A vederla inquadrata su Zoom, Maïwenn corrisponde immediatamente all’idea dell’Autrice Francese (maiuscolo) che si ha in mente. Occhiali da sole, capelli con le beach waves naturali mica fatte dal parrucchiere, camicia bianca del tipo Sharon Stone agli Oscar, sullo sfondo un cassettone antico, dei fiori credo secchi, un preciso scorcio di bohème però levigata. Maïwenn è Autrice Francese che, nel gergo della gente che va ai festival, è sempre divisiva. Il titolo più noto è Polisse, sguardo embedded sulla polizia parigina che s’occupa delle robe brutte che capitano ai bambini; in Italia più di recente è arrivato anche Mon roi – Il mio re, melodrammone con Vincent Cassel e l’amica Emmanuelle Bercot.
Ho gradito con riserva Polisse, per quanto determinante per una certa nuova Vague francese, m’è piaciuto molto questo DNA – Le radici dell’amore che arriva adesso (dal 28 agosto su SkyCinema): era tra i film con l’etichetta Cannes 2020 che non c’è stato. Maïwenn, che è spesso se non sempre nei suoi film, qua è protagonista totale, affezionatissima nipote di un anziano signore d’origine algerina che muore all’inizio del film (bellissime le scene tra ospizio e funerale, e soprattutto la sua organizzazione), innescando la ricerca del seme che ha piantato l’albero, tra storia privata e politica, tra Parigi e il Nordafrica. C’è un passo tipicamente francese, ci sono Fanny Ardant e Louis Garrel, c’è gente che urla e litiga e forse non farà mai la pace, c’è anche tanto narcisismo però ben calibrato, maturo. C’è, soprattutto, quella cosa che la solita gente festivaliera chiama la pancia, è tutto molto istintivo, dolce e rabbioso, talvolta imperfetto ma sempre sincero.
«Ho voluto girare il film in poco tempo e con una troupe molto ridotta, anche perché avevamo pochissimi soldi», mi dice lei dalla finestrella sullo schermo. «L’idea era ritrovare quel senso di libertà che avevo provato dieci anni fa, quando ho diretto il mio primo film (Pardonnez-moi, del 2006, nda). Ma fin dal primo giorno sul set ho capito che, nonostante le condizioni logistiche uguali, quella sensazione degli inizi non l’avrei ritrovata. Ormai avevo fatto un po’ di strada, i miei film avevano avuto successo, perciò la troupe, anche se era fatta di persone che mi conoscevano, non mi guardava più con gli occhi di un tempo: ero una regista, non più un’esordiente. Lì ho capito che non avrei potuto ritrovare l’emozione del debutto. Mi sono sentita molto più libera quando ho girato i miei primi film, perché non c’era nessuna aspettativa: eravamo tutti insieme, c’era una dimensione più corale, di squadra. Adesso le persone si aspettano qualcosa da me, il che mi fa sentire molto più sola. All’improvviso sei “la regista”, e la regista deve sempre sapere cosa vuole fare e dove vuole andare, mentre io a volte non lo so. Vorrei ancora essere libera di sbagliare, e vorrei che le persone della troupe mi mettessero in discussione, che mi facessero cambiare idea».
Libera invece è Neige, il suo personaggio nel film, che per ritrovare il Dna vero e figurato del titolo compie gesti folli, che vanno contro la famiglia, che spezzano gli equilibri. È uno di quei personaggi che ti stanno facilmente sul cazzo, e che dunque ti piacciono moltissimo. E una donna che sembra ribadire quanto, quando si ha a che fare con la famiglia e le sue irragionevolissime ragioni, ci si senta ancora più soli. «Adoro parlare della famiglia, è un terreno sempre fertile, ti permette di scrivere tantissime storie. Mi ispirano i legami famigliari, sì, ma poi mi dico che sono legami umani, punto. Per parlare di lutto, però, devi per forza parlare di famiglia, e se la gestione è complicata è perché quella famiglia ha sempre funzionato male. Quando i genitori fanno i genitori, certe cose non accadono. Neige non sarebbe così devastata dalla morte del nonno, se avesse avuto un’infanzia serena. Lui era l’ultima cosa che la proteggeva come una bambina. All’improvviso capisce che non sarà più protetta da niente e da nessuno».
C’è una sequenza ai limiti del surrealismo con un pranzo, sempre di famiglia, in cui compaiono serpenti sopra il tavolo, e tutti si mettono a fare cose strambe come fosse una sfrenata improvvisazione, e allora dico a Maïwenn che mi ha ricordato certi momenti di Rivette, molto rivisto durante i lockdown passati (Céline e Julie vanno in barca, per esempio). «Mi piace moltissimo, amo tanti autori francesi, ma non m’ispiro a nessuno in particolare. Ho la mia scrittura, il mio universo, il mio modo di girare. M’ispirano di più i romanzi dei film, ti lasciano più libertà di creare un immaginario».
Siamo alle visioni pre, durante e post pandemiche. «Stamattina ho visto Un autre monde di Stéphane Brizé, con Vincent Lindon (sarà in concorso alla prossima Mostra di Venezia, nda). Brizé è un regista che ama la vita. Ho sempre pensato che esistono due tipi di registi: quelli che non amano la vita, e fanno film solo per sublimare qualcosa; e quelli che invece la vita la amano, e vogliono condividere con gli spettatori la loro visione della vita. Amo la vita e i suoi imprevisti, belli o brutti che siano. Amo la danza, l’opera, la pittura, la musica, qualsiasi genere di qualsiasi disciplina artistica. Ho bisogno di vedere e di esprimermi, se no mi sento incompleta. Ecco, io mi sento più vicina ai registi che amano la vita».