Prego, Massimiliano Bruno, proceda pure.
Sì, lo ammetto. Ero uno di loro.
E per “loro”, il regista, attore e sceneggiatore intende quei cineasti che “Le serie tv? Oh, cielo, no!”. Invece, alla fine, pure lui si è convertito alla causa. Dal 1° dicembre arriva su Sky Serie, e in streaming su NOW, la sua prima lunga serialità: Non ci resta che il crimine – La serie. Esatto: stiamo parlando degli ormai celebri viaggiatori nel tempo Marco Giallini (Moreno), Gian Marco Tognazzi (Giuseppe) e Giampaolo Morelli (Claudio), che dal 2019 a oggi hanno fatto avanti e indietro dal passato, su Sky, per ben tre film. Ora le loro avventure continueranno nel formato da 6 puntate da 50 minuti. Sempre sulla piattaforma satellitare, of course.
Dunque, com’è andata con questo strano oggetto chiamato serie tv?
Bene. Molto bello. Stupidamente ho sempre guardato a queste produzioni con la puzza sotto al naso: me ne avranno offerte credo ottomila e io sempre lì, inamovibile, a rifiutare.
Poi cos’è successo?
Ho capito che è lì che sta andando il mondo, e che non c’è niente di male a farle. Spero infatti di poter continuare.
Giusto per capire: stai dicendo che ci attendono altri tremila capitoli di Non ci resta che il crimine?
No, no… almeno nelle mie intenzioni. Non realizzeremo un sequel. Però mi piacerebbe ragionare con Sky su idee nuove e fare altre serie.
Sempre sperando che nel mentre non succeda nulla….
In che senso?
Be’, quando è uscito il secondo film è scoppiato il Covid, e ogni volta che annunciavate l’uscita in sala scattava un nuovo lockdown.
Hai ragione, credo che siamo stati i più sfortunati di tutti. Ci ha salvato Sky, che si è offerta di mandarli in onda.
A occhio, comunque, le uniche due minacce plausibili sono lo sbarco degli alieni e la ribellione delle macchine. Su quale punti?
Gli alieni. Con tutte queste guerre, strazianti, che dilagano nel mondo, manca solo Mars Attacks!
Tra i tanti soggetti possibili, perché hai voluto serializzare proprio Non ci resta che il crimine?
Tutti mi chiedevano: “Ma ne famo un altro? Ne famo un altro?”. E quando Marco Giallini insiste, non si può dirgli di no…
Dopo tre film, non era però già stato detto tutto?
No, perché nel frattempo è cambiato il clima politico in Italia. Quindi quale momento migliore di adesso per raccontare una serie distopica, con un regime, che ruota attorno al golpe di Borghese? Si tratta di un fatto realmente accaduto: nel 1970, Junio Valerio Borghese cercò di ripristinare il fascismo in Italia. La differenza sta nel fatto che, nella nostra serie distopica, ci riesce.
Ma come avete fatto ad avere questo tempismo? I tempi di produzione sono solitamente molto lunghi: hai iniziato a girare al primo scrutinio elettorale, o hai doti premonitrici?
Siamo stati particolarmente veloci, anche perché non abbiamo aspettato di terminare la scrittura per girare. Il set si è aperto a sceneggiatura ancora in corso. Dalla nostra poi avevamo già il “sì” di Sky: non dovevamo aspettare la luce verde del broadcaster. In pochi mesi abbiamo quindi buttato giù l’idea, che all’inizio era ispirata alla virata a destra di Polonia, Ungheria, Turchia. Poi, mentre giravamo, la Meloni è stata eletta premier, e così la storia è diventata ancora più di attualità. Ovviamente sappiamo benissimo che il nostro governo non è un regime. L’importante è che non ci si sposti troppo a destra.
Sbaglio o non le mandate a dire nemmeno ai “compagni” di sinistra?
Sì, prendiamo in giro anche il movimento giovanile dell’epoca. Magari li bacchettiamo meno rispetto ai fascisti, ma qualche sferzata la tiriamo anche a loro. Per esempio, ci divertiamo a ironizzare sul loro approccio, un po’ snob, alla cultura. Il personaggio di Giallini, Moreno, incarna proprio il buon senso della borgata, che zittisce i personaggi ideologici. Si scontrerà in particolare con Matilde, una giovane che sta nella comunità ma proviene da una famiglia molto ricca. Moreno le rinfaccia proprio questo, le dice: “È troppo facile, quando si è contessina, cavalcare certi ideali”. E poi ci siamo divertiti a riproporre gli slogan dell’epoca, a cominciare da “Kissinger boia, Andreotti figlio di troia”. Molte intuizioni narrative sono del cosceneggiatore Andrea Bassi: è laureato in Storia, è un esperto di quel periodo storico, e negli anni ’70 è stato personalmente nei collettivi. Da giovane era un punk anarchico. Ho visto alcune sue foto: vabbè, un pazzo scatenato! (ride)
Fuor di metafora, quanto sei preoccupato per il futuro del nostro Paese?
Preferisco fare un discorso più ampio, anche perché l’Italia, come molti altri Paesi europei, non può prescindere dalla volontà americana e muoversi liberamente. In particolare, mi impensierisce molto il fatto che, dopo una ventina d’anni di rinsavimento dove ci si impegnava per la pace, stiamo tornando indietro, a una contrapposizione mondiale, che ti obbliga a schierarti. Non ultimo, c’è tutta una battaglia da combattere contro il pensiero maschile, patriarcale e guerrafondaio. È una vita che gli uomini comandano ed è una vita che si fanno le guerre… forse non è casuale.
Ne fai dunque una questione di genere?
Onestamente un po’ sì. La ricerca della guerra è testosteronica. Credo che le donne siano un passo avanti, oltre che stufe di subire le scelte degli uomini.
A proposito del gentil sesso, da anni collabori con Paola Cortellesi, il vostro è stato un vero e proprio sodalizio artistico. Dopo il suo sfolgorante esordio alla regia, da 1 a 10 quanto temi che ti farà le scarpe?
Ma no, dài, non siamo in competizione! Comunque sono felicissimo per lei. Ha fatto il suo miglior film: ha superato se stessa e tutto quello che ha fatto precedentemente, compresi i due lavori con me (Nessuno mi può giudicare, 2011, e Gli ultimi saranno ultimi, 2015, nda). E la ragione è semplice: lei è una grande artista.
Il suo successo dimostra che c’è ancora speranza per la sala?
Sì, se si fanno film belli con attori conosciuti la gente va al cinema. Credo che questa sia la “combinazione” vincente. Ora come ora, un fenomeno come il nostro Notte prima degli esami – ossia un exploit in sala con attori sconosciuti – lo vedo invece molto difficile.
E come la mettiamo con la questione del tax credit?
Sono preoccupato: un Paese che mette in difficoltà la cultura è un Paese che va a morire. È come se non si capisse la valenza sociale, economica ed educativa della cultura, soprattutto in questo momento.
Però converrai che l’approccio è sempre stato molto, troppo assistenzialista, con investimenti a pioggia e dati a troppi film.
Il problema non è l’assistenzialismo in sé. Anzi, ben venga supportare ciò che ha un valore: lo fanno tutti gli Stati del mondo. Semmai il punto è sostenere il buon cinema. Bisogna creare un comitato editoriale in grado di capire se una storia sia meritevole. Per anni, invece, c’è stata una gestione politica clientelare, di amicizie… insomma, all’italiana.