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Mati Diop, il cinema come restituzione

La regista di 'Atlantique' è tornata con un nuovo film, 'Dahomey', un documentario molto potente sul rimpatrio di 26 manufatti (su 7mila) in Benin, già Orso d'oro a Berlino: «La pressione c'è, ma non riguarda l’industria, la carriera o i premi. È l’epoca in cui viviamo che mi mette pressione»

Foto: MUBI

«La pressione c’è, ma non riguarda l’industria, la carriera o i premi. Penso che le fondamenta politiche dei miei film mi proteggano dalla pressione esterna, per me la tensione viene dal riuscire a sorprendere me stessa e dalla necessità di sentirmi in linea con il mio tempo. A dirla tutta, è l’epoca in cui viviamo che mi mette pressione». Per Mati Diop «è importante costruire un’opera che sia in linea con la mia visione politica come filmmaker, come donna, come persona». Certo, l’ambizione è importante, ma lo è anche essere felice, spiega, «non rispondere agli automatismi della carriera, ma mantenere il piacere del processo. Si diventa vecchi facilmente se si iniziano a fare strategie sulla carriera. Che però resta comunque importante, devi anche guadagnarti da vivere con quello che fai». E con quello che ha fatto finora la regista e sceneggiatrice francese di origini senegalesi, classe 1982, si è portata a casa il Grand Prix a Cannes per la sua opera prima, Atlantique, e l’Orso d’oro a Berlino per Dahomey, che è ora nelle sale e arriverà prossimamente su MUBI.

Dahomey è un film difficilmente etichettabile, ma molto potente nel concept e nel messaggio: un documentario con tocchi fantastici sul processo di restituzione, imballaggio, identificazione, valutazione delle condizioni ed esposizione di 26 manufatti (su 7mila) che i soldati francesi saccheggiarono dal regno del Dahomey nel 1892 e che Macron ha deciso di restituire alla nazione, ora conosciuta come Benin. La camera da presa segue anche un accesissimo dibattito all’Università di Abomey-Calavi sulla restituzione delle opere: “Quello che ci è stato tolto più di un secolo fa è la nostra anima, la nostra capacità di essere fieri, di identificarci con la nostra essenza”, dice qualcuno. “Non saremo liberi spiritualmente, politicamente, emotovamente finché tutti questi lavori non saranno tornati nel loro posto d’origine”, afferma qualcun altro. La chicca del doc sta nella decisione di dare una voce a queste statuine, in particolare a una, quella di re Ghezo, che si autoidentifica come “N° 26”, alias il nome con cui viene elencato nell’inventario. Il suo è un ritorno amaro: dopo essere stato “tagliato fuori dalla terra natale, come se fossi morto”, quella che un tempo era casa sua ora è un luogo irriconoscibile.

Com’è nata l’idea di far parlare le statue?
Penso che i manufatti fossero prigionieri, ridotti all’invisibilità nei sotterranei di un museo, quindi chiusi in uno spazio di negazione, di silenzio, di alienazione, di oblio. Credo che le parole che abbiamo deciso di usare con lo scrittore haitiano Makenzy Orcel restituiscano l’ingiustizia di quella situazione. E poi non ho mai veramente immaginato questi artefatti come vittime. Gli abbiamo restituito una voce e ora possono tornare a essere narratori e attori della propria storia. Per me era molto importante dare loro spazio e punto di vista, interiorità, restituire loro il loro status di soggetti e non di oggetti esotici, che è qualcosa a cui, essendo una donna afrodiscendente, sono molto sensibile: il fatto di essere molto facilmente ridotta a una proiezione esotica. So bene, la mia carne sa bene cosa vuol dire essere ridotti a un feticcio esotico. E l’idea era di restituire alle statuine il potere. Per me questi manufatti sono mezzi che trasportano un esercito di anime di antenati, anime di antichi schiavi africani deportati dal Dahomey nella tratta transatlantica, anime di espropriati, anime dei migranti di oggi, anime di quella diaspora che viviamo da secoli. L’arte è un veicolo che contiene tutto ciò che puoi proiettare. Ed è stato un modo per restituire loro la capacità di azione di farci viaggiare nel tempo, attraverso il momento in cui li hanno presi e di sperimentare il senso del loro esilio. E poi ovviamente per permettere al pubblico di testimoniare la complessità della loro restituzione.

Ultimamente questo dibattito sul rimpatrio dei reperti è stato molto intenso in tutto il mondo: come viene visto questo argomento in Francia, soprattutto per quanto riguarda i tesori del Benin?
Sai, ci sono molti punti di vista diversi: la prospettiva neocoloniale, quella decoloniale…. Quindi, in generale, preferisco parlare della mia visione: il minimo che possa dire, almeno a livello politico, è che la situazione in questo momento è abbastanza congelata perché c’era una legge. No, in realtà stavano per essere votate tre leggi: una riguardava la spoliazione delle proprietà ebraiche, un’altra gli scheletri umani e una terza i reperti africani saccheggiati. Sono passate le prime due, e va benissimo. L’unico work in progress è ancora quella sull’arte africana saccheggiata. Non so perché ​​proprio questa in particolare incontri più resistenza, ma voilà, è così. E anche la Francia sta attraversando un’ondata di estrema destra, quindi non sono molto ottimista sull’evoluzione della situazione: come prospettiva politica, intendo. Ma immagino che nel mondo intellettuale, accademico e ora anche in quello del cinema, il dibattito sia in corso, e penso che sia una cosa molto positiva. Percepisco anche che, sempre di più, la conversazione tra il mondo accademico e il grande schermo sta diventando un tutt’uno. Il livello di consapevolezza si sta diffondendo, è essenziale che il film sia uscito adesso perché sappiamo che il cinema ha più impatto sulle persone rispetto ai libri, specialmente ai saggi. Sono davvero felice che Dahomey possa raggiungere il pubblico perché in Francia abbiamo incontrato una platea davvero grata di avere questa conversazione con i soggetti coloniali, perché penso che molti abbiano bisogno di elaborare quegli stigmi attraverso una finestra, che non è una limitazione delle colpe, ma delle responsabilità.

Dopo questo film, quali sono le tue aspettative e speranze rispetto al fatto che il cinema come industria mondiale possa finalmente accogliere e valorizzare davvero le prospettive africane sull’esperienza nera?
Finora, per quanto riguarda i miei film, sento di aver raggiunto il mio obiettivo con Atlantique: la mia intenzione era quella di rimanere molto vicino al mio linguaggio di regista, che è ibrido, è mio ma mi sembra anche accessibile e rivolto a un pubblico più vasto. Ed era molto precisa l’intenzione mia e del mio co-autore di Atlantique, cioè proporre un film molto speciale ma comunque popolare. Ovviamente il Grand Prix a Cannes e la diffusione su Netflix sono un segno incredibile dei traguardi raggiunti dal cinema africano, che si impone fieramente nel panorama internazionale. E questo è fondamentale per me, anche come nipote di Djibril Diop Mambéty. Lo faccio senza alcun peso né obbligo, con la mia personalità. Ma quello che mio nonno ha portato al cinema è unico, profondamente politico e sorprendente. Penso che il cinema sia una successione di onde che devono proseguire affinché continui a esistere, E, per quanto riguarda l’Africa, siamo sempre stati minacciati di scomparire, no? Che poi è il nucleo dei progetti coloniali: far scomparire le altre culture. Nel continente africano ci sono ancora fortissimi i segni della colonizzazione ovunque. Assistiamo anche alla tragedia di quello che il progetto coloniale sta facendo oggi alla Palestina, cercando letteralmente di eliminare una terra e le persone che ci vivono dalla mappa. Ho deciso molto presto che volevo mettere il mio lavoro al servizio di un certo cinema africano, perché l’identità dei miei film è molto mista, sono ibridi, non sono sicura che possano essere definiti “africani”, ma parlano comunque quella lingua: Atlantique è in wolof e spero che il film restituisca quella realtà. E poi con Dahomey… Non sai mai cosa succederà quando decidi di girare un film, ma con l’Orso d’oro a Berlino e la distribuzione su MUBI sembra che anche questo si stia imponendo nel panorama internazionale. Ovviamente è solo un cinema tra gli altri, ma sono davvero sono felice di rappresentare un dialogo globale più ricco. E penso che per noi, per il continente africano, il cinema sia sicuramente uno dei mezzi che possono davvero rivelare la rappresentazione di noi stessi e la nostra coscienza storica. Penso che sia uno degli strumenti più potenti per ricostruire quello da cui siamo stati espropriati per molto tempo e restituirlo anche alle nuove generazioni. Vediamo come si evolverà.

Mati Diop. Foto: MUBI

Pensi che la poesia del tuo film si proponga di mitigare le emozioni di rabbia e impotenza storica nate da quel saccheggio o credi che questo sentimento sia esacerbato da una nuova prospettiva?
Non ho una risposta, ma dopo Atlantique, a distanza di qualche anno, continuo a pensarci: ho avuto la sensazione che l’estetica e la poesia di quel film avrebbero potuto smorzarne la dimensione politica. Ho deciso di dedicare una pellicola a questi giovani emigrati dal Senegal in Europa perché c’è molta rabbia, tristezza, elaborazione del dolore ancora in atto per molti di loro che sono morti in mare. Atlantique è stato apprezzato per molte ragioni, ma cinque anni dopo ascolto i feedback delle persone e mi chiedo ancora se a volte la dimensione estetica e fantastica stemperi troppo la violenza del tema. E mi sono detta più di una volta che il mio linguaggio è il mio linguaggio, e non sono sicura di poter andare contro questo mio modo di esprimermi. Poi non so se si può definire “poetico”, ma sicuramente c’è questo aspetto fantastico nei miei film, quindi come mantenerlo senza allentare l’equilibrio del contesto? Ci sto ancora lavorando.

E nello specifico di Dahomey, com’è andata?
Continuo a pormi, in un certo senso, la stessa domanda sul mantenere questo equilibrio con la violenza del contesto coloniale. E penso che il dibattito in cui sentiamo gli studenti parlare delle conseguenze e degli stigmi della colonizzazione su di loro, con la loro voce, con le loro parole, è molto diretto: per me quella è verità, restituzione, perché sono le loro voci, le loro esperienze. Porta il livello di frontalità di cui avevo bisogno in questo film in termini di fatti. Poi, per quanto riguarda le statue, ne ho scritto le voci insieme a Makenzy Orcel. E a volte mi chiedo se i loro pensieri avrebbero dovuto essere più violenti, ma volevo che trascendessero la rabbia e parlassero da un luogo che è oltre, perché non sono vittime. Volevo che i manufatti avessero la dimensione più vasta possibile, e capisco quando qualcuno definisce questa parte “poetica”: la maggior parte delle persone usa questa parola per descrivere il mio stile, ma non sono sempre sicura di sapere cosa intendono. Perché come regista non vuoi mai essere riassunto in una parola soltanto. Non è certo sbagliato dire “poetico”, ma per me è soprattutto multidimensionale, e voglio assicurarmi che le statue abbiano abbastanza dimensione da rendere impossibile che siano rinchiuse in una sola definizione. Sono un’entità molto vasta: visibile, invisibile, morta, viva. E racchiudono in sé il nostro passato, presente e futuro.

Tornando al discorso della pressione, quanto è importante correre dei rischi?
Sono molto grata per quello che ho fatto finora, perché riesco a sentirmi in linea con la mia epoca, soprattutto con Dahomey a Berlino: è una mia scelta, è la mia visione, ma è in linea con l’urgenza dei miei tempi. E continuare è farlo è una sfida, perché non sono per nulla dogmatica e non inizierò mai a prendermi troppo sul serio e a dire: “Ok, adesso farò solo film politici”. Sto davvero cercando di reinventarmi, bisogna anche divertirsi visto che viviamo in tempi bui e, proprio come un musicista, devi trovare sempre il ritmo e la gioia. Adoro anche la commedia, che è il genere più impegnativo, come l’horror, sono così difficili da realizzare. Ma è molto importante correre dei rischi. C’è un regista che ammiro in questo senso: il brasiliano Kleber Mendonça Filho. Ha fatto Il suono intorno e poi Aquarius, che l’ha portato a essere identificato come il nuovo volto cinematografico del Brasile. E il suo terzo film [Bacurau] è qualcosa di molto ibrido, una storia pazza, incredibilmente generosa, audace e coraggiosa, qualcosa di inaspettato e quindi contrario alla costruzione di una carriera. Anche Jordan Peele per me è di grande ispirazione, i suoi film sono insieme così radicali ma anche in un certo senso inseriti in un sistema. Ecco, penso che la vera sfida sia rimanere un artista pure nel contesto dell’industria.

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