Martina Caironi: «La disabilità non esiste, se ti danno gli strumenti per superarla» | Rolling Stone Italia
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Martina Caironi: «La disabilità non esiste, se ti danno gli strumenti per superarla»

‘L’aria sul viso’ è il documentario che racconta la preparazione per le Paralimpiadi di Rio della donna con protesi più veloce al mondo, anche se a lei non piacciono tanto le definizioni.

Martina Caironi: «La disabilità non esiste, se ti danno gli strumenti per superarla»

Martina chiacchiera tanto e ride spesso, ma si scusa per la voce: la sera prima ha fatto tardi perché a Bergamo, la sua città, hanno proiettato L’aria sul viso, il documentario che l’ha seguita nella preparazione alle Paralimpiadi di Rio: «Dopo che sono tornata a correre, fin dalle prime interviste ho dichiarato che era bello sentire di nuovo l’aria sul viso, il vento in faccia. È diverso dalla brezza che avverti quando stai fermo, perché lo provochi tu». Martina Caironi ha 28 anni ed è la donna con protesi più veloce al mondo: «Dopo le medaglie d’oro mi sono abituata ad essere riconosciuta, ma non voglio essere richiusa nelle definizioni, preferisco essere più fluida. E se continui a definirti è difficile».

Nel 2007 Martina rimane coinvolta in un incidente stradale che le causa l’amputazione della gamba sinistra dal ginocchio in giù. A Budrio, in provincia di Bologna, la città dove si è trasferita, riceve la sua prima protesi per correre e si avvicina all’atletica del 2010. Seguono una sfilza impressionante di risultati: oro nei 100 metri T42 (la sua categoria) a Londra e a Rio, argento nel salto in lungo, portabandiera italiana alle ultime Paralimpiadi, detentrice del record mondiale, ambasciatrice del Grand Challenge dell’Agenzia Spaziale Europea, volontaria della Fondazione Fontana, relatrice nelle scuole.

C’è ancora qualcosa che non hai fatto e che ti piacerebbe fare?
Eh ce ne sono di cose… inviata per Rolling Stone! (ride) La mia carriera è ancora focalizzata sull’atletica e su Tokyo 2020, però ci sono tutte queste esperienze complementari al mio ruolo di atleta, che non può essere limitato solo al campo. La testimonianza è molto importante. Poi mi rendo conto che ci sono anche situazioni peggiori della mia, quindi non mi fermo, non penso di essere una super eroina. Cerco sempre di far meglio e di non annoiarmi.

Tra tutte le esperienze adesso c’è anche il cinema, con il documentario che ti vede protagonista. Come nasce?
L’idea di questo film nasce nel 2014-2015, quando il regista Simone Saponieri, che era un mio ex compagno delle medie, mi ha contattato e mi ha fatto questa proposta. E io sul momento ho detto: “bello!”, senza considerare che a volte dei sì comportano molto impegno. La troupe mi ha seguito nel 2016 per i mesi di avvicinamento alle Paralimpiadi: un anno pienissimo di situazioni, emozioni, un anno in cui sono caduta e mi sono rialzata.

Che effetto ti ha fatto rivederti?
Mi ero rivista per la prima volta quest’estate e alla proiezione di Bergamo, bellissima perché c’erano tutti i miei amici e parenti, era la quinta. Non so se alle prossime starò in sala, perché ho un’overdose della mia faccia (ride).

Sei una persona molto rock, lo sai?
Beh detto da Rolling Stone… Grazie! Sì, mi sento rock, fuori dagli schemi. E ci voglio stare fuori perché a volte poi vuol dire anche rientrarci, lo decidi tu.

Quanto sei severa con te stessa?
Sono severa quando mi rendo conto che sto cazzeggiando troppo, perché a me tutto sommato piace lavorare, produrre, fare qualcosa. E per produrre bene, bisogna anche un po’ cazzeggiare, trovare dei momenti in cui non fai nulla o dai sfogo alla creatività. Però se quei momenti diventano troppi, poi ti ritrovi che passano i mesi, gli anni e tu non hai fatto nulla. Non succederà.

Qual è la prima cosa che hai pensato quando ti sei svegliata dopo l’incidente?
Ero imbottita di farmaci, mi ricordo solo una cosa: quando ho aperto gli occhi vedevo appannato e c’era questa sagoma, mio fratello, che mi ha detto: “Marti, ti hanno amputato la gamba”. E io: “O nooo!”. Dentro questo no c’era tutto quanto: uno dei primi pensieri è stato per la pallavolo, perché stava per iniziare il campionato. Poi ovviamente tutto il resto: ti guardi e manca un pezzo, pensi: “Come farò a camminare? Come farò a farmi vedere dalla gente? Non potrò più mettere i tacchi”. Dalle cose più serie a quelle più banali, che però, quando ti mancano, te ne accorgi.

Quanto ti hanno aiutato lo sport e l’agonismo nei momenti difficili?
È stato il contrario: sono stati i momenti difficili a darmi la spinta per poter fare quel click, per superare le prime difficoltà. E poi lo sport ha questa forza, che si ricarica da solo: tu fai fatica, soffri, ma poi arriva la soddisfazione, che può essere una medaglia ma anche il miglioramento personale, semplicemente andare oltre il proprio di limite. L’agonismo ti aiuta, anche nella vita, a non sederti mai.

Nel documentario c’è una tua amica che racconta di quando in macchina non sapevi dove appoggiare le cose, ti sei tolta la protesi e l’hai usata come porta oggetti. Questo dice molto di come vivi la disabilità.
Per quanto riguarda la gag Tre uomini e una gamba in macchina ormai è un classicone, perché bisogna essere pratici: magari sono scomoda, metto la protesi dietro ma non c’è spazio, e ci infili degli oggetti, lo spumante a volte. Spesso la tolgo anche in situazioni non del tutto informali, magari sul treno: la appoggio sul portabagagli con la gente che mi guarda, c’è anche chi mi aiuta. È un modo di vivere la disabilità disinvolto. All’inizio cercavo di nascondere la protesi, poi ho capito che è più importante che io stia comoda, piuttosto che l’altro sia comodo mentalmente.

Guardandoti correre e vivere la tua vita sembra quasi che la disabilità non esista, che sia più uno stato mentale…
Sì, è uno stato mentale soprattutto se sei nella prospettiva di chi vuole superarla, fare tutto, andare ai concerti e fregarsene se ti pestano il piede, perché tanto non lo senti. La disabilità può scomparire quando si ha lo strumento giusto. Io ho la possibilità di avere questa protesi perché sono testimonial della ditta che le produce, però in Italia non c’è ancora un sistema che consenta di avere questi strumenti super tecnologici a chi ha avuto un incidente fuori dal lavoro. Io non posso fare altro che dirlo, cercare di arrivare anche a chi queste leggi le scrive e far capire loro che è tutto un circolo: nel momento in cui hai delle protesi adatte, la disabilità scompare, riesci a vivere in maniera molto più normale, a inserirti nella società e, di conseguenza, a produrre di più, perché non sei un peso, ma una risorsa. Serve una legge che dia la possibilità a tutti di aver una protesi dignitosa.

Cosa hai provato la prima volta sul podio a Londra, quasi da outsider? E a Rio, da campionessa?
A Londra non capivo nulla, ero lì che pensavo “chissà se mi ricorderò l’Inno di Mameli”, non riuscivano a togliermi questo sorrisone. A Rio, dopo una gara ulteriormente sofferta perché stavo rischiando di perdere la protesi, ho vinto e ho pianto tantissimo, fino a che non sono salita sul podio, dove ancora mi stavo asciugando le lacrime. L’inno lo avevo ripassato un attimo prima, ma in quei momenti lì hai la testa a viole ed è un attimo che ti metti a cantare non so, una canzone dei Pink Floyd, ti immagini?

A proposito di musica, che cosa ascolti? Quanto è importante nella vita di un atleta?
La musica dovrebbe essere importante nella vita di tutti: ho le mie playlist su Spotify, ascolto le novità ma cerco di non fermarmi su quello che mi piace, passo dal reggae al rock. Di Milano mi piacciono molto i Ministri per esempio, sono stata al loro concerto un po’ di tempo fa. Ultimamente sono andata a una serata dei Pendolum, che è tipo drum & bass pesante. Mi faccio i festival reggae d’estate. Durante gli allenamenti ascolto da Frank Sinatra ai Gogol Bordello, metto in riproduzione casuale. Non sopporto la musica commerciale che c’è in palestra, ho bisogno di musica vera. Mi piace molto Caetano Veloso.

Dove ti vedi tra 10 anni?
A Roma a lavorare per il comitato paralimpico come allenatrice o dirigente, oppure in una località marittima a fare tutt’altro, magari qualcosa che ha che fare con le lingue che amo e studio. Spero anche di potermi dedicare ad altro.

C’è un sogno che non hai ancora realizzato?
Ce ne sono parecchi: iscrivermi ad un corso d’arte oppure cantare in un gruppo, il mio sogno nel cassetto. Adesso guardo la playlist dei brani che ho selezionato per cantare e te ne dico una: Killing me softly. Che è anche abbastanza facile, se vogliamo dirla tutta.

Stai progettando di battere il tuo record del mondo di 14’ e 61” agli europei di Berlino o a Tokyo 2020?
Sì, vorrei riuscire a batterlo per vedere come vanno gli anni successivi e far sì che non arrivi facilmente qualcuno a superarlo. Ma ho deciso che prima delle gare non affermerò più di voler abbassare il record: porta sfiga. Meno parole e più fatti. Lo dichiaro a te per l’ultima volta e poi agli altri dirò: “Andate a leggervi Rolling Stone“.

Distribuito da Movieday, L’aria sul viso è nelle sale dal 21 febbraio, con la prima proiezione a Bergamo e l’ultima l’8 marzo a Roma. Per assistere agli spettacoli è necessario prenotare i biglietti online su movieday.it

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