C’erano tanti modi per complicarsi la vita e Marco D’Amore sembra aver deciso di sommarli tutti insieme nel suo nuovo film, dove si confronta con temi non solo complessi ma persino tabù: fascismo, Islam, immigrazione e, neppure tanto fra le righe, dipendenze, salute mentale, emancipazione femminile e spaesamento rispetto alla mutazione di una società nel caos. Non contento, oltre a esserne il protagonista, firma la regia e la sceneggiatura (con Francesco Ghiaccio) di una pellicola tanto spiazzante quanto riuscita, che in un colpo solo ci fa dimenticare il passato ingombrante di Gomorra; operazione per niente semplice, e che dimostra che se nel proprio bagaglio può contare su cultura e coraggio, per un autore – nel senso più profondo del termine – nessun argomento è davvero proibito. Come se non bastasse, al suo fianco chiama un maestro come Toni Servillo, che avrebbe potuto oscurarlo e che invece, grazie a una magica alchimia che si è instaurata tra loro e che unisce la sfera privata e quella artistica, esalta la recitazione di entrambi. Vi può bastare? Per ora sì, perché Caracas (ispirato a Napoli Ferrovia di Ermanno Rea e dal 29 febbraio al cinema) andrebbe visto e non una ma più volte: è così caleidoscopico da regalare a ogni visione nuove riflessioni.
Alcune, però, è stato lo stesso D’Amore ad aggiungerle in questa intervista, che è partita dal film, dove ha cercato finalmente di «denunciare una personale poetica», ed è finita a parlare dei suoi (presunti) migliaia di sosia in giro per il mondo. In mezzo c’è finito il bisogno di adrenalina del personaggio che si contrappone all’eccesso prodotto dal corpo di Marco (a causa di una disfunzione) che non lo fa dormire più di due ore a notte; l’immersione nelle comunità islamiche che gli ha fatto capire come «i disperati nel mondo pregano tutti per le stesse ragioni»; l’amore sconfinato per una città come Napoli, alla quale deve tanto, anche se «la valigia è già pronta per andarsene» visto che «conta solo quello che si sente»; e – ancora – l’insofferenza nei confronti della superficialità che mette in discussione «diritti inalienabili», a cui contrappone un impegno civile – condiviso con la sua generazione – che lo fa sentire al fianco degli studenti manganellati («non avrei voluto parlarne, ma mostrare un livido perché avrebbe significato essere stato là») e a non nascondersi di fronte a ciò sta accadendo in Palestina per ribadire: «Stop al genocidio».
Dopo aver visto il film, la prima domanda che mi viene spontaneo rivolgerti è questa: dopo il teatro impegnato e il successo con la serie Gomorra, chi te l’ha fatto fare di girare un film dove affronti così tanta complessità, dall’estremismo politico a quello religioso, il tutto in una Napoli distopica e trasformata dall’immigrazione?
Perché sono convinto che nella vita arrivi un momento, dopo aver raccolto tante esperienze che sono frutto della determinazione del talento altrui, nel quale è necessario corrispondere alla propria natura, inseguire i propri desideri e avere il coraggio di denunciare una personale poetica. Se ci fai caso, in tutto quello che ho fatto ho sempre cercato di innestare, a volte addirittura di sovrastare, alla cronaca della vita questa voglia continua di elevarmi in un mondo che è nei sogni, negli incubi e nelle premonizioni, perché è quello che mi affascina.
Interpreti un estremista, si può dire orgogliosamente fascista, che si muove nella contemporaneità. Per cui immagino ti sia ispirato ad alcune vicende dell’attualità. Anche tu senti il timore, condiviso da molti, di un possibile ritorno del fascismo?
Secondo me bisogna fare due discorsi distinti. Uno riguarda la capacità e la lungimiranza di Ermanno Rea con Napoli Ferrovia, il romanzo da cui è tratto il film, di interpretare il futuro. Lo ha scritto nel 2006, quindi stiamo parlando di quasi vent’anni fa, e ha predetto quello che sarebbe successo oggi. I grandi autori questo fanno: riescono a inserirsi negli anfratti, a intercettare le braci di ciò che sta cuocendo e a raccontarle al pubblico prima che divampino. Nello specifico del film, questa parola che tu usi, estremismo, ha a che fare con la vita di tutti i personaggi nella misura in cui spingono le proprie esistenze al limite.
E il secondo discorso?
Ti rispondo partendo dalla prima scena, che è una sorta di manifesto. Il mio personaggio è in un gruppo di paracadutisti che all’unisono aprono il paracadute per salvarsi, mentre lui rischia di rompersi l’osso del collo perché quella è la temperatura della sua esistenza, l’adrenalina di cui ha bisogno, e soprattutto quello è il limite a cui aspira per sentirsi vivo. Quindi capisci che questa parola, estremismo, ha a che fare per me molto più con la sfera emotiva di mondi che si raccontano come dei contenitori all’interno dei quali i sentimenti esplodono. Ma sono d’accordo con te, nel senso che sento la preoccupazione, soprattutto rispetto a certi episodi violenti che avvengono nel presente. Confido però in una larga parte di società civile che invece crede, lotta e afferma dei valori che stanno nel vivere comune, nell’accettazione dell’altro, nella comprensione della diversità e nelle difficoltà altrui.
Non sei un disilluso, quindi, rispetto all’epoca che stiamo attraversando.
No, io non mi arrendo all’idea di essere sopraffatto. Sono qui, insieme a tanti altri, a dare testimonianza che c’è un modo diverso di reagire.
A un certo punto Caracas dice: “Questa democrazia m’ha ruttu u cazz’“. E il modo in cui lo fa è quasi come se lo desse per scontato, senza rimorsi, come avviene sui social quando la gente si lascia andare a commenti simili che prima erano impensabili.
È un aspetto che mi colpisce tantissimo, e in questo caso è il frutto della mia scrittura insieme a Francesco Ghiaccio. E mi spaventa proprio il modo in cui l’abbiamo messa in scena perché, come vedi, il discorso di quel capopopolo non è gridato ma sussurrato con una delicatezza e una normalità, come tu giustamente l’hai descritta, che è ancora più spaventosa. Perché mina certi capisaldi del vivere comune. La pronuncia come se parlasse di mettere o meno un cucchiaio di zucchero nel caffè. Questa superficialità nell’affrontare certi temi mi fa temere, come la naturalezza con cui qualcuno mette in discussione la Costituzione o alcuni princìpi che regolano lo stare insieme. Con una superficialità che non indaga invece la storia e i processi che hanno portato alla determinazione di tanti diritti che sono inalienabili.
Per non farsi mancare nulla, Caracas a un certo punto sente il bisogno di convertirsi all’Islam e quindi entra in un’altra sfera di estremismo. Nell’avvicinarti alla religione musulmana, della quale riporti nel film riti come le abluzioni o la preghiera spalla a spalla, hai compreso qualcosa che non ti saresti aspettato?
Ho compiuto un percorso d’indagine che è durato mesi, nel quale mi sono mosso nei luoghi in cui il film è ambientato, che poi sono quelli del reale incontro che ha segnato la paradossale amicizia tra Giordano e Caracas. E sono entrato in contatto con la comunità islamica, soprattutto grazie all’Imam della moschea di piazza Mercato, Massimo Abdallah Cozzolino, in una dimensione di curiosità che è stata in me veramente dissetata e che ha a che fare con il mio desiderio di conoscere tutto ciò che non conosco. Non solo ho voluto capire come pregano, ma come vivono, come mangiano e cosa significa per loro bere il tè e condividerlo.
Il senso di comunità è molto più forte rispetto alla religione cattolica.
Da ateo profondamente convinto, mi sono immerso per mesi in questa condizione spirituale che davvero lega profondamente ogni singolo individuo di quella comunità al rapporto con Dio. La profonda differenza che c’è tra la nostra religione e la loro, quindi direi tra la nostra e la loro cultura, è che i musulmani hanno un rapporto con il divino che è assolutamente prediletto e verticale. Non può esserci un giudizio della comunità in cui vivi rispetto alle azioni che compi, perché tutto è demandato al giudizio di Dio. Mentre noi, influenzati dalla cultura cattolica, siamo immersi in una dimensione assembleare dove dei comandamenti ti dicono cosa fare e cosa non fare, mentre sei esposto al giudizio della tua comunità. Questa verticalità mi ha molto toccato, perché crea davvero una simbiosi tra gli esseri umani e Dio. Ma ho anche riscontrato un aspetto uguale per tutti, cioè che i musulmani, i cristiani, i buddhisti, gli induisti e gli scintoisti pregano come pregano tutti i poveri disperati della Terra.
Cioè, in che modo?
Pregano perché gli mancano le cose basilari, perché sperano di poter trovare un vestito che li copra dignitosamente, sperano di poter mangiare la sera, desiderano avere un posto caldo in cui dormire. I disperati nel mondo pregano tutti per le stesse ragioni. Quindi, in questo senso, che sia Gesù, Allah, Buddha o Shiva, la preghiera è per gli stessi motivi.
Tornando al film, il ragazzino che permette a Giordano l’immersione in un mondo che aveva dimenticato, mi ha ricordato quello di Io speriamo che me la cavo. È solo una suggestione o è un rimando voluto?
Quello è un film che ho amato moltissimo e che conosco veramente a memoria, anche perché quando eravamo piccoli fece molto scalpore e l’avrò rivisto cento volte. Tra l’altro il bambino che recita in Io speriamo che me la cavo è un mio carissimo amico. In quel bambino, però, c’è una dimensione diversa da quello di Caracas. Lui viene cercato dal professore, mentre in questo caso è lo scrittore che viene intercettato dal bambino. Così, mentre nel film con Paolo Villaggio vive una condizione reale in cui è immerso anche il professore, il mio ragazzino è una sorta di spiritello, un demone che lo conduce nei meandri della sua stessa fantasia.
In mezzo a tanto estremismo, però, c’è sempre l’amore in grado di ricondurre tutto a una sorta di pacificazione. In Caracas è rappresentato, seppur in modo turbolento, da Yasmina, interpretata da una sorprendente Lina Camélia Lumbroso.
Intanto sono felice che anche tu mi dica che è bravissima, e lo rimarco anch’io con forza perché era alla sua prima vera prova da attrice in un film complesso, dove le ho chiesto non solo di mettere a disposizione di quel malessere il proprio corpo, ma anche di parlare arabo e italiano e di sporcarlo con il napoletano, lei che è francese. Volevo raccontare una dimensione del femminile contrapposta alla violenza maschile, che le vorrebbe imporre determinati comportamenti e un certo modo di stare al mondo al quale lei reagisce con delle esasperazioni che fanno solo del male a sé stessa. In questa reazione cerca disperatamente l’amore in Caracas, che a sua volta ha compiuto scelte politiche e religiose fanatiche.
Non mancano i momenti di dolcezza.
Sì, perché nell’amore trovano redenzione dal fanatismo. Una via d’uscita e una certa purezza. Lo si vede per esempio quando fanno l’amore. Sarebbe potuto essere un amore disperato, violento, animalesco, invece forse è quanto di più delicato io sia riuscito a raccontare in questo film. Si sfiorano la punta del naso, si baciano un occhio, perché in questa dimensione di purezza ritrovano loro stessi e sperano di poter congelare quell’attimo di felicità.
Sempre per via delle suggestioni e dei rimandi, quando Giordano Fonte esclama la frase “Conta solo quello che senti, non ti far fottere” mi ha richiamato la famosa scena di Che cosa sono le nuvole? quando Totò spiega a Ninetto Davoli che cos’è la verità.
Ti confesso che hai citato un film di uno degli autori, Pasolini, che più mi hanno emozionato in assoluto. Probabilmente sono abitato da tutte queste presenze, da tutto quello che nella vita ho visto, amato, letto e riletto, e quindi a volte in maniera consapevole, perché mi diverto a costruire dei riferimenti in sceneggiatura che chiunque può leggere, e altre inconsapevole, escono fuori. Per me era molto importante che un uomo come Giordano Fonte, con radicati convincimenti e ideali ormai consolidati, a quell’età dica che “conta solo quello che senti”, mettendo in discussione qualsiasi tipo di credo politico, storico, sociale o religioso. E che lo dica lui ha un’importanza fondamentale, perché probabilmente la dichiarazione d’intenti più giovane del film viene enunciata dal più vecchio dei personaggi.
Ma Marco D’Amore, oggi, l’ha trovata la luce di Dio o la sta ancora cercando?
Mah… (fa una lunghissima pausa, nda). La luce di Dio di cui parla Caracas, alla fine, sta dentro quella stretta di mano prima di chiudere gli occhi per sempre. E forse è la cosa che più mi avvicina a quel personaggio. Io vivo continuamente nell’illusione che ci possa essere qualcuno che, a un certo punto, mi dà una mano per tirarmi su o una carezza per farmi chiudere gli occhi. Spero che la luce di Dio stia nelle piccole cose che ancora ci fanno credere che esista un’umanità disposta ad avvicinarsi all’altro, ad accogliere e comprendere la diversità altrui e anche ad avere pietà, nella sua accezione più nobile, cioè che non ha semplicemente a che fare con la fede o con le religioni.
Dopo lo straordinario successo di Gomorra c’è stato un momento, come capita a tanti artisti, dove il telefono ha squillato di meno?
Ti dico la verità, anche a costo di sembrare vanitoso, però io non ho mai aspettato che il telefono squillasse. Ma perché non me lo sono mai potuto permettere. Io vengo dal niente. Non ho genitori famosi o una famiglia facoltosa, sono un outsider rispetto al cinema, ho cominciato solo ed esclusivamente facendo teatro e quindi mi sono sempre rimboccato le maniche cercando di prevedere i periodi di crisi inventandomi qualcosa. Questo motore mi ha animato anche in tempi non sospetti, quando potevo veramente rilassarmi e godermi il successo, portandomi a lavorare per costruirmi una carriera da regista, autore e produttore. Ho sempre sentito che non mi sarei potuto permettere di aspettare che il telefono squillasse.
In passato hai fatto un film come Un posto sicuro che trattava dei disastri dell’eternit e anche Caracas, a suo modo, è un film di impegno civile, benché non manchi la connotazione sentimentale. Senti che la tua generazione – e penso ad attori come Elio Germano che ha sposato tante cause o recentemente Michele Riondino con Palazzina LAF sulle conseguenze dell’Ilva di Taranto – sia tornata a un forte impegno civile?
Vedo una nuova generazione di registi e attori italiani che è molto sollecitata da alcuni temi che hanno a che fare con la salvaguardia del mondo e con i diritti che sentiamo in pericolo. Quindi sì, come dici tu, mi riconosco in loro. Ho visto Palazzina LAF di Riondino e l’ho amato, proprio perché dieci anni prima, sempre con Francesco Ghiaccio, mi ero occupato dell’eternit di Casale Monferrato. Questo è uno spirito che ci accomuna, a seconda del genere e del linguaggio che utilizziamo, e lo intercetto in tanti altri che, solo apparentemente, fanno film distanti da questo impegno civile, ma che invece stanno dentro alle cose della vita e cercano di parlare alle persone con una certa responsabilità.
È anche per questo che hai sentito di schierarti rispetto alle manganellate della polizia agli studenti di Pisa e Firenze dei giorni scorsi?
Di fronte a episodi del genere mi sento in colpa per non essere stato lì in mezzo a loro a prendermi una manganellata pure io. Troppo spesso, a causa delle occupazioni o delle preoccupazioni che ci affliggono, siamo distanti dalla condivisione di alcuni problemi che riguardano tutti, e quindi li osserviamo da lontano e al massimo ne parliamo in seguito. Io non avrei voluto parlarne, avrei voluto mostrare un livido sulla faccia, perché avrebbe significato essere stato là fisicamente. Chiaramente ci stavo e ancora ci sto emotivamente, perché penso che in una società come la nostra, purtroppo, certi episodi di violenza ormai siano all’ordine del giorno e lentamente stiano tracimando e superando i limiti. E non è accettabile da parte delle Forze dell’ordine, che dovrebbero avere rispetto dell’umanità. Parlo in questo modo perché il mio migliore amico, con cui ho cominciato a fare teatro a 15 anni, è un importante dirigente della Polizia di Stato e conosco come fa il suo mestiere. So come parla alle sue squadre e quindi so quanto l’atteggiamento che abbiamo visto a Pisa e Firenze sia pericoloso.
C’è chi ha messo in discussione il diritto di manifestare.
Chi scende in strada ha il sacrosanto diritto di dissentire e nessuno deve sentirsi in dovere di rompergli il cazzo. Quando questo avviene, con le modalità alle quali abbiamo assistito, svilisce una categoria che invece fa enormi sacrifici sul lavoro e che cerca di operare nel miglior modo possibile. Quindi ne approfitto per ringraziare, attraverso Rolling Stone, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per quell’incredibile atto di coraggio e di democrazia che ha dimostrato nel dissentire in un modo che più chiaro non poteva essere.
Oltre al diritto di manifestare, anche le parole sembrano essere diventate sempre più pesanti e pericolose. Però tu, recentemente, nel podcast Tintoria non ti sei tirato indietro e hai esordito dicendone una che, dopo l’ultimo Sanremo, sembrava tabù: genocidio.
Si scherzava su quello che è successo a Sanremo, però ti rispondo con un’altra domanda: non pensi che proprio in un periodo come questo, in un clima come quello che stiamo vivendo, certe parole che sembrano proibite o censurate assumano invece un valore molto più forte?
Indubbiamente, ma senti di ribadirla rispetto a quanto sta accadendo in Palestina?
Ma certo, perché quando si fronteggiano difficoltà così grandi e si ha la forza di esprimersi in qualche modo, certe parole risuonano e hanno un’efficacia molto più forte. Quindi è ancora più giusto pronunciarle: stop al genocidio.
Un’altra questione che sembra sempre più preoccupante è l’effetto delle piattaforme sulla nostra quotidianità e anche sulla nostra salute mentale. Tanto che persino Fedez ha detto: “Questa generazione è la cavia dei social”. Tu che rapporto hai con i social?
Rispetto ai social mi sento una cariatide, uno che fa ridere per come li utilizza. Fedez ha dieci anni meno di me, però sembra vivere in un altro tempo e in un altro mondo. Io sono nato scrivendo lettere per comunicare, senza usare il Gps per perdermi nelle città che attraversavo e parlando con le persone per chiedere informazioni. Quindi è un linguaggio che, seppure io mi sforzi di utilizzare, non mi apparterrà mai. Ma è vero che, rispetto alle derive di quel linguaggio e di quel modo di raccontare e raccontarsi, mi spavento moltissimo, perché mi sembra di notare che i social, più che essere piattaforme di socialità e di condivisione, siano diventate una risacca degli umori più neri che agitano le solitudini degli esseri umani. In questo senso mi fanno profondamente paura, tanto che io utilizzo i miei social solo quando devo comunicare del lavoro che faccio. Per il resto sto zitto anche mesi, nel terrore di cantare una canzone che poi, qualcuno, potrebbe contestarmi perché non ne ho cantata un’altra.
Hai raccontato di avere una disfunzione alle capsule surrenali, con un esubero di cortisolo e adrenalina, che in pratica ti rende super attivo con la conseguenza che riesci a dormire al massimo due ore a notte. È anche un vantaggio o una condanna?
Una condanna. Da ragazzo mi sono imbattuto in un bellissimo saggio di Virgilio sull’ozio e su quanto sia fondamentale per il corpo, per la mente e per lo spirito fermarsi e apparentemente non fare nulla. Quindi dedicare del tempo al silenzio, alla stanchezza del corpo affinché si possa rigenerare. Io invece sono in giro da tre giorni per raccontare il mio film e ho dormito al massimo cinque ore, sono appena sceso da un treno e andrò a incontrare 600 studenti nella mia ex scuola, la Paolo Grassi, con il pensiero che stanotte forse dormirò due ore e poi ricomincerò il mio peregrinare. Un po’ mi spaventa, perché non mi permette di rigenerarmi e perché mi toglie la possibilità di sognare, di perdermi dentro un mondo di incoscienza. Spesso ho il timore di essere troppo presente a me stesso e troppo cosciente.
Anche il trascorrere del tempo ti fa paura o è qualcosa che vivi serenamente?
No no, in questo caso, fin da quando ero piccolo, ho il mito di diventare vecchio. Sono decisamente controcorrente rispetto a tanti altri che vorrebbero sempre rimanere giovani. Non mi ha mai convinto il concetto del “forever young” che oggi impera e che straborda, non solo nell’accanimento che si ha sul proprio corpo, ma anche nel timore di sembrare anziani. Per me ogni età ha le sue prerogative, quindi questo incedere del tempo non mi spaventa, mi spaventa di più non poterlo vivere, cioè vorrei arrivare ad avere almeno ottant’anni. Ma come si dice a Napoli, col fatalismo che ci contraddistingue, stamm’ sott ‘o cielo e quando sarà, sarà.
Mi collego a Napoli, visto che il tuo precedente lavoro è stato il documentario Napoli magica, prima ancora Gomorra e ora Caracas: ma il tuo futuro artistico riguarderà ancora questa città o è in vista un cambiamento?
Ti rivelo un pensiero che ho condiviso con i miei collaboratori e con le persone che mi sono vicine, cioè il fatto di aver idealmente chiuso una trilogia su questa città che è partita dall’Immortale, è proseguita con Napoli magica e si è conclusa con Caracas. Sicuramente, ovunque andrò, porterò con me l’enorme bagaglio culturale che la città mi ha restituito, senza tra l’altro che avessi nessun merito per riceverlo. Napoli è una città che, pur vivendo nel presente e cercando di evolversi, rimane profondamente radicata nelle tradizioni, soprattutto nelle esperienze artistiche che l’hanno resa nota e connotata. La porterò sempre con me, però è arrivato il tempo di fare la valigia.
Già in questo film sei esteticamente diverso, hai i capelli lunghi e hai spiegato che la loro caduta, per te, è stata una sorta di maledizione che si è tramutata in un’opportunità. Da adolescente avevi i capelli lunghi e per uno spettacolo ti rifiutasti di tagliarli, così la tua insegnante disse: “Sono la tua maschera”. Ma con la loro caduta è arrivato il successo.
È vero, ma qui per la verità avevo la necessità di raccontare dei passaggi repentini di tempo che al cinema devono godere dell’immediatezza dell’immagine, quindi vedere in una scena Caracas con i capelli corti e i baffi e ritrovarlo subito dopo con i capelli lunghi fino alle spalle e la barba lunga racconta molto più di mille spiegazioni. E poi una delle cose belle del mestiere dell’attore è potersi trasformare. Mi è sembrato divertente operare questa mutazione.
Un divertimento in alcune fasi del film che traspare persino in Toni Servillo, che di solito è molto più serioso nelle sue interpretazioni. Visto che vi conoscete da più di vent’anni, c’è un episodio simpatico che hai condiviso con lui e che ti va di raccontarci?
Ho condiviso con Toni tantissime esperienze che, dal teatro al cinema, sono poi confluite nella vita. Degli episodi divertentissimi succedevano quando, durante la tournée della Trilogia della villeggiatura, io e lui viaggiavamo insieme in auto per ore e ore dal nord al sud dell’Italia e questi spostamenti erano scanditi dalle canzoni che cantavamo insieme, dalla passione che abbiamo in comune per il cantautorato, quindi a interpretare Pino Daniele, De Gregori, Lucio Dalla, Fabio Concato o Eros Ramazzotti. Un modo per divertirci e anche per dimenticarci un po’ delle responsabilità che ci impone l’andare in scena. Quindi l’immagine che porto nel cuore è Toni seduto al mio fianco mentre guido che canta insieme a me.
Un po’ come succede verso il finale di Caracas.
Ma sai, Toni è un uomo dalla grandissima serietà e severità, anche rispetto a sé stesso, che porta avanti parallelamente tra la sua vita di uomo e quella di artista e a volte sottraendosi, come capita anche a me, un po’ di leggerezza. Entrambi sentiamo forte la responsabilità di parlare al pubblico e quindi di condurre in un certo modo la nostra carriera.
Allora mi sembra il caso di chiudere in leggerezza. Hai raccontato che, dopo Gomorra, da tutto il mondo ti mandano foto di tuoi sosia improbabili. Ma ti assicuro che il mio migliore amico, piacentino, è un altro tuo sosia e da quando è uscita la serie lo chiamiamo Cirù.
(Scoppia a ridere) Sarà pelato, presumo. Che bellezza, non sai quanto mi faccia piacere che oltre all’Iran, la Georgia, il Canada, gli Stati Uniti e la Francia, anche nel Piacentino ci sia un altro mio sosia.