«Per me la serialità è un punto di arrivo, non come per tanti un dio minore», mi dice a un certo punto della nostra chiacchierata Ludovico Bessegato. E si capisce, gli dico io più volte, dalla dignità cinematografica con cui scalpella ogni aspetto: la scrittura, la direzione degli attori, la scelta delle musiche, le invenzioni nelle inquadrature. Sì, l’intervista è lunga, lunghissima (una sorta di tradizione, insieme non andiamo mai sotto i 60 minuti), ma mi sembrava essenziale affrontare il più possibile tutte le sfaccettature (pardon) di Prisma. E di una seconda, attesa stagione (dal 6 giugno su Prime Video) che si fida della narrazione, lascia parlare le immagini, non ha mai paura dei vuoti, anzi, se li gusta, anziché cercare la frase ad effetto come vorrebbero gli stilemi del teen drama. Eppure va come un treno (chi vedrà, capirà), con il ritmo (realistico) della vita dei 16enni a scandirla passo passo.
E tutto questo perché Prisma un teen drama non lo è più, forse non lo è mai stato, nella sua anima di romanzo di formazione che l’adolescenza (ma non solo) vuole raccontarla con il respiro anche corale della saga. Certo, ci sono Andrea (Mattia Carrano) e Daniele (Lorenzo Zurzolo), ma ci sono anche gli altri ragazzi di Latina, ognuno alle prese con il proprio piccolo mondo, che sempre più spesso sembra impossibile da affrontare. C’è più concretezza, più trama, come spiegherà anche Ludovico, ma mai a discapito di una certa poesia: «Non capisco perché un prodotto seriale sui ragazzi debba essere fatto in modo diverso da un gran bel film». Sbam.
Partiamo da quell’ispiratissimo finale sull’autobus, che poteva aprire a tutto e a niente. Senza fare spoiler, come hai ripreso le fila del discorso?
Non sapevamo molto di quello che sarebbe successo dopo. Ed era così anche per SKAM: a parte le quattro stagioni che esistevano già e che non io guardavo mai prima di doverle adattare. Un approccio che può anche essere sbagliato, però piace anche a me essere stupito.
Si vede in Prisma, sai?
(Sorride) Sapevamo che ci sarebbe stato qualcosa dopo tra Daniele e Andrea, che il loro rapporto poi avrebbe creato “problemi”, però non sapevamo esattamente quali. Non sai nemmeno se hai la possibilità di andare avanti, anche se devo dire che Prime Video e Cross Productions in realtà sono state molto solerti, appena abbiamo consegnato le puntate della prima, a quasi un anno dal rilascio, ci hanno detto subito di andare avanti prima ancora di vedere come sarebbe andata. C’è stata molta fiducia.
Ma come hai deciso da dove ripartire?
Sapevo che non volevo riprendere esattamente da lì, anche per mantenere quell’aspetto che era stato così specifico di Prisma, il ricorso continuo al flashback. Però non c’era più una backstory da scoprire, e così, per le tre settimane da quando li abbiamo lasciati sull’autobus a quando li ritroviamo, abbiamo deciso di attingere un po’ ai flashback, giocando sull’aspettativa, visto che del finale si era parlato parecchio. Prisma è – giustamente – molto Daniele e Andrea oriented nelle attese e nei commenti da parte dei fan, però c’è stato uno sforzo grandissimo da parte nostra in questa stagione nell’ampliare il racconto dei personaggi: oltre a loro due, che sono essenziali, c’è quello che è successo Carola, quello che pensa Marco, quello che sta vivendo il gruppo rap…
Sì, questa seconda stagione mi è parsa, sia dal punto di vista della scrittura che poi della regia (e ne parleremo meglio) veramente corale, come forse in maniera così imponente non avevi ancora mai fatto.
Totalmente, SKAM è una serie in cui, per statuto, ogni stagione può parlare solo di un personaggio. Nella prima stagione di Prisma avevamo già provato a modificare questo impianto ed era anche il motivo per cui mi interessava fare questa serie. È la sfida contenuta nel titolo stesso: provare a non raccontare più l’adolescenza un personaggio alla volta, ma tutti insieme, perché un singolo aspetto non può racchiudere tutta un’esperienza. E in più parlare di un personaggio solo alla volta – come ho fatto in passato – costringeva a un certo punto a chiudere le sue vicende nell’arco di una stagione.
E questo cozza un pochino con il realismo, che è un altro dei tuoi tratti distintivi?
SKAM è qualcosa di straordinario e che ho amato moltissimo, però alla lunga ho iniziato a sentire la fatica del meccanismo. Prisma invece è una serie completamente orizzontale, dove per fortuna non abbiamo il problema di dover chiudere Andrea dopo otto puntate, anzi, alla fine della prima stagione abbiamo aperto ancora di più il suo personaggio. E vale per tutti: Daniele, Carola, Nina, Marco… Questo ci permette anche di superare il problema del rinnovo delle stagioni: una serie che complica sempre le cose, che non deve mai sistemare tutto a fine stagione, è sempre viva e non deve affrontare nuovi inizi ogni volta.
Mi sembra che Prisma segua la vita dei 16enni, sia nella sua complessità come dicevi tu, che anche nel passo. È ovvio che tu decidi che cosa far vedere e che cosa no, però c’è un ritmo che è proprio quello del quotidiano dei ragazzi, ti prendi i tempi per raccontare tutto e tutti.
Sì, assolutamente. Abbiamo cercato di aumentare un po’ la velocità degli eventi, perché la prima stagione era molto contemplativa, si prendeva dei tempi per delle digressioni che io rivendico, che erano anche il tentativo di introdurre degli elementi veramente da cinema. Non rinnego quell’approccio, ma i fatti che volevamo raccontare nella seconda stagione erano così tanti, che a un certo punto gli spazi per quelle anse si sono necessariamente ridotti. Però non abbiamo mai snaturato l’idea di fondo delle scene. Nella mia scrittura e nel mio modo di girare, le cose importanti che succedono nelle scene raramente sono affidate alle parole. Le parole esistono perché le persone parlano, ma abbiamo cercato il più possibile di fare in modo che non fossero quasi mai l’elemento attraverso cui si muoveva la serie. Carola che parla con la madre del fatto che c’è una balena fuori dalla finestra non è importante, lo è invece lo stato d’animo che comunicano quella posizione, quella postura, quello scambio. E per poter riuscire a cogliere i dettagli c’è bisogno di tempi più dilatati. In un’intervista della settimana scorsa, mi ha fatto ridere Zurzolo che diceva: “È difficile recitare le frasi di Ludovico, perché i personaggi non si spiegano mai”. Verissimo, però allo stesso tempo è il motivo per cui ho scelto dei bravi attori: ho affidato alla loro espressività il compito di descrivere quello che pensano. C’è bisogno però del tempo. Se io faccio una serie dove il personaggio dice: “Mi piace Andrea”, basta, è finita Prisma. Per un personaggio come Daniele, che non ha confidenti e comunque non ha la confidenza per dire ai suoi amici quello che prova, quelle emozioni si raccontano con una tensione.
C’è quel will-they-or-won’t-they che accompagna tutti gli episodi e ci sono una profondità, delle sfaccettature incredibili nel lavoro di Lorenzo e Mattia. Come ci siete riusciti?
Mattia ormai è talmente a suo agio nella dimensione dei due ruoli che non ci pensa nemmeno più, ma è davvero notevole. E non bisogna nemmeno dare per scontata la generosità con cui entrambi si sono abbandonati alla storia. Mattia e Lorenzo hanno fatto delle grandi performance, pensiamo anche a chi sono, a quanto siano lontani dai loro personaggi, e non sto parlando di orientamento, ma proprio di indole: Lorenzo è un ragazzo perbene di Roma Nord ed è credibilissimo nell’interpretare Daniele. Però ci tengo a ricordare il lavoro serissimo di scrittura lungo più di un anno e le interpretazioni degli altri ragazzi, le loro storie, che sono altrettanto importanti. Scrivere Daniele e Andrea è stato facilissimo, mi muovevo su un territorio che conoscevo, il grandissimo sforzo è stato invece nel costruire storyline che per me sono più inedite: raccontare come quello che è successo a Carola nella società di oggi per fortuna possa cambiare di senso e diventare quasi un elemento di fama, che le provoca una sindrome dell’impostore. Così come non è mai stato descritto un amore come quello tra Nina e Akemi, con il tema della differenza di età in una relazione omosessuale che produce omofobia interiorizzata nelle persone che formalmente si dicono invece vicine alle istanze delle persone LGBTQ+. Trovo meravigliosi anche Vittorio e Ilo: Lxxblood e Matteo Scattaretico hanno saputo dare uno sprint, un’energia senza diventare mai macchiette. Trovo sempre stupenda la Nina di Carolina Sforza, Akemi vede Elisa Qiu Tian Scenti al suo debutto, una ragazza di 14-15 anni che secondo ha davvero un futuro davanti e anche Asia Patrignani, sua sorella Jun, è molto brava. Chiara Bordi si è messa in gioco tantissimo con Carola e nel racconto della complessità del suo personaggio. Voglio ricordare Francesca Bellucci nei panni di Marica, l’allenatrice, che ha un ruolo non di primo piano. Perché poi ok, l’adolescenza, però abbiamo cercato di raccontare, spazio permettendo, anche la complessità degli adulti che si muovono intorno ai ragazzi. E non voglio dimenticare Andrea Giammarino che interpreta Jacopo, il ragazzo F2M, che è davvero una persona F2M: l’ho conosciuto perché ho letto un articolo su Repubblica che parlava di lui e del fatto che avesse fatto una battaglia a scuola per ottenere la carriera alias. Ho visto che aveva una bellissima energia e l’ho coinvolto come attore: nella serie si opera ed è qualcosa che avrebbe poi realmente fatto due mesi dopo nella vita, è stato generosissimo e ha fatto tutto con grandissima gioia e, secondo me, un grande risultato.
La storia di Carola quindi anche il focus sui social, sul giornalismo, sul revenge porn, il discorso della fluidità ovviamente, la carriera alias… Io lo so che tu non ami mettere etichette a quello che fai, però se questa serie non è politica in questo momento, non so cosa lo possa essere.
Capisco quello che vuoi dire, non sei la prima persona che mi mette di fronte a questo discorso. E forse avete ragione voi, forse sono io che per fare l’anticonformista sfuggo questa parola. Potrei dire che, sì, racconto cose che dal mio punto di vista sono molto importanti… Però allo stesso tempo abbiamo dei personaggi che a un certo punto diventano dei corrieri della droga per la mafia e altri che tradiscono, anche in modo squallido. Quasi nessuno dei personaggi di Prisma è edificante. Pensa a Daniele, fa delle scelte molto discutibili. Carola addirittura protegge una persona dalla legge. E non c’è necessariamente una catarsi.
Però quello fa parte anche di un’umanità, il bello dei personaggi di Prisma è che hanno una complessità tale per cui dentro ci rivedi il mondo, no?
Non voglio sfuggire alla tua domanda, però in questi anni ho osservato con grande affetto e attenzione questa generazione e ho cercato in modo molto personale di mettere dentro quello che ho visto: una grande energia e vitalità, un certo rifiuto per i grandi temi, una certa promiscuità morale, una certa fluidità. Poi magari scelgo quello che mi colpisce, che mi diverte e mi interessa di più, o che banalmente fa più trama, anche perché magari c’è una cosa che mi permette di raccontare un conflitto un po’ nuovo, un angolo diverso. Ho smesso di pensare che attraverso le serie si possa influenzare il dibattito.
Infatti non ci trovo nessuna intenzionalità esibita, però nello stesso tempo, parlando oggi in questo modo dei ragazzi, essere politici è inevitabile, non credi?
Il modo in cui la rappresentazione delle storie fino a pochi anni fa ha creato una società plastica che non esisteva, fatta di persone abili, bianche, cisgender, bellissime, e ha persuaso le persone – me compreso – che esistesse solo questo tipo di mondo è stato un errore su cui tutti quanti ci dobbiamo interrogare. Iniziare a porsi il problema e pensare di prendere 20 ragazzi e ragazze per dipingere un po’ questa generazione, cercare di essere il più possibile inclusivi e mostrare davvero quello che succede, questo sì, ha una connotazione politica nel momento in cui fa assumere a me che parlo a – speriamo – milioni di persone l’idea che c’è una responsabilità sociale e politica in quello che racconto. Non c’è nessuna intenzione di educare, ma il chiedersi se la propria rappresentazione sia davvero in qualche modo uno specchio della società, e quella certamente è una scelta politica, non voglio nascondermi.
L’altro aspetto su cui stavo riflettendo è che trovo riduttivo definire Prisma un teen drama (Ludovico mi fa un cuore con le mani). Come dicevi tu la stessa Marica sta cercando di capire come vivere la sua vita, i genitori stanno cercando di capire come approcciare ‘sti ragazzi… E il racconto stesso degli adolescenti supera in qualche modo gli stilemi, i dogmi del teen drama, per diventare qualcosa che secondo me si avvicina molto al cinema.
Ti ringrazio tantissimo, perché è quello che cerco. Ci avevamo iniziato a ragionare già con Alice (Urciuolo), una delle mie vecchie note di regia era: perché l’età deve diventare un genere e perché questo vale solo per la fascia degli under 18? Chiediamo ai 16enni di studiare latino, greco, letteratura italiana, filosofia per gran parte della loro giornata, però nel momento in cui dobbiamo raccontare le loro storie, pensiamo di doverle semplificare, banalizzare, melodrammizzare… C’è un ageismo fortissimo della nostra società nel pensare che una persona sotto i 20/30 anni non abbia la capacità di accedere a temi complessi. Grazie a SKAM, che ha teorizzato questo molto prima di me, ho capito che la storia di un sedicenne e la storia di un trentenne possono essere raccontate nello stesso modo. Se io adesso dovessi fare un film su una persona di quarant’anni, lo farei nello stesso modo in cui faccio Prisma, non c’è da parte mia un approccio diverso o semplificato nello scrivere le battute, mettere le musiche o immaginare le cose perché è un prodotto per ragazzi. Quindi per me Prisma non è un teen drama, come dicevi giustamente tu, rifiuta tutti gli stilemi che quel genere si è creato: tipo la protagonista o il protagonista timido e in difficoltà che va a scuola, ci sono i bulli e c’è la persona bella, cattiva, impossibile che all’inizio lo/la tratta male e poi piano piano si avvicinano e si innamorano… Ho cercato di lavorare in un’altra direzione anche con l’aiuto di Alice, che nel frattempo stava affermando un suo percorso autonomo di scrittrice di romanzi di successo, vedi Adorazione, che è arrivato in dozzina allo Strega. Insieme abbiamo deciso di dare un taglio da romanzo. Ecco, consideriamo Prisma un romanzo di formazione, una saga, quindi un racconto complesso con un intreccio complesso, una scrittura ricercata.
Questo può essere un rischio?
Esatto, il punto è: alzando un po’ il tiro, cercando la complessità, evitando di sbattere in faccia subito allo spettatore il protagonista e l’antagonista, che sono comunque elementi che coinvolgono prima e più velocemente, non si rischia di perdere un po’ la presa sul pubblico largo? La sfida è stata questa: cercare di sfruttare la credibilità che ci siamo costruiti in questi anni per provare a portare questo tipo di prodotti a essere sempre più ambiziosi, sperando che il pubblico ci segua anche se gli chiediamo un pochino più di fatica, senza però chiaramente imporre niente, senza diventare autori tanto per esserlo o essere noiosi perché fa figo, cioè noi raccontiamo quello che vogliamo, cerchiamo anche di essere pop e divertirci, però cercando di ridurre quella distanza che per noi non esiste, per cui un prodotto seriale per ragazzi deve essere fatto in modo diverso da un gran bel film.
A proposito di cinema: Prisma 2 è una serie più che mai di regia, ci sono tante invenzioni che le danno una dignità cinematografica, molta voglia di lasciar parlare le immagini, di trovare delle inquadrature che abbiano una poesia, una personalità. Mi vengono in mente le soluzioni che hai trovato per i tanti baci (no spoiler), come quello in treno, o gli sguardi attraverso il falò.
Sicuramente è qualcosa che a cui ho sempre fatto attenzione, ho sempre cercato fin da SKAM di fare parallelamente un lavoro sulla scrittura, sulla recitazione e sulla musica, e di combinarle con un’attenzione all’immagine, alle inquadrature e alla messa in scena. E più passa il tempo, più ho controllo del mezzo. Forse la prima stagione era un pochino più ricercata, avevamo più tempo e meno cose da raccontare, e abbiamo potuto dedicarci a soluzioni visivamente ricercate. Se però non è resa necessaria da un punto di svolta dei personaggi – e questa è una grande lezione di regia prima di tutto per me – una soluzione visivamente riuscita diventa un po’ fine a se stessa.La seconda stagione, che magari mi ha costretto a volte a rinunciare a delle finezze stilistiche, risulta più di regia perché in realtà le situazioni a cui il nostro sguardo si poteva applicare le rendevano più evidenti. E non posso non condividere il merito con il direttore della fotografia, con l’operatore di macchina, persone con cui lavoro da tanti anni. E poi il montaggio… per esempio, quel bacio sul treno: io non avevo immaginato che arrivassero dall’altra parte delle gallerie, anche perché è molto complicato da realizzare. E stando lì col montatore abbiamo detto: ma secondo te riusciamo a farlo in digitale questo effetto? Ed ecco qua. Affinché tutto questo succeda però bisogna essere contornati da persone creative. Io ci metto la firma, sono il direttore d’orchestra, ma la bellezza di Prisma è che un’operazione collettiva, dove metto insieme tantissime belle idee e tantissime sensibilità.
Certo, però l’autore sei tu e c’è un’autorialità evidente: vedremo la tua cifra al cinema?
Ci stiamo lavorando. L’idea c’è, da tanto tempo, ma poi alla fine finisco sempre per rimandare, perché è difficile dire basta a Prisma. Se dovessero rinnovarci per una terza stagione, probabilmente dovrò aspettare ancora un po’… Il film c’è, devo solo aspettare il momento giusto per farlo. E non sarà un teen drama, per me non esiste nell’immediato la possibilità di fare un altro teen che non sia Prisma. Voglio anche esplorare altre fasi delle vita, perché dopo un po’ si inizia pure ad avere meno idee e meno cose da raccontare. Poi non si sa mai, magari arriva il progetto che sposta tutto. Ma ho altre cose in testa che vorrei raccontare, e spero di farlo presto.
Apriamo il capitolo musiche: senza arrivare all’approfondimento che avevamo fatto per SKAM 4, c’è una raffinatezza nella selezione che contribuisce alla dignità cinematografica del prodotto: non ci sono mai cose scontate, non ci sono mai forzature, ci sono pezzi che amplificano o che agiscono per contrasto, che è un po’ la tua cifra musicale, qui all’ennesima potenza. E non parlo solo di Lontano dagli occhi sulla scena clou o della Carrà alla festa.
È un aspetto che, come altri, curiamo da tanti anni, e ogni volta acquisiamo più di esperienza. Per dirti qualcosa di nuovo, innanzitutto rispetto alla prima stagione abbiamo avuto un pochino meno risorse. Parliamo sempre di un budget importante, ma mi è piaciuto perché quando si hanno troppe risorse si finisce per fare delle scelte magari più banali, mentre sempre di più mi accorgo di provare un piacere sottile nello scegliere delle canzoni poco conosciute.
Quindi ti piace proprio la ricerca?
Tutti possono usare canzoni molto famose e in qualche modo quella musica poi non si fonde più con la scena, l’hai sentita mille volte. Siamo stati costretti a fare più ricerca, a individuare due o tre artisti che hanno dato un boost pazzesco alla serie: tra i tanti cito Douglas Dare, che per ora non ha particolari numeri, ma che secondo me è bravissimo. Al di là di tutto, poi è diventata una scelta non solo economica: anche al pubblico piace ascoltare la playlist perché ci sono degli artisti che non ha mai sentito. E poi c’è un altro aspetto interessante: riguardando la prima stagione mentre preparavo la seconda, ho ripensato alla scena in cui Nina trucca Andrea. Per me era una delle più importanti, ai provini mi emozionava tantissimo. Invece, quando l’ho rivista, non mi è piaciuta. E mi sono dato questa spiegazione: che questo abuso che ho fatto del ralenti musicale a volte avesse l’effetto opposto a quello desiderato. Uno pensa che ralenti e musica aumentino la portata emotiva di una scena, e invece ho iniziato a chiedermi se in realtà non rendessero la sequenza troppo videoclip, la patinassero troppo e quindi allontanassero l’emozione. Ho usato molto meno il ralenti in questa stagione, in particolare per un momento molto atteso da tutti tra Daniele e Andrea (ridiamo per la difficoltà a non anticipare troppo) mi dicevo: “E ora che cazzo mi invento?”. Alla fine invece è la scena più semplice che abbia mai girato, e ho apprezzato il fatto che in quel momento si sentano il rumore dei respiri, il frinire dei grilli. Forse la più grande lezione che ho imparato da Prisma 2, dopo otto stagioni di questo tipo di serie, è che bisogna anche saperla non mettere la musica, perché in certi momenti questo rende la scena più vera e ti permette di osservarla meglio. Qui ho fatto l’esperimento di inserirla dopo, la sequenza è silenziosa e poi parte una traccia di Steve Stout, un altro bravissimo e pochissimo conosciuto. In un primo montaggio avevamo messo i Cigarettes After Sex e ci stavano benissimo, m era tutto troppo giusto,. E invece senza musica la scena ha davvero personalità, secondo me. A parte Rumore di Raffaella Carrà sulla festa perché aveva un senso, sto mettendo a fuoco l’idea di usare la musica solo quando serve e di renderla meno evidente possibile. Uno dei modi per farlo è non scegliere brani troppo famosi. Se ti accorgi troppo della musica c’è qualcosa che non va, vuol dire che sovrasta, bisogna concentrarsi sulle emozioni di quello che sta succedendo.
C’è una cosa che che non posso non chiederti. Nei giorni scorsi si è parlato molto di quello che ha detto il Papa durante l’incontro con i vescovi a porte chiuse, e nella serie c’è questo momento in cui Andrea si confronta con lo zio prete, che tira fuori la lettera scritta da Papa Francesco a una trans: “I pregiudizi fanno male, siamo tutti figli di Dio”. Ovviamente non è “invecchiata” benissimo e fa sorridere. Come la vivi?
Prima di tutto mi è dispiaciuto che abbia detto quella cosa, e poi che l’abbia detta proprio adesso, appena prima dell’uscita di Prisma. E questo ti dà l’idea della difficoltà che si ha a provare a essere up to date: provare a parlare della società di oggi è un errore, perché tu esci uno o due anni dopo rispetto a quando hai scritto qualcosa e nel frattempo la situazione può essere cambiata. Nello specifico: il Papa ovviamente non ha bisogno della mia difesa, né sono qui per difenderlo, però mi viene da dire che la cosa su cui forse abbiamo riflettuto in pochi è il fatto che abbia chiesto scusa. Che abbia detto quelle cose in assoluto è spiacevole, che le abbia dette in quel modo è spiacevole, però ci sono tante persone, ad esempio, che hanno deciso di chiedere le dimissioni del Presidente della Repubblica il 2 giugno e non ho letto le loro scuse. Leggo di tante persone che fanno dichiarazioni discutibili e tengono il punto fino alla fine. Il fatto che in generale la Chiesa rispetto a uno scivolone di questo tipo senta il bisogno di dire: “Chiediamo scusa, non lo pensiamo, accogliamo tutti” è comunque positivo; al netto della gaffe e della situazione spiacevole, la risposta io me la tengo. In realtà la spiegazione che hanno dato è ancora in linea con quella lettera, se ci pensiamo. Detto ciò, io sono ateo, non sono nemmeno battezzato, figurati, ma in generale il senso di quella cosa per me è che all’interno della Chiesa ci sono posizioni più complesse rispetto a quello che uno può pensare, che a volte è più facile trovare resistenza in persone come la mamma di Andrea. Il prete di strada, ad esempio, viene messo davanti alla realtà e tende a trovare soluzioni di compromesso molto più della mamma di Andrea, che sta quasi tutto il giorno chiusa in casa ed è molto più arroccata sulle sue posizioni. Quando tu sei messo a confronto con la realtà ti accorgi che, al di là dell’ideologia, ci sono le persone. E quando poi ci sono le persone di mezzo è tutto più complicato.
Again, non spoileriamo, però c’è un altro bel finale sospeso, che in qualche modo passa anche dall’action prima di arrivare a una chiusura simbolica: che cosa ci dobbiamo aspettare? Ci sarà una terza stagione?
Ovviamente non lo sappiamo. E questa è in assoluto la parte meno divertente di fare la serialità, non avere il controllo su quando bisogna mettere il punto a una storia. Ci sono serie a cui magari io personalmente avrei messo il punto un po’ prima e invece ci è stato chiesto di andare avanti, e serie che – non parlo della mia – sarebbe stato bellissimo vedere ancora, gli sceneggiatori avrebbero avuto un sacco di cose da dire e magari non c’erano i presupposti di ascolti per andare avanti. Nel dubbio, quello che faccio ogni volta è lasciare lo spazio in modo che, se dovessi andare avanti, non mi tocchi riaprire tutto e nello stesso tempo fare in modo che il finale, pur essendo aperto, possa avere un suo senso.
Senti, dove sta SKAM in tutto questo adesso? Perché poi le persone – e ne sei consapevole – lo vogliono sapere.
Da quello che so, e ormai sono passati sei mesi, non mi sembra che nessuno abbia chiesto di andare avanti. Penso che SKAM abbia esaurito il suo ciclo, però, per quanto riguarda me, ho preso la decisione già dalla quarta in poi di non girare più gli episodi, ma ho comunque dato la mia disponibilità a scrivere, a dare idee e il mio apporto a chi mi ha sostituito, e l’ho fatto con grandissimo piacere. Per me ovviamente Prisma è stato il futuro, per quanto riguarda SKAM bisognerebbe chiedere a Netflix e a Cross: da quello che so io, per adesso non ci sono stati avanzamenti. Però non si sa mai, non escludo che domani possa esserci qualcosa. Non ne so abbastanza, la verità è questa.
Quindi non resta che il cinema e quel “Directed by Ludovico Bessegato” sul grande schermo?
Io ne sarei davvero molto contento, nello stesso tempo però per me la serialità è un punto di arrivo, non come per tanti un dio minore.
Di nuovo, si vede dal modo in cui la fai.
Con SKAM e con Prisma ho potuto lavorare in condizioni meravigliose: mi hanno dato grande fiducia, anche quando c’era un po’ di preoccupazione rispetto al ritmo, all’evitare degli strumenti facili per catturare l’attenzione. E questo per me è enorme. Perché è sempre più difficile trovare quel tipo di fiducia, e lo capisco, ormai una serie per giustificare la spesa che si affronta nel farla deve garantire dei numeri molto, molto alti. E allo stesso tempo l’offerta sta aumentando, quindi è sempre più difficile concentrare i numeri quando ci sono sempre più prodotti. Giustamente spinge chi decide a dare sempre meno spazio a prodotti più personali perché ovviamente l’obiettivo è catalizzare, massimizzare l’interesse del pubblico. Da un altro punto di vista sono curioso di andare al cinema, perché mi sembra che sia uno spazio dove questa cosa invece può essere un pochino più semplice da fare, fermo restando – questo ci tengo a ribadirlo – che la mia esperienza personale con i broadcaster è stata di grandissima libertà. E se e quando mi verrà garantita questa libertà, per me sarà sempre un piacere anche fare le serie.