi la propria sicurezza, fare solo i passi giusti al momento giusto, ma alla fine la propria felicità non la si decide a tavolino. È importante restare aperti al cambiamento e lasciare spazio anche all’intuito: quello che attiri prima o poi lo incontrerai.
Hai dichiarato: “Il teatro mi ha liberato dal ruolo di brava ragazza con il cerchietto”. Eri troppo santa prima o molto ribelle adesso?
Il cerchietto è sempre lì a minacciarmi. È il simbolo di quell’idea, squisitamente patriarcale, che ha accompagnato tutta la mia giovinezza: per meritarsi le cose, bisogna essere delle brave ragazze. Per molto tempo non mi sono quindi permessa di dire: “No, questo non mi sta bene”. Non che ora vada a mettere le bombe in giro, ma ho smesso di abbozzare. Il teatro in tal senso è una palestra fantastica, dove puoi osare dire qualsiasi cosa.
Sei soddisfatta del percorso fatto fino a qui o pensi che avresti meritato più visibilità?
Onestamente mi sento un’artista in esilio: non ho accesso a certi mondi narrativi. Non so perché. Si tende a dividere gli attori per universi e da un po’ di tempo al cinema – in tv per fortuna è diverso – non ho accesso a film che non siano commedie. Per carità, è un genere che adoro, mi diverte, ma da attrice scalpito: mi sento come una macchina a cui romba il motore. Vorrei correre di più, ancora più veloce. Ma forse è solo per via della mia ipercosa.
Prego?
Filippo Timi ed io ce la siamo autodiagnosticati anni fa. La ipercosa è una sorta di smania come condizione esistenziale: vivo bene nell’esplicitazione esagerata e non so stare nella diluizione. Ti faccio un esempio?
Meglio, grazie.
Da bambina, alle elementari pensavo: “Se invece di andare a scuola, tornare, fare i compiti e poi giocare, mi mettessi a scavare con una paletta, arriverei dall’altra parte della Terra?”. Avevo questi pensieri di verticalità, di esagerazione. Sono quindi molto in tema con il film Una terapia di gruppo, e mi piace che una commedia abbia provato a misurarsi con una tematica così importante come la salute mentale. Purtroppo oggi c’è ancora molto retorica.
Come quando il tuo personaggio insiste a definire “persone speciali” i pazienti?
Sì. Nel caso di Sonia, lei lo pensa davvero, non c’è compatimento. In generale però dilaga la retorica delle “persone speciali”: più che il desiderio di inclusione è un’espressione che tradisce il disorientamento di chi la usa. Non sapendo come gestire alcuni temi, li incaselliamo in categorie semplici, per orientarci e non sentirci persi. Invece, come diceva il drammaturgo tedesco Georg Büchner – occhio che sto per dire una frasona –, “ogni uomo è un abisso, vengono le vertigini a guardarci dentro”. La retorica uccide tali vertigini che invece sono preziosissime. E poi ormai sembra che sia più importante dire le cose che non farle: in pandemia abbiamo ribattezzato i medici “nuovi eroi” e a oggi non hanno ricevuto un euro in più. Dopo la morte di Giulia Cecchettin ci aspettavamo grandi cambiamenti, invece non è stato ancora fatto alcun intervento per l’educazione sentimentale dei ragazzi.
La pellicola Una terapia di gruppo promuove l’idea che si inizi a stare meglio quando si pensa agli altri, anziché a se stessi. Non la si farà troppo facile?
No, perché questa idea non è proposta come la soluzione al problema, bensì come un fatto di prospettiva. Si invita a spostare l’asse e a non provare vergogna per i nostri eccessi. È un modo per ritrovare coraggio e relativizzare i problemi.
In Nudes affronti il tema del revenge porn, nel Sen(n)o accendi i riflettori sulla precoce sessualizzazione delle adolescenti. Sei tu che ti vai a cercare le ansie nel mondo o è il mondo a esserne sempre più pieno?
Sono aumentate le possibilità e, con esse, anche i rischi. Prima di Nudes non conoscevo l’emergenza del revenge porn: l’ho approfondita quando mi hanno proposto la serie e sono rimasta allibita. Nel caso invece del Sen(n)o, ho personalmente voluto adattare il monologo inglese da cui è tratto: appena l’ho letto, l’ho trovato attualissimo. Per la prima volta ho scelto di fare uno spettacolo spinta proprio dal desiderio di prendere posizione. Non sono un’opinionista, il mezzo che ho è il palco e quindi ho deciso di usarlo. Anche perché non è uno strumento retorico: non propone mai una morale, una soluzione.
Nel Sen(n)o si parla di una mamma che accoglie la richiesta di sua figlia di avere una quinta di reggiseno. Il corpo delle donne è sempre stato oggetto di dibattito e di contendere. Quale aspetto ti preoccupa o ti fa riflettere maggiormente?
Mi spaventa questa idea molto ristretta del femminile: ci impongono un certo tipo di immaginario, ancora funzionale al piacere, e questo mi agghiaccia. Ci hanno tolto la fantasia. L’approvazione del mondo passa per il nostro aspetto fisico e questo vale soprattutto per i giovani. E poi ci sono le derive come OnlyFans.
Ormai è usato tantissimo: rischia di diventare il nuovo sistema di pensione integrativa?
OnlyFans risolve sicuramente un problema economico, e pure in modo facile, ma ti induce a cambiare il tuo rapporto con il corpo. Chi sta su questa piattaforma si fa chiamare creator, però di fatto stiamo parlando di un sexual job. Per carità, va benissimo, ma chiamiamo le cose con il loro nome, anche perché la vendita del proprio corpo è un tema etico serio, che imporrebbe delle valutazioni. La mia impressione è che la società stia andando in questa direzione, senza che ci sia un reale dibattito a riguardo.