Luca Bernabei si diverte come un pazzo a fare quello che fa. E cioè a dare nuova vita, titolo per titolo, progetto per progetto (ci arriveremo), alla serialità italiana pop. Quando te lo racconta, nel giorno in cui Lux Vide compie trent’anni, con oltre 1.500 ore di programmazione in prima serata (per dare un po’ di numeri), è come se non ci fossero abbastanza parole per contenere quell’entusiasmo contagioso, quella dedizione totale: «Il nostro lavoro non lo puoi fare bene, se non è un po’ un’ossessione», confessa. Una meravigliosa ossessione, aggiungo io. Non potrebbe essere altrimenti, quando la società che guidi (e che vede oggi Luca nel ruolo di AD, con Andrea Scrosati come Presidente e Matilde Bernabei Presidente Onorario) è stata fondata nel 1992 da tuo padre, Ettore Bernabei, e quel fuoco ce l’hai nel DNA: «Non credo che ce ne siano tante di aziende italiane che sono state create da un uomo di 72 anni com’era lui all’epoca», ricorda Luca. «Invece di andare in pensione come – giustamente – tutte le persone a quell’età, ha sentito l’esigenza di fare qualcosa per il mondo delle televisione, che aveva amato dopo essere stato per tanti anni direttore generale della Rai. Mio padre diceva sempre: “Il mondo è pieno di acquedotti, ci vuole acqua pulita e fresca dentro”. Gli acquedotti sono i network e l’acqua sono i contenuti che noi continuiamo a produrre a distanza di 30 anni». Ancora adesso, più che mai, dietro ogni storia che viene pensata c’è sempre, SEMPRE, una domanda: «“Perché vogliamo raccontarla, qual è il motivo?” Non è mai soltanto per intrattenere. Il sogno di quest’uomo, che ha voluto fare una televisione di pensiero e per il grande pubblico, non di nicchia, è rimasta la strategia di Lux Vide». Un’idea imprenditoriale all’inizio, che è diventata poi un posizionamento di marketing fortissimo: «Sono due le nostre ragioni di forza in questo momento: il prodotto largo, che sia molto inclusivo, e questa grande voglia di formare giovani comunicatori. La Lux infatti è piena di giovani professionisti, sceneggiatori, registi, script editor. Noi li facciamo entrare nel gruppo creativo a 23-24 anni, li selezioniamo con un master alla Cattolica di Milano, dove arrivano da tutto il mondo. È gente che pensa televisione e lo fa in maniera nuova. Anche meglio di come posso pensarla io», sorride Bernabei.
Con una solida storia alle spalle e uno sguardo apertissimo sul futuro dell’industry, Lux Vide, che dal 2022 fa parte del gruppo internazionale Fremantle, è stata la prima casa di produzione italiana a importare il modello degli Studios americani e funziona come una vera e propria factory della serialità, dove spazi dedicati agli sceneggiatori, alla produzione, alla post e al commerciale, coesistono in un’unica struttura massimizzando l’efficienza di ogni divisione, esempio pressoché unico da noi: «Nasce da un’orgogliosa rivendicazione dell’esclusività della televisione, che è diversa dal cinema, dalla pubblicità, dal teatro. Sono tutte forme di comunicazione, ma la tv è un mestiere fortemente di squadra, che ha la necessità di comunicatori formati appositamente, senza fare l’occhiolino al cinema o al web. La televisione è un mestiere scientifico, c’è dietro molta sofisticazione». A questo punto Bernabei fa una piccola pausa e poi ci fa entrare idealmente in una writers’ room: «Ogni tanto abbiamo delle serie che si incagliano, magari hanno un problema creativo. E allora chiediamo ai capi scrittura dei nostri progetti di sedersi tutti insieme in una stanza, aiutare a individuare l’inghippo e a sbloccarlo. Qui parlano un linguaggio molto sofisticato, che una persona qualunque non capirebbe». Il soggetto viene sviluppato in queste writers’ room, il casting effettuato in-house, le riprese realizzate nei teatri di posa di proprietà, la post-produzione seguita internamente in tutte le sue fasi. «Tutti pensano un po’ che noi siamo dei “simpaticoni” che fanno le televisione e che Don Matteo sia un prodotto semplice, e invece ci lavoriamo come fossimo ingegneri che devono disegnare la campata di un ponte, c’è una ricercatezza enorme nella televisione, perché i telespettatori sono diventati estremamente raffinati e viziati da serie americane che costano quattro volte quello che abbiamo noi come budget». Come si dice, trasformare un “limite” in opportunità, anzi, in sfida: «Dobbiamo trovare la maniera di andare a trovarci il nostro pubblico, con molti meno soldi e risorse, ma sicuramente con più creatività».
La chiave irrinunciabile dunque è quella della sperimentazione audace nei generi più diversi: per intenderci, dalle nostre parti un medical drama del calibro di DOC – Nelle tue mani non c’era mai stato, un financial thriller (italiano e allo stesso tempo internazionale) come Diavoli non s’era mai visto, per non parlare di Blanca, che è a un livello di innovazione ancora maggiore perché usa proprio un linguaggio inedito: «Ci siamo spinti parecchio in avanti perché pensiamo di dover creare un prodotto che vada in giro per il mondo e, per farlo, dobbiamo essere super innovativi e andare per generi – come hai detto benissimo tu –, perché abbiamo bisogno che li comprino all’estero. Noi cerchiamo di finanziare le nostre serie con soldi che arrivano dall’Italia per poi farle comprare e portarle ovunque. Poi certo, ci sono anche prodotti italiani, e penso a Che Dio ci aiuti, a cui siamo molto affezionati perché dice cose molto belle, parla della spiritualità delle persone, che non potremo mai vendere fuori». Diavoli e Blanca invece sono esemplificativi della strategia di cui parlavamo: se nel primo titolo, starring Patrick Dempsey e Alessandro Borghi, «ti racconto quello che non sai sulla finanza, e in questo Guido Maria Brera è stato geniale, ha aperto delle strade», il secondo è un crime dall’anima funk su un’aspirante consulente della polizia non vedente interpretata da Maria Chiara Giannetta,: «Un paio di settimane fa abbiamo iniziato a girare la seconda stagione. Quest’anno abbiamo costumi incredibili, siamo passati dai manga giapponesi, abbiamo spinto ancora di più. Gli attori ormai conoscono i loro personaggi: i duetti tra il vicequestore Bacigalupo e Blanca fanno morire dalle risate, non sono per niente politically correct, e il crime è un pochino più duro». “Però dietro Blanca cosa c’è?”, chiedo, e Bernabei risponde: «Siamo tutti un po’ Blanca, come mi ha detto il mio amico Massimo Gramellini: “Ogni mattina tutti ci alziamo dal letto, ci carichiamo sulla nostra sedia a rotelle invisibile e andiamo incontro alle nostre giornate”. Tutti dobbiamo combattere contro qualcosa, ma le persone come Blanca sono dei supereroi perché devono combattere ancora di più. Ed è bellissimo quando qualcuno ti incoraggia. Ecco, questa è l’estrema sintesi di quello che facciamo: ti diciamo che è possibile. Non lo dico per furberia e per captare la benevolenza dello spettatore, ma perché è quello che mi ha insegnato mio padre: dare speranza». E speranza non è un parola banale, oggi meno che mai. «Diamo speranza con DOC, ad esempio, quando mostriamo medici che fanno bene il proprio lavoro, sono i dottori che vorremmo avere noi».
È importante sottolineare che parliamo di serie presentate agli LA Screening o che sono state vendute in almeno in 100 Paesi, «con una modalità in cui il rischio dell’imprenditore è altissimo: noi produciamo con soldi italiani, e se la serie non funziona è un problema, perché non guadagniamo. Però la paura è sempre un gran motore e ci spinge a fare cose molto innovative. Il risultato è che Blanca viene vista dal Giappone alla Corea. Ogni tanto mi arrivano delle clip doppiate nelle maniere più incredibili. Per esempio, in Francia praticamente hanno sostituito Grey’s Anatomy con DOC, chi avrebbe mai potuto immaginare un successo del genere. Queste due serie devono molto al loro regista Jan Michelini, che ha creato per entrambe un look esplosivo, moderno e internazionale».
Per fare tutto questo Lux ha messo insieme una scuderia di attori pazzesca, nomi fortissimi, professionalità indiscusse: da Luca Argentero, Can Yaman e Elena Sofia Ricci, da Raoul Bova a Maria Chiara Giannetta, da Pierpaolo Spollon a Matilde Gioli: «Lavorare alla serialità lunga vuol dire svegliarsi tutte le mattine alle 5:30 per otto mesi e andare sul set, se non hai gente che è disposta e che è in grado di farlo, poi succede che esplodono i set. E sono disastri incommensurabili». In qualche maniera c’è un fil rouge che unisce tutti questi talent: «Sono persone che hanno dentro qualcosa di speciale, hanno un senso di devozione per questo lavoro, un amore particolare. E rieccola, quell’ossessione meravigliosa di cui parlavamo all’inizio; «Spollon, Argentero, Bova sono tre uomini molto diversi, ma sono accomunati tutti da un professionismo maniacale. Dico la cosa più banale della terra, ma non arriveranno mai sul set senza sapere le battute, la sera vanno a letto presto, fanno vite da monaci per tenere questi ritmi, come anche Maria Chiara, Matilde. E poi la tecnica che usiamo è sempre questa: cominciano a entrare in Lux, fanno qualcosa e poi piano piano hanno sempre più spazio. Vedi la Giannetta: ha iniziato con Don Matteo, poi ha fatto Buongiorno, mamma! (la seconda stagione è strepitosa con due top attori, come lei e Bova, e una sorpresa all’inizio della serie) e Blanca da protagonista assoluta, Questo non sarebbe stato possibile se noi avessimo agito in maniera “rapinosa”, cioè prendi l’attore che ti serve al momento e lo metti lì. Loro crescono con noi e noi cresciamo con loro. Ci vogliamo veramente bene, perché questo è un lavoro troppo complesso per non affrontarlo così».
Nel presente e nel futuro di Lux ci sono tanti, tantissimi progetti. Partiamo da quello che vedremo già il 7 dicembre: «Odio il Natale, la nostra prima serie originale per Netflix, è una riflessione sulle festività molto femminile, molto comedy, con Pilar Fogliati». In questo momento, poi, Lux è sul set di tre titoli: le nuove stagioni di Che Dio ci aiuti, Un passo dal cielo e Blanca. Ma non solo: «Dovremmo partire a settembre con Costiera, un soft crime ambientato proprio in quel luogo meraviglioso dell’Italia di cui gli americani vanno pazzi, ma stiamo ancora lavorando al nostro Sandokan, c’è nuovo concept di serie per Mediaset, siamo già alle prese con DOC 3 e stiamo preparando un legal internazionale. Abbiamo sempre avuto paura del genere perché il nostro sistema giudiziario è farraginoso, complesso, mentre ormai in Italia abbiamo grandi studi che hanno in sé tutte le discipline della giurisprudenza e non hanno nulla da invidiare a quelli statunitensi, quindi si può fare. Dobbiamo un po’ superare questa timidezza italiana, questo non sentirci all’altezza a volte ed essere orgogliosi di quello che siamo».
E poi c’è il sogno nel cassetto di Bernabei: «Anni fa comprai i diritti di questo libro di un professore di scuola milanese, Bianca come il latte, rossa come il sangue. Ci ho messo tantissimo a convincerlo e adesso stiamo lavorando a una serie young adult che sia aspirazionale. Credo che le serie per ragazzi siano – passami il termine – sentimentalmente pornografiche, usino cioè i ragazzi per guardarli nei loro aspetti più facili: la sessualità, la violenza… Io, che ho sei figli tra i 25 e i 9 anni e mi interesso di ragazzi sia per lavoro che come padre, penso che in loro ci sia una fortissima componente romantica, idealistica. È l’essenza della gioventù, che viene poco raccontata perché è molto più difficile. Noi stiamo pensando a qualcosa che renda più giustizia a quel momento della vita. Sognare adesso sembra impossibile perché il mondo ti urla: “Andrà tutto male”. E invece bisogna continuare a farlo perché che adolescenza è, se non si sogna».
Secondo Bernabei, lavorare per la tv comporta una grandissima responsabilità: «Comunicare è bello, divertente, ma dobbiamo riflettere molto quando raccontiamo le nostre storie. Niente deve essere troppo esposto: Blanca non ti dice in continuazione che tu puoi superare la tua incapacità, però ti far stare bene, ti fa sorridere, e quel messaggio passa quasi senza nemmeno che tu te ne accorga. Noi comunicatori dobbiamo essere consapevoli che il pubblico va enormemente rispettato. Credo che le persone lo percepiscano e siano contente di vedere le nostre serie. E speriamo che continuino a farlo».