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Matt Damon nel bene o nel male

Nessuno incarna l’americano medio meglio di Matt Damon. Ma ora in “Suburbicon” di George Clooney finalmente incontra il suo lato cattivo
Elizabeth Weinberg/The New York Times

-- PHOTO MOVED IN ADVANCE AND NOT FOR USE - ONLINE OR IN PRINT - BEFORE JAN. 3, 2016. -- Matt Damon in Beverly Hills, Calif., Dec. 7, 2015. Damon is once again in the Oscar conversation, this time with a film about an astronaut stranded on Mars. (Elizabeth Weinberg/The New York Times)

Non lo direste mai, ma Matt Damon, la faccia d’angelo più amata di Hollywood, è un tipo davvero rock’n’roll. Gli U2 sono la band che si porterebbe su un’isola deserta, e ama vedere concerti di artisti che suonano insieme da tempo: a parte Bono e soci, «ho sentito più volte Bruce Springsteen, i Rolling Stones e i Pearl Jam. E mi piacciono molto i Black Keys: dal vivo sono strepitosi». La sua canzone? Ci pensa un attimo, perché questo è sempre un domandone, fatto così a bruciapelo, ma poi non ha dubbi: «Where the Streets Have No Name». E sorride. Come, del resto ha fatto per la maggior parte della nostra intervista. E mentre lo fa ti chiedi quale sia il suo segreto. Sì, perché quando l’ho incontrato alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia ho avuto conferma di quello che già sospettavo: Matt è un antidivo, è una superstar, ma ha il fascino del ragazzo della porta accanto: «Il regista di Downsizing, Alexander Payne, mi ha detto che gli piaccio proprio perché non sembro una stella del cinema: ho l’aspetto dell’americano medio». Insomma Matt è uno di noi, anche se – chiariamolo – ha uno sguardo che ti stende.

Eppure i film di Damon incassano più di quelli di Brad Pitt e Tom Cruise, è uno degli attori più richiesti e trasversali del cinema, con oltre 70 titoli che ha interpretato o doppiato, una ventina che ha prodotto e tre sceneggiature all’attivo. Per quella di Will Hunting – Genio ribelle ha vinto l’Oscar a 28 anni insieme all’amico Ben Affleck, e da allora ha recitato in ruoli diversissimi, con alcuni tra i più grandi registi sulla piazza: da Salvate il Soldato Ryan di Spielberg, all’antieroe del Talento di Mr. Ripley, dall’angelo caduto di Dogma, fino al poliziotto corrotto di The Departed diretto da Scorsese. E poi i vari Ocean’s, l’eroe d’azione Jason Bourne, ma anche Invictus di Clint Eastwood e The Martian di Ridley Scott. Senza dimenticare la più recente nomination dell’Academy come produttore per Manchester by the sea. E c’è di più: Matt Damon è il maestro dei camei fighissimi che non ti aspetti: ve lo ricordate in Eurotrip, rasato a zero e pieno di piercing? E lo avete già visto in Thor: Ragnarok? Non perdetevelo, è divertentissimo.

In Suburbicon, la sesta regia di un altro dei suoi amici di sempre, George Clooney, Damon si confronta (da paura, in tutti i sensi) con il primo vero cattivo della sua carriera: Gardner Lodge, un uomo apparentemente normalissimo che negli anni ’50 vive con la famiglia in una comunità di bianchi che sembra perfetta. Ma nell’America dei muri contro le minoranze (oggi come allora), basta graffiare la superficie per vedere il brutto. Pardon, l’orrore: «Questo tizio cerca di prendere il controllo per tutto il film, ci prova all’inizio di ogni scena e sistematicamente alla fine della sequenza non ci riesce mai. Abbiamo girato durante la campagna elettorale di Trump e l’ultima parte, dove c’è quell’escalation di violenza, è stata filmata due giorni dopo la sua elezione: “Questa è la rabbia bianca”, ho detto a George. Trump ha cavalcato un’ondata di odio e divisione, fino alla Casa Bianca». Suburbicon è il quartiere-tipo del sogno americano, dove i giardini sono perfetti ma dentro alle abitazioni sembra di essere in Fargo: significa che l’american dream è finito? «Non lo so, ma credo che ci siano così tante similitudini sorprendenti e preoccupanti tra il film e quello che sta succedendo. Ora vediamo l’oscurità sotto all’apparenza, basti pensare a quello che è successo a Charlottesville. Trump è l’istigatore di molti episodi, le sue parole stanno incoraggiando queste persone abbastanza da farle scendere in strada. Non avrebbero avuto la faccia tosta di provarci, cinque anni fa». Cosa può fare Hollywood? «Semplicemente essere testimone. Credo che il cinema sia un mezzo eccezionale per capire esperienze di vita diverse dalla propria: mi viene in mente Moonlight, che ho amato tantissimo. Passare un paio d’ore a comprendere il punto di vista dell’altro ed entrare in empatia, è il modo migliore per controllare qualcuno come Donald Trump».

Prima di Suburbicon Matt Damon aveva girato quattro film uno dietro l’altro, senza fermarsi. Il programma era di prendersi un momento di pausa. Ma Clooney è uno a cui non puoi dire di no: «Mi ha mandato il copione quando ero sul set di Jason Bourne. Le riprese dovevano svolgersi ad Atlanta ma, dopo Downsizing, avevo giurato a mia moglie Luciana e alle mie figlie che saremmo tornati a Los Angeles per un po’. Poi George mi ha scritto un messaggio: “E se filmassimo a L.A.?”. Sono passato da quattro a cinque film di fila in un nanosecondo». Com’è lavorare con Clooney? «Ho firmato un accordo di riservatezza, non posso dire nulla. A questa domanda risponderà il mio avvocato», ride Matt. «No dai, è davvero facile: mi ha diretto diverse volte, ha le idee chiarissime e non ho mai sentito nessuno alzare la voce sul set. In più è affiancato dal meglio del meglio dei professionisti in circolazione. E anche recitare con Julianne Moore (che nella pellicola interpreta due gemelle, nda) è uno spasso». Se in più ci aggiungi che la sceneggiatura è firmata dai fratelli Coen, con tutte le pennellate pulp che ne derivano, la squadra perfetta è al completo: «Hanno scritto il copione dopo Blood Simple – Sangue facile, negli anni ’80: ci sono tutti i temi e le situazioni che avrebbero caratterizzato le loro pellicole. Ovviamente c’è un protagonista che non ha il controllo, delle spirali di situazioni folli. E tutto continua a peggiorare sempre di più… In pratica, anche se Joel e Ethan non sono venuti a farci visita sul set, era come fossero sempre lì».

Con Suburbicon Matt Damon è finalmente passato al lato oscuro, ma quando lo vedremo dietro la macchina da presa? «Ho sempre voluto farlo, pensavo che ci sarei già riuscito a questo punto, ma non ho materiale al momento, forse sono troppo impegnato. Dovevo dirigere Promised Land, che ho scritto con John Krasinski, e anche Manchester by the Sea. Ma quando Kenneth Lonergan mi ha mandato la bozza dello script, ho esclamato: “Devi farlo tu, questo è il tuo film”. In pratica continuo a passare la mano e ne escono dei prodotti bellissimi!». Spielberg vent’anni fa gli disse: “Prendi una piccola storia e vedi se hai il dono di raccontarla”. «Lui ovviamente l’ha fatto con Duel, un uomo nella sua auto all’inseguimento di un’autocisterna, un’idea così semplice ma allo stesso tempo brillante. Vorrei mettermi al lavoro su un progetto piccolo, che riguarda le persone, un po’ alla Manchester».

E, in attesa di debuttare alla regia, Damon continua a calcare i red carpet di tutto il mondo, ma confessa che, nonostante l’abitudine, una cosa non è mai cambiata: l’agitazione da bagno di folla. Perché essere una star sarà pure bello, ma c’è anche il rovescio della medaglia, che Matt conosce bene: «Prima di mettere piede sul tappeto rosso, quando tutti urlano, mi viene ancora l’ansia dopo tutti questi anni. Cerco sempre di tenere separati quei momenti, non voglio portarmeli nella quotidianità perché sono totalmente surreali. In Italia poi le persone sono molto entusiaste ed è fantastico. Ma, se non dovessi mai più fare un red carpet in vita mia, per me andrebbe benissimo!».

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