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Mark Wahlberg e Kevin Bacon: «”Boston” è un inno alla resistenza»

Abbiamo incontrato il cast del film che racconta la tragedia che colpì la Maratona di Boston nel 2013, e di una nazione che non si è mai arresa davanti al dolore per le vittime del terrorismo

Prima di parlare di Boston – Caccia all’uomo, è doveroso ricordare il giorno preciso in cui la parola “terrorismo” ha assunto negli Usa un significato diverso. Parliamo dell’11 settembre 2001. Non sono ancora le sei del mattino a L.A., quando il mio vicino di casa mi sveglia urlando qualcosa che non capisco. Poi in preda al panico dice: «Accendi la televisione, subito!». In quel momento scopro l’orrore. Una delle Torri Gemelle di N.Y. è stata colpita da un aereo di linea. Passano 16 minuti e, nell’istante in cui, tutti a bocca aperta, assistiamo alla sagoma nera di un altro aereo che si schianta contro la Torre Sud del World Trade Center, quello che sembrava un incidente aereo si rivela un incubo di proporzioni mai viste.

È il momento che cambierà Storia e umori degli americani verso il terrorismo domestico. Ed è quello il momento in cui io, Roberto Croci, in lacrime davanti al televisore, divento survivor dell’11/9: perché, pur essendo italiano, dopo aver trascorso 30 anni in questo Paese sono ormai uno di loro – per quanto sia sopravvissuto a Reagan e ai due Bush (padre e figlio), abbia inveito contro le cosiddette Guerre del Petrolio, e abbia pianto le bare avvolte dalla bandiera a stelle & strisce. Ma le immagini delle persone che si gettano dagli ultimi piani delle Torri piuttosto che morire bruciate, che scappano ricoperte da calcinacci e polvere, delle carte che volano dappertutto, della pioggia di fuliggine e cenere dopo il crollo finale… scavano solchi indelebili nei cuori e nelle menti di tutti. Nei giorni seguenti, diventa chiaro che l’11/9 è l’attentato terroristico più letale della Storia americana. Per mesi, l’intero Paese è come sotto shock: andare a fare la spesa diventa un atto surreale, mangiare fuori e ridere con gli amici ancora di più. L’unica nota positiva? La reazione unita di tutti quelli che provano orrore verso atti del genere. In un’era ancora pre-Facebook e pre-Twitter, l’inno del mondo diventa: “We Will Never Forget”.

Boston, 15 aprile 2013. Un’immagine scattata dopo l’attentato che provocò tre morti e 264 feriti. Foto di David L. Ryan/The Boston Globe via Getty Images

Chiunque sia stato a compierlo (teorie cospiratorie incluse) deve sapere che nessuno sul suolo della “land of the free, home of the brave”, come dice l’inno nazionale, si spezzerà. Anche se da allora ci siamo piegati in tante altre occasioni – Fort Hood, San Bernardino, Orlando – ma mai come quel 15 aprile 2013, giorno della 117ª Maratona di Boston, gara che attira ogni anno più di 25mila corridori, amici, familiari e fan di uno degli eventi sportivi più importanti e più antichi di questo Paese; che è anche una data importante nel calendario della città, perché a Boston il giorno del Patriots’ Day commemora l’anniversario della battaglia di Lexington e Concord, l’inizio della Guerra d’indipendenza americana. È un giorno storico, durante il quale l’intera città partecipa a due appuntamenti imperdibili, la maratona e la partita di baseball dei Red Sox: eventi a cui nessun bostoniano potrebbe mai rinunciare.

Era una bella giornata, sole e cielo azzurro, quella che diventerà il secondo peggior atto di terrorismo domestico Usa di sempre, dopo l’attentato di Oklahoma City nel 1995. Alle 14.49, quando dalla linea del traguardo di Boylston Street è già passato da alcune ore il vincitore etiope Lelisa Desisa, esplodono due bombe, situate a qualche metro l’una dall’altra in uno dei punti più affollati del percorso. Muoiono tre persone, Krystle Campbell di 29 anni, Lu Lingzi di 23 anni e Martin Richard di soli 8 anni; restano ferite 264 persone, di cui 16 avranno uno o più arti amputati a causa dell’esplosione. In quell’attimo la città di Boston ritorna a vivere l’incubo dell’11/9: tutti hanno capito che si tratta di un attentato terroristico, ancora prima della conferma da parte delle forze dell’ordine. La paura è presente, ma la determinazione a risolvere la situazione e catturare i colpevoli supera ogni ostacolo, persino quando il capo F.B.I., Richard DesLauriers, ordina un coprifuoco totale per stanare i sospetti. A quel punto la città collabora e il risultato è senza precedenti: è dichiarato lo stato di emergenza, le strade sono deserte.

Foto di John Tlumacki/The Boston Globe via Getty Images

Chi si trova ancora in giro è perché ha qualcosa da nascondere. Come i fratelli Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev – rispettivamente di 26 e 19 anni – che nel frattempo vengono identificati dal lavoro di decine di persone coinvolte nell’investigazione, e dall’esame di centinaia di ore di telecamere a circuito chiuso. Hanno persino un nome in codice: “white hat”, “black hat”, per distinguere i loro movimenti. Nel frattempo i fratelli conducono la loro vita normale, fanno la spesa e si occupano degli affari di famiglia, interagendo con moglie, figlia e compagni universitari. Ma dopo aver visto le proprie foto in televisione, Tamerlan e Dzhokhar decidono di portare a termine il loro piano: andare a N.Y. e far esplodere altre bombe a Manhattan. La storia la conoscono tutti, la cronologia degli eventi no: idem per alcuni dei protagonisti, come Sean Collier, poliziotto di pattuglia; Dun Meng, studente cinese; o il sergente di polizia Jeffrey Pugliese. Tutto questo, e molto altro, è ora rivelato in Boston – Caccia all’uomo, diretto da Peter Berg, prodotto e interpretato da Mark Wahlberg, con Kevin Bacon, John Goodman, J.K. Simmons e Michelle Monaghan.

La prima domanda è per tutti. Perché questa storia andava raccontata?
Wahlberg: Perché, nonostante la tragedia, volevamo condividere con il mondo un messaggio di speranza. Era importante mostrare come la gente della mia città ha reagito prontamente a una situazione d’emergenza, unendosi per un bene comune, collaborando con le forze dell’ordine al fine di ottenere giustizia. Questo è stato anche il motivo per cui ho deciso di produrre il film: perché c’erano sul mercato un paio di sceneggiature in competizione con questo progetto, ma volevo assicurarmi che questa storia fosse raccontata con il giusto sentimento, volevo che ogni persona coinvolta in questa tragedia potesse essere onorata come merita, volevo essere corretto con le vittime e i sopravvissuti di uno degli atti terroristici più spietati della nostra Storia. Tutti si sono chiesti se fosse ancora presto per farne un film… Per me non è mai troppo presto. Guardate il resto del mondo, tutti hanno lo stesso problema. Non è mai troppo presto per denunciare degli atti immorali.
Berg: È un film sull’eroismo, il messaggio principale è chiaro: il bene ha il sopravvento sul male. È una storia americana. Grazie alla collaborazione di soccorritori, personale sanitario, investigatori, ufficiali governativi, cittadini e sopravvissuti, siamo riusciti a risolvere un puzzle complicato; ognuno di loro è stato un pezzo importante di questo mosaico che ha portato la città a essere più unita che mai, l’amore ha trionfato sull’odio. Era importante raccontare gli eventi ricostruendo precisamente come si sono svolti, includendo anche alcune storie dei protagonisti.
Bacon: Purtroppo è un film attuale, che fa parte della nostra nuova realtà. Di attentati del genere ne abbiamo già visti parecchi: Parigi, Berlino, Orlando, Bruxelles, Nizza, Istanbul… La domanda è semplice: subiamo la violenza, o reagiamo contro la sopraffazione ingiusta dei malvagi? Tutto è cambiato dopo l’11/9, inizialmente pensavamo fosse solo un problema domestico, poi ci siamo resi conto che è una guerra mondiale. Berg e Wahlberg sono le persone giuste per rendere giustizia a questa storia, sanno raccontare storie vere, sulla vita, sulla morte, ma soprattutto sullo spirito di sopravvivenza nei confronti di una catastrofe (vedi i loro film Lone Survivor e Deepwater – Inferno sull’oceano, nda).

Mark Wahlberg nei panni dell’agente di polizia Tommy Saunders in una scena di “Boston – Caccia all’uomo”

Su che cosa è basato il film?
Berg: Su due sceneggiature: la prima riguarda la caccia ai terroristi, ed è intitolata Boston Strong, la seconda sulla trasmissione televisiva 60 Minutes, un’inchiesta più incentrata su maratona e bombe. Il problema era che nessuna delle due era adatta a raccontare una storia di questa importanza: la prima era un film d’azione poco basato sui fatti, la seconda era molto accurata nei dettagli, ma mancava di tensione drammatica. Quindi abbiamo deciso di combinarle, per costruire il racconto principalmente attraverso gli occhi di Tommy Saunders, interpretato da Mark, che a sua volta è un personaggio fittizio, una combinazione di uomini e donne delle forze dell’ordine che abbiamo intervistato e hanno collaborato durante il periodo di ricerca.

Quanto è importante raccontare in modo accurato e rispettoso una storia di questo genere?
Bacon: È importante non dimenticare il dolore di tutte le persone coinvolte. Purtroppo non c’è un supereroe che arriva a salvare il mondo, questa è una storia che racconta pregi, difetti e imperfezioni di esseri umani. In questo caso gli eroi sono tutte quelle persone che hanno dato il meglio di sé per sopravvivere. Io sono attratto dai ruoli di gente comune, da chiunque ami il proprio mestiere e sia bravo a farlo. Personalmente, quando accetto un ruolo, mi assumo una responsabilità, cerco sempre di fare onore alla vita di queste persone, soprattutto se sono reali. La mia priorità è capire come interpretarle. Sono un attore che studia molto il proprio ruolo e non è sul set che preparo il personaggio: mi presento all’appello il primo giorno di lavoro sapendo già chi sono. Quando creo un personaggio fittizio, ho diverse informazioni, ma spesso devo riempire i vuoti e inventarmi dettagli mancanti sulla sua vita. Quando interpreto invece una persona reale, molte di queste informazioni sono già a mia disposizione, ma questo non vuol dire che il processo di identificazione sia più semplice. Una ricerca accurata è alla base di tutto.

Il regista Peter Berg sul set durante le riprese del film

È possibile identificarsi con il dolore di queste persone? È possibile capirlo?
Bacon: Tutti abbiamo avuto esperienze dolorose, anche se per me è la cosa più dolorosa da immaginare è la perdita di un figlio. C’è una definizione per tutto, sei vedovo quando perdi moglie o marito, orfano quando perdi i genitori, ma non c’è una parola per quando perdi un figlio, forse perché è un fatto che non dovrebbe mai accadere. Per capire, secondo me bisogna dimostrare supporto, soprattutto adesso che abbiamo una situazione politica poco stabile, non solo nel mondo, ma anche negli Stati Uniti.

Il film esce in un momento critico, tra muslim ban (la chiusura dei confini Usa e i provvedimenti connessi, ndr), le ondate di proteste contro Trump, l’immigrazione, i diritti dei rifugiati…
Bacon: Quando è stata programmata l’uscita del film, nessuno poteva prevedere che sarebbe successo in questo particolare momento politico. Personalmente sono molto preoccupato dalla situazione politica in generale, sono contro il muslim ban e trovo che il problema non si possa risolvere impedendo l’accesso a persone che hanno costruito una vita onesta in questo Paese, e nemmeno negando aiuto ai rifugiati. Spero che chiunque guardi il film capisca che i musulmani terroristi sono una minoranza, anche se capisco che non sia facile accettare il fatto che questi due ragazzi fossero cresciuti negli Stati Uniti, e non appartenessero a nessuna organizzazione criminale.

John Goodman e Kevin Bacon in una scena del film al cinema dal 20 aprile

Com’è stato girare a Boston?
Wahlberg: Molto emozionante. È la mia città, e dovevo renderle giustizia. Non è facile per nessuno rivivere una tragedia in tutti i suoi particolari. Abbiamo avuto reazioni molto positive da parte di tutti, la città si è stretta intorno alle vittime impedendo loro di rimanere sole. A un certo punto non importava chi eri, da dove venivi, la tua estrazione sociale, culturale o l’orientamento politico: l’importante era dare una mano. È stata un’esperienza speciale.
Bacon: La reazione è stata estremamente positiva, non c’è stata nessuna resistenza, anzi: molte persone coinvolte nei fatti hanno avuto una parte nel film, tutte le comparse sono di Boston, in tanti sono venuti sul set per condividere le loro esperienze. È una città davvero unica, unita, forte. Questo film è diverso, perché è celebrativo, non solo nel dolore. Correre una maratona è un impegno, la linea d’arrivo è un’esperienza che si condivide con famiglia, amici e sconosciuti, è un percorso profondo che va oltre al fatto di allenarsi tutti i giorni. Non ho mai corso una maratona, non so se potrei farlo, ma so che con il supporto necessario riuscirei a dare il meglio. Il fatto che le esplosioni siano accadute molto dopo l’arrivo dei migliori, dei più forti, è un simbolo importante. I terroristi volevano colpire la gente comune, ma non hanno calcolato che sono proprio queste persone quelle più determinate a combattere, che non rinunciano a realizzare i propri sogni.

Perché Boston Strong?
Bacon: È un nuovo inno di resistenza. Perché Boston, senza lasciarsi vincere dal panico e dalla paura, ha reagito cooperando, scegliendo la strada della solidarietà di tutti i cittadini, invece di quella della divisione, della caccia al nemico comune. This is our fucking city. È Boston. Boston Strong.

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