Massimiliano Caiazzo lo trovo in quella che lui definisce «una giornata molto gentile». È nella sua terra a girare Uonderbois (nuova serie originale italiana Disney+) mentre si gode la messa in onda della terza stagione di Mare fuori (che ha già fatto numeri da record su RaiPlay) e gli effetti che Filumena Marturano (film Rai di Francesco Amato uscito a dicembre 2022) ha avuto su di lui. La domenica capita che, da Castellammare, i genitori vadano a trovarlo a Napoli, dove avvengono le riprese, e magari gli portino anche il suo cane Pablo. «Piccole parentesi di gioia», mi confida, e poi aggiunge: «Ti avviso, io so’ logorroico». Non scherza. Però la sua è una loquacità che vale la pena assecondare.
Nonostante la trafila di interviste che gli tocca fare in queste settimane, si infiamma ancora quando parla del fondo di guerra in cui Carmine Di Salvo è immerso o dell’incontro tra Riccardo e sua madre Filumena, ma soprattutto si emoziona ogni volta che analizza gli archi narrativi dei suoi personaggi (seriamente: credo che neanche McKee sia così attaccato alla questione). Si lancia in parallelismi neanche troppo azzardati tra grandi classici e storytelling televisivo, e a un certo punto propone una disamina attualissima di Romeo e Giulietta. Sostiene che – attenzione – se certe storie parlano a tutti, è per via di una falla tragica comune, ovvero l’impossibilità di amarsi e basta. Vita e morte, cioè uccidere o essere uccisi, dipendono dall’amore. Dopotutto, per lui, che sia Shakespeare o Mare fuori, «l’autore ci sta dicendo che in questo mare di merda, ’sti due si amano».
Sarà per via della sua parlata armoniosa di matrice squisitamente partenopea, sporcata da certe inclinazioni al romanesco, ma oh, il modo in cui dice le cose fa la differenza. Per esempio attacca a raccontare di come Carmine abbia dovuto imparare il perdono e ti tira fuori un’immagine radicatissima nell’infanzia di tutti: «Pensa ai bambini quando giocano e litigano. Che fanno? Si fermano. Prendono il Super Santos, se lo mettono sotto il braccio e discutono. Parlano. E poi fanno pace. Ma il punto è che prima di fare la pace si so’ dovuti ferma’». Chiara l’idea, no? Per fortuna nessuno dei due ha voglia di perdersi troppo in chiacchiere promozionali, e quindi si va a briglia sciolta.
Ho letto che certe volte crolli in pianti catartici, quando studi il personaggio.
Sì, perché alcuni personaggi all’interno del loro arco narrativo raggiungono delle consapevolezze e capita che le raggiungi anche tu, attraverso di loro. Lavorando sull’immaginazione e partendo da qualcosa di personale, ne esci con una consapevolezza in più su qualche parte di te. Quella roba ti libera.
C’è stato un episodio in particolare?
Sia il personaggio di Carmine in Mare fuori che quello di Riccardo in Filumena Marturano hanno un rapporto ostico con la famiglia. Riccardo Degli Esposti scopre che Filumena è la madre e non riesce ad accettarlo, se ne va. Alla fine dell’arco narrativo avrà accettato di avere una madre che veglia su di lui, ma per arrivarci c’è una fase che il pubblico non vede in scena, perché non appartiene al testo. Come attore è quella che preferisco. Ho immaginato un dialogo fuori dai riflettori tra Riccardo e la madre: specchiandosi l’uno dentro l’altra, Riccardo prende atto dell’impossibilità umana della madre di comunicare. Sono strumenti che Filumena non ha, nessuno le ha insegnato a prendere, andare e parlare. Riccardo allora si perdona: non è colpa mia, non sono io ad essere sbagliato. Accetta la madre e capisce che forse mancavano anche a lui degli strumenti. Ecco, quello è stato catartico.
Nel lavoro di immaginazione pensavi alla Filumena di Eduardo De Filippo, a quella di Francesco Amato o alla tua?
Io parto sempre da qualcosa di personale, una rampa per la mia immaginazione. Come se fosse argilla, a forza di modellarla scopri nuove cose. Ma non mi pongo limiti né mi dico che siccome Riccardo ha un problema con la madre, devo prendere per forza i momenti in cui io non sono stato ok con la mia. Altrimenti rischia di non essere sano, diventa una sorta di teatro-terapia. Ogni personaggio ha una ferita emotiva, come tutti noi essere umani, e sono vie d’accesso universali, sia che racconti un dandy o un ragazzo cresciuto in un carcere minorile. Nel caso di Riccardo Degli Esposti la ferita è l’abbandono.
Nel caso di Carmine Di Salvo qual è?
La sua è il rifiuto. L’umiliazione.
Invece la tua, a 26 anni, l’hai trovata?
Sicuramente ho percepito molto il rifiuto e l’abbandono. Ma forse per me è ancora difficile individuarne una più forte delle altre.
Dopo la seconda stagione di Mare fuori ti auguravi che al tuo personaggio fosse restituita un po’ di luce in fondo al tunnel. L’hai sentita, questa luce?
Sì. Carmine attraversa un bell’arco, molto più introspettivo rispetto alle altre stagioni. Era questa la difficoltà di quest’anno. La cosa bella è la sua generosità, perché mette la sua luce a servizio degli altri, anziché custodirla gelosamente.
Quand’è che hai goduto di più dell’evoluzione di Carmine? Insomma, che hai sentito che aveva davvero senso continuare a raccontarlo?
Sicuramente con alcune scene insieme a Rosa Ricci (interpretata da Maria Esposito, nda), che usciranno più in là. L’arco di questi due personaggi è molto fico e poco scontato, perché lo abbiamo costruito partendo da una chimica sessuale che fa da trampolino per scoprire un certo tipo di empatia. Quando il confronto tra loro due inizia a essere non violento, fanno un passo in più. Sono due facce della stessa medaglia. E lì ho goduto di questo cambiamento perché sentivo un amore rinascere e un perdono in atto. Poi tornavo a casa, mi prendevo un tempo per uscire da Carmine e piano piano entrare nel personaggio di Riccardo. Mi meravigliavo a scoprire quanto si possa essere così simili e così distanti, semplicemente crescendo in due contesti diversi.
Pensi mai che entrare troppo in confidenza con un personaggio non sia solo un bene?
Certo. Anzi, spesso mi ritrovo ad avere questa paura. Per esempio che ci sia un etichettamento da parte del pubblico e del sistema, cioè non essere più Massimiliano Caiazzo ma Carmine Di Salvo. Lo riterrei un peccato. Ci penso e poi mi dico: fermati e rimetti ’sti piedi per terra, perché te ne stai volando in diecimila paranoie. E allora mi fido di questo tipo di umiltà.
E allora, a proposito di paranoie sul personaggio: quando inizi a conoscerlo a memoria, non c’è anche il rischio che perda fascino?
Certo. Ma tu puoi lavorare, improvvisare e scavare anche fino a essere maniacale, però ci sarà sempre qualcosa che non capirai del tuo personaggio. Ed è così che funziona pure la vita. Io ci credo nel fattore X.
Ah sì? E il fattore X di Carmine qual è?
Oggi non te lo so dire, perché ancora lo devo capi’ (ride).
Non fa una piega. Toglimi una curiosità: com’è andata con il metodo Chubbuck?
Onestamente non è un metodo nel quale mi rispecchio. È stato un primo approccio che, per carità, mi ha aiutato a capire che tipo di percorso avrei voluto fare. Ma a un certo punto ho capito anche di aver bisogno d’altro, sicuramente non mi rispecchio in soli dodici strumenti.
A muovere Carmine è soprattutto la reazione alla morte di Nina (sua moglie nonché madre della figlia Futura, uccisa nella seconda stagione, nda). Chubbuck consiglierebbe di attingere al proprio vissuto doloroso per capire l’obiettivo del personaggio. Invece?
Non ho un’esperienza di lutto personale così forte, ma sono andato a scavare in questo fondo di guerra che Carmine vive, in questa falla tragica che l’autore ha messo nella storia: uccidere ed essere uccisi. La guerra porta con sé rifiuto, umiliazione, abbandono, abusi di ogni tipo. E a quel fondo di guerra io ho contrapposto l’aspetto bello del personaggio, cioè questa storia d’amore vera e sincera, che era il trampolino di lancio per centinaia di sogni. Ma se gli levi pure quest’àncora di salvezza, che succede a un essere umano? Che si rompe. Sprofondare nella guerra, allora, torna a significare che se avete ucciso una parte di me, io adesso voglio uccidere voi.
Amore, guerra, uccidere per non essere uccisi. Siamo proprio agli archetipi letterari.
Perché con Mare fuori non è più soltanto un discorso personale. È una serie che, con tutta la leggerezza del caso, fa riflettere su valori etici molto forti. Non si tratta soltanto di Massimiliano o Carmine Di Salvo. Pensa ai grandi classici, ad Amleto, Macbeth o Romeo e Giulietta, che in questa stagione è una fonte d’ispirazione per il mio personaggio. Oggi la conosciamo come una storia d’amore, ma perché è così forte? Perché quei due vivevano nella guerra. C’avevano la gente morta fuori casa, perché Montecchi e Capuleti si uccidevano a vicenda. E in tutto questo mare di merda, c’è ’sta scintilla: l’amore tra due ragazzi. Ora: puoi dire quello che vuoi, che Romeo ha un rapporto particolare con la famiglia, che Giulietta vive nell’oppressione, ma l’autore ti sta dicendo che in questo mare di merda, ’sti due si amano. Le loro famiglie sono vittime del loro amore, e loro sono vittime delle loro famiglie: è lì la falla tragica. Quindi uccidere ed essere uccisi.
A un certo punto Carmine arriva a perdonare, e tu dici che per te il perdono è un atto rivoluzionario solo se fatto con il cuore sincero. È un concetto che ti appartiene o che hai scoperto grazie a Carmine e Riccardo?
Io credo che un po’ mi appartenesse, ma mentirei se non ti dicessi che l’ultima estate della mia vita (quella delle riprese di Mare fuori 3 e Filumena Marturano, nda) è stata importante per questi temi qui. Ed è un atto rivoluzionario perché quando tu arrivi a perdona’, il perdono si sente nell’aria. Cambia proprio il tuo approccio alle persone, diventi più empatico, giudichi molto di meno e questo si percepisce.
Ma poi che bello, questo perdono laico e grezzo.
Sì. Credo sia un punto forte di questa stagione e della serie in generale. Mare fuori racconta che il perdono è anche una questione di coraggio e prima di arrivarci ce ne passa. Anche se litigo con un amico o una fidanzata, prima di fare davvero la pace ce ne vuole. Per fare la pace devi un attimo fermarti. Pensa ai bambini quando giocano e litigano: il gioco non ha più lo stesso sapore, non è più divertente come prima. E allora i bambini che fanno? Si fermano. Prendono il Super Santos, se lo mettono sotto il braccio e discutono. Parlano. E poi fanno pace. Ma il punto è che prima di fare la pace si so’ dovuti ferma’.
A Matteo Paolillo (che nella serie interpreta Edoardo Conte, nda) ho chiesto com’è andata con la storia della fama tutta e subito. Ha risposto citando un pezzo di Salmo. Tu che mi dici?
(Ride) Classico stile di Mat. Io ti dico che all’inizio è stata un po’ tostarella per me, non me l’aspettavo. Vedi questo enorme responso social e non riesci subito a contestualizzare. Ricordo la mia prima presa di coscienza: avevo finito le riprese di un film stupendo, Piano piano di Nicola Prosatore, e avevo passato le vacanze di Natale con il Covid. Intanto erano uscite le puntate di Mare fuori anche su piattaforma, e avevo iniziato a vedere i follower che schizzavano. “Bomba, sta andando bene”, avevo pensato. Passato il Covid sono uscito di casa e c’era un botto di gente che mi veniva addosso. Fu traumatico. Ero sceso normalmente, vestito male, e la gente mi riconosceva e mi fermava. Oggi nella vita di tutti i giorni a Roma lo avverto poco, ma a Napoli si sente forte.
Ma l’impatto è stato traumatico perché eri vestito male?
(Ride) È che io per iniziare la giornata ho una mia routine alla quale tengo molto. Mi sveglio, prendo il mio caffè, vado a fare una passeggiata ascoltando la musica. Torno a casa, prendo un altro caffè e inizio a lavorare. Spesso scrivo. È un’oretta che mi aiuta a centrarmi prima di iniziare il lavoro quotidiano, una coccola che mi fa vivere meglio anche il mio mestiere. Mi sono reso conto che a Napoli farlo ha iniziato ad essere difficile.
Vico Equense. Mamma professoressa, papà dirigente. L’idea che tu entrassi a far parte di questo mondo li spaventava.
Sicuramente spaventa quello che non conosci. E loro non avevano idea di come potesse funzionare questo lavoro, hanno fatto entrambi un percorso universitario. Mi permetto di dire che forse, per loro, sarebbe stato più facile guidarmi in un percorso più simile. Secondo me hanno avuto questa paura qui: e mo’? Come provo a proteggerlo da quello che c’è fuori? Poi mettici che è un lavoro precario, e che ricordo bene una loro frase: “Uagliò, quello è uno su un milione che ce la fa”.
Si sono ricreduti?
Si sono ricreduti quando hanno visto questo figlio con una cazzimma allucinante andare contro tutto e tutti. All’epoca ci fu un periodo di forti scontri perché la loro destabilizzazione faceva scopa con la mia, che da un momento all’altro non avevo punti di riferimento e facevo il pendolare tra Roma e Napoli. Mi rifugiai nella scrittura, scrivevo in continuazione, e alla fine ne è uscito fuori uno spettacolo teatrale, Diario di un bambino cresciuto. Un one man show che parla di questo percorso di formazione e dello scontro con l’autorità genitoriale, fino al momento in cui ci si ferma a parlarsi e perdonarsi. Mia madre oggi me lo dice sempre: “Tu lo devi proporre questo spettacolo”.
Sul set di Mare fuori ti hanno concesso di passare qualche volta dietro la macchina da presa. C’è un desiderio concreto di regia?
Di concreto c’è veramente poco. Di platonico, perché no? Non so se sia proprio la regia, però scrivo tanto. Mi piace ascoltare le storie degli altri e osservare da lontano. Forse vorrei partire dalla regia teatrale.
Quando ti sei trasferito a Roma facevi le pulizie nella tua scuola di recitazione, eri una sorta di guardiano tuttofare, e in cambio seguivi le lezioni che volevi. Ok che sembra l’inizio di un musical, ma non ti ha mai pesato?
In realtà ero molto orgoglioso. In quel periodo mi sentivo Massi contro il mondo, mi sentivo davvero il personaggio di un musical. Ero quello che chiamavamo “monitor”, mi occupavo delle pulizie e controllavo che venissero rispettate le regole, aiutavo ad allestire le scenografie… Questo mi ha permesso di mantenere un centro all’interno di un periodo in cui di centrato c’era veramente poco. Non è che non potevo permettermelo. Se avessi chiesto aiuto ai miei genitori ci saremmo scontrati, ma mi sarebbe stato dato. Però volevo fosse una cosa mia. Credevo fosse giusto così. Facevo un ragionamento preciso: io non ho mai lavorato, e domani potrei trovarmi sul set con un regista. Io devo poter essere in grado di rispettarne l’autorità.
Be’, questo ti fa onore.
Grazie. Che poi era una ficata. Seguivo tantissimi corsi, guardavo attori che studiavano da più tempo di me, magari rubavo con gli occhi mentre facevo finta di mangiare un tramezzino. Avevo la possibilità di parlare con tutti. C’era la signora Sofia che mi insegnava qualcosa di pianoforte, passavo in sala molto più tempo dei miei colleghi che pagavano la scuola.
Dici che ti sei innamorato del mestiere d’attore perché ti sembrava la cosa più vicina a quello del supereroe. Ora sei sul set di Uonderbois, ti hanno accontentato?
Assolutamente sì. Adoro la storia perché è radicata in Italia, a Napoli. Soprattutto è scritta veramente bene da Barbara Petronio, e diretta da due registi pazzeschi, Andrea De Sica e Giorgio Romano. Hanno un’intelligenza emotiva e nei confronti dell’immagine, da non sottovalutare. Questo progetto mi ha dato la possibilità di interrogarmi realmente sul concetto di eroe. Quando è arrivata questa cosa sono partito con le mie paranoie: da che iniziamo? Cosa vuole andare a dire lo scrittore con questa storia? E cosa voglio dire io? La parola eroe viene da eros, che è un po’ come dire che l’eroe è colui che fa quello che fa in nome dell’amore. Ma si tratta di un amore per la collettività, perché bisogna amare tanto la propria terra per rischiare la vita. Anche qui non guardiamo a Spider-Man, pensiamo a Falcone e Borsellino. Quanto amavano il loro Paese? So che sembra retorico, ma quando ci pensi davvero, non lo è.
Per l’uscita del film di Prosatore hai scritto: “L’adulto che sto diventando è anche e soprattutto figlio vostro”. Tu l’hai buttata lì, ma credo valga la pena salutarci così.
Infatti mi hai colpito che l’hai tirata fuori, mannaggia la miseria. Il fatto è che il confronto con le persone è la cosa che più mi fa crescere, e aver avuto la possibilità di farlo con Nicola Prosatore, che ormai è un fratello maggiore, è stato un punto di riferimento importante. Oggi significa anche avere gli strumenti per confrontarmi con un certo tipo di maturità con i miei genitori, o con i miei amici che fanno questo lavoro. L’adulto che sto diventando sarà davvero figlio di questi incontri qua.