La nostra chiacchierata sarà cominciata da tre minuti, quando squilla il telefono. È la mamma, e alla mamma Marcello Fonte risponde sempre. In calabrese stretto. Provo a tradurre: «Mamma, sono a Milano, sto facendo un’intervista. Ho scattato le foto in mezzo alle galline. Erano galline brave. Quante? Cinque, credo. Anche le tue sono cinque?». Le galline di mamma Giuseppa, 82 anni e memorabili apparizioni sul red carpet accanto al figlio, hanno una storia tutta loro. «Si sono fatte il trasloco dalla Calabria a Roma, e da Roma a Bologna, quando ho girato il film Asino vola. A una di loro, ’Ngiulina, la più dispettosa, ho dato la voce di Maria Grazia Cucinotta. E l’ho fatta cantare al teatro dell’opera, diretta dal maestro Luigi Lo Cascio. Poi le hanno liberate nei campi, o almeno così mi hanno detto. Erano belle grasse, non sono sicuro sia andata così». Si va avanti a parlare di galline per un po’. «Ci sono cresciuto: hai visto come stavo tranquillo?». In effetti, durante lo shooting vantava una disinvoltura non comune. Alla gallina in grembo offriva il becchime, tenendola buona con un verso che pareva un barrito. «Sono animali paurosi, ma intelligenti. Mia mamma ci parla, ci si sfoga. La gallina è sempre una ricchezza: ti alzi la mattina e c’hai l’uovo da mangiare».
La faccia di Dogman, Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile a Cannes 2018, è anche la più rivoluzionaria del cinema italiano. «E, mi hanno detto, antica, furba, pasoliniana. E poi: sembri Buster Keaton. E: peccato che non c’è più Fellini, se no a quest’ora lavoravate insieme». Lui aggiunge un altro aggettivo: «Camaleontica. La cosa incredibile è che, non so come, ma si modifica ogni volta. Si gonfia, si sgonfia. Ora in America, ad esempio, è diventata più grossa. Sarà stata l’aria che respiravi, la roba che magnavi. Ho capito, girando quella serie, che dovevo morire grasso». La serie in questione è una nuova produzione HBO, ma ci arriveremo dopo.
Cominciamo dalla Calabria, che è il principio di Fonte e il posto in cui è tornato per Aspromonte – La terra degli ultimi di Mimmo Calopresti, calabrese anche lui, al cinema dal 21 novembre. Marcello è “il poeta” del paesino in cui – sono gli anni ’50 – va ad insegnare la maestra Valeria Bruni Tedeschi. «La Calabria è una terra di fatica, di lavoro, di sacrificio, di piedi nudi. Mia mamma ancora adesso cammina a piedi nudi nel giardino. Sta nella terra, le pietre non le sente. C’ha delle suole naturali, ormai. Quando abbiamo fatto la prova costumi con Mimmo, c’era il problema delle scarpe: non si trovavano quelle giuste. Al che ho detto: “Che problema c’è? Famolo senza”». La terra e la poesia, diceva. «Il mio personaggio è ispirato a un signore che Mimmo conosceva, Ciccio Italia. Il poeta, che poi è lo scemo del paese. Quello fuori luogo, che dice cose che non stanno nella norma. E allora, se fai così, o sei scemo o sei pazzo. Oppure sei un poeta, appunto, ma non vieni considerato tale. Devi lasciare il tuo paese, e allora sì che ti riconoscono come artista». Marcello se n’è andato dal paesello. «Ma io artista lo sono sempre stato, pure in Calabria. Non ho avuto mai problemi. Suonavo con la banda, una banda scaciata, portavamo in giro la musica e l’allegria. Andavamo nei vicoli e, nelle soste, ci davano le olive, i capicolli, la gazzosa al caffè. Ho iniziato col tamburo, poi i piatti, la grancassa, il corno, la tromba. Mia mamma s’era fissata che dovevo imparare pure la fisarmonica, per suonare la tarantella. Mi ha comprato questo organetto ma tutto stonato, ho memorizzato giusto due passaggi per farla contenta. Alla fine, però, l’ho portato in America, e ha dato la svolta di “italianità” alla serie. Interpreto l’emigrante che arriva negli Stati Uniti, ma il problema era che tutte le comparse sulla nave non erano italiane. Allora dico: “Mettiamoci la musica”. Loro non ci avevano pensato proprio. E invece, con la tarantella, sono diventati tutti italiani».
La serie, quella appunto prodotta da HBO, è I Know This Much Is True, protagonista Mark Ruffalo, tratta dal romanzo di Wally Lamb da noi tradotto La notte e il giorno, diretta dal Derek Cianfrance di Blue Valentine e Come un tuono. «Il regista usa rinchiudere i suoi attori in un residence isolato. Noi eravamo a Poughkeepspie, a un’ora e mezza da Manhattan. Andavo avanti e indietro nei corridoi, mi sembrava di stare in un centro di recupero per malati. Mandavamo i video dei sollevatori che ti calavano in piscina a Mark Ruffalo, che era ingrassato un sacco per la parte». Fonte, in quel quadretto broccolino, ha portato la tarantella e pure la Calabria. «Anche se nella serie sono un siciliano. Ma quello che ho vissuto nel film di Mimmo m’è servito in America. Sono le stesse tradizioni che gli emigranti si portavano con sé. Ai figli insegnavano la musica. Melissa Leo (premio Oscar per The Fighter, ndr), che è mia figlia, impara a suonare. E dopo di lei viene Mark Ruffalo, che è mio nipote». Mi domando se siamo autorizzati a parlarne con questo anticipo, considerato che la serie uscirà l’anno prossimo e gli americani su queste cose sono severi. «Ma non stiamo svelando niente, su Imdb (il più grande database cinematografico online, ndr) c’è scritto tutto. Uno legge “Marcello Fonte: Domenico Tempesta” e, se va a cercarlo nel romanzo, sa chi è e che ruolo ha nella storia».
Parla del set americano con gran scioltezza. «Erano tutti contenti, sono stati tre mesi belli. Ho conosciuto Emiliano (Iagher, ndr), un ragazzo romano che m’ha fatto da interprete, assistente, tutto. Ha una storia pazzesca. È un ex campione di taekwondo, vive in America da 16 anni, faceva il manager di ristoranti e poi si è ritrovato sul set. Io l’ho pompato, gli ho detto “Ce la farai”, alla fine stava a seguire le riprese con le cuffie, accanto al regista. È la cosa più bella che mi sia capitata, lui e la sua famiglia. Ha sposato una ragazza coreana e ci ha fatto due figli bellissimi, i miei nipotini acquisiti. Per loro sono lo zio Bobot». Dove lo metti, Marcello sta. «In America lavori 18 ore al giorno, ma la cosa bella è che non c’è giudizio. Non stanno a guardare il lavoro degli altri. Ognuno fa il suo, e basta. E non sono approssimativi. Se ti serve un cucchiaino, te ne danno dieci diversi e tu scegli quale vuoi. Però si sono lasciati andare al nostro modo di lavorare. Guardavano le scene in cui improvvisavamo in dialetto e non ci capivano un cazzo, però erano curiosi. Mark Ruffalo era contentissimo, diceva che avevamo portato la verità. Stava sempre con noi sul set. Ha origini calabresi e ha detto che ci vuole venire, in Calabria».
Il lavoro sul set coi grandi non è una novità. Fonte è tra i volti di Nessun nome nei titoli di coda, documentario di Simone Amendola sul lavoro della comparsa appena presentato alla Festa del Cinema di Roma. «Antonio Spoletini è l’uomo che mi ha trovato quando pitturavo le scenografie. Oggi è contento che sono diventato un attore vero. Perché ero la “sua” comparsa. Anzi, no: ero un attore che faceva la comparsa. Spoletini sapeva che c’era quel ragazzino calabrese che, se doveva dire una battuta, la diceva. Che sarebbe rimasto fino alla fine della scena. Che ci metteva voglia e passione. Che era affidabile. Perciò mi chiamava sempre quando c’erano le cose grosse: i film con Ettore Scola, con tutti». Pure Martin Scorsese, con cui Marcello ha passato tre mesi a Cinecittà sul set di Gangs of New York. «Con Scorsese siamo andati a cena insieme a Bologna, l’anno scorso. Gli ho fatto rivedere le foto che avevo fatto, senza farmi beccare, durante le riprese. Si è messo a guardarle e faceva: “Oh, yeah!”. Gli ho salvato la serata, si stava facendo due palle così». Pure sul set gli stava sempre appresso. «Mi mettevo lì vicino a lui, tranquillo. Ero l’unica persona a cui era permesso. Mi lasciavano fare, forse perché vedevano in me un figlio che voleva imparare. Io voglio sempre imparare. Seguire i maestri. Ho fatto la strada all’antica, ho imparato dai più grandi». Letteralmente. «Quand’ero piccolo, stavo con gli anziani. Il primo maestro è stato Don Paolino, che mi ha insegnato a suonare il tamburo. In teoria musicale ero una pippa, e allora lui mi ha detto: “Fai così, segui a ’mme”. Poi la musica ho imparato a leggerla, ma è stato lui a farmela sentire, a farmi provare l’ebbrezza di suonare. Il mio maestro a teatro, invece, è stato Danilo Nigrelli, che mi ha fatto un bucio di culo così, e ha fatto bene. Diceva: “Da lì sei entrato e da lì te ne vai. Se ti levi quella faccia da spocchioso, allora puoi tornare”. Una volta c’era più disciplina, non come oggi, che si fanno i provini così, come capita. Di me dicono che mi sono alzato una mattina e mi sono messo a fare l’attore. Ma non è mica andata così. Non mi sono ritrovato per caso sul set di Dogman. Il mio primo lavoro, quando sono arrivato a Roma con mio fratello, è stato il teatro. È un percorso lungo, il mio. Però tutti dicono che sono diventato attore all’improvviso».
Questa storia lo manda fuori di testa. «Sono stato anni a studiare, a vedere come si fa questo mestiere. A Roma andavo in giro con la mia macchinetta e fotografavo tutto, ogni angolo. Una notte vedo un set vicino a casa mia, a piazza Vittorio. E chi l’aveva visto mai il cinema. Allora mi fermo a vedere come si fa. Era Una storia qualunque, c’era Nino Manfredi vestito da barbone. Mi sono avvicinato a lui, seduto su una sediolina sotto i portici. Stavo fino alle quattro del mattino, gli tenevo compagnia. Ho capito da subito che dovevo nutrirmi di questa roba qua. Poi ci sono gli incontri che uno fa. Io vedo la persona e, se non mi ci trovo, non ci lavoro. Anche se è un nome famoso. Devi vedere l’empatia che si crea, e seguire quella strada. Se invece ti accontenti, resti un mediocre. E a me i mediocri stanno sul cavolo». L’empatia con Matteo Garrone gli ha cambiato la vita. «Dogman è stato quel che è stato perché era un film senza aspettative. Lo abbiamo girato in un buco tra una cosa e l’altra». L’altra cosa, per Garrone, era l’imminente Pinocchio, a cui Marcello avrebbe dovuto prendere parte, ma poi il ruolo è saltato: «Questioni drammaturgiche». Ora c’è in ballo un altro progetto, «ma nun se po’ di’. Vedrete, vedrete».
Dogman ha fatto di Fonte una star, e a lui tutta questa attenzione non dispiace. «Mi sta bene, anche se certe volte è troppa. Per dire. Era la prima volta che finalmente avevo un momento tutto per me. Incontro una ragazza che mi piace, l’accompagno a Termini e stiamo per darci un bacio. Ero emozionatissimo, un peperone. L’avevo sperato tanto, mai in vita mia mi era capitato. E, proprio lì, arriva un tipo e mi dice: “Te posso fa’ ’na foto?”. E insomma, certe volte ti trovi in situazioni per cui la tua vita non esiste più. Solo perché uno deve farti una foto. E poi, dopo averla pubblicata, se ne va. Di te non gliene frega un cazzo. Ti ha solo rovinato il momento».
Il culto garroniano, la serie americana, e poi i film ultraindipendenti. L’ultimo, appena girato, è Il nuovo Vangelo di Milo Rau. «Gesù ce l’ho avuto sempre dentro, mi sento un po’ un Gesù contemporaneo. Se fai l’attore, porti in giro la parola. Senza l’arte – i film, la musica – sarebbe una vita di merda». Nella vita, è stato un piccolo Cristo con la sua comunità: gli occupanti del Nuovo Cinema Palazzo, dove ha vissuto per anni. «Stavo in mezzo alle persone, dovevo capirne i dolori. Ora però non vivo più lì. Diciamo che non vivo, punto. Sono sempre in giro. Adesso la mia casa a Roma è quella di mio fratello Pasquale. Sono tornato all’ovile». Nel film, invece, non è Gesù. «Siamo partiti che dovevo fare Gesù. Poi ho incontrato Milo a Roma, siamo andati a vedere il Caravaggio e con noi c’era Yvan (Sagnet, ndr), questo ragazzo nero a cui, mi ha detto Milo, aveva pensato di dare la parte di Gesù. Il progetto mi è piaciuto ancora di più. A me, a quel punto, toccava San Giovanni. Mi sono fatto crescere la barba, che mi serviva pure per la serie in America. Quando ero là, mi arriva una telefonata di Milo: dovevo fare Satana. È finita che ho interpretato Ponzio Pilato». Pure Dogman, in fondo, era un povero cristo. Tutta questa iconografia cristologica gli sta forse comunicando qualcosa? «Probabilmente, che devo tornare alla mia idea di un tempo: farmi prete. Una chiesa tutta mia, coi miei fedeli, la mia predica di un’ora. Forse è quello il mio destino. Tutti i preti, in fondo, son dei grandi attori».