Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone US il 15 ottobre 1981.
Questo mi ricorda un sogno che faccio a volte, in cui mi trovo in cima a un pilastro e non riesco a vedere alcun modo per scendere. Quando guardo giù, mi gira la testa; devo scendere, ma non ho il coraggio di saltare. Non riesco a stare lì e desidero cadere, ma non cado. Non c’è tregua.
– Meryl Streep nella Signorina Julie di Strindberg
Meryl Streep diventa nervosa. Non sempre, sia chiaro. Ma ci sono momenti in cui un brivido inquietante le corre lungo la schiena, attimi introspettivi in cui sembra che le pareti del suo edificio ben costruito possano crollare con uno schianto violentissimo.
Chiacchiera, con un’espressione preoccupata che attraversa il suo volto angelico, dei suoi timori per gli incidenti nucleari, delle sue preoccupazioni per la sicurezza del mondo per colpa della bomba a portata di mano di Ronald Reagan. E in qualche modo, sebbene questi sentimenti sembrino sinceri, c’è qualcosa di vuoto nella loro esposizione. Meryl insiste che sono tutt’altro che posticci, ma poi cede un po’. Un’attrice, forse meglio di chiunque altro, è sempre in grado di individuare una nota falsa.
«Non sono molto auto-analitica», dice lentamente. «Ma ho pensato che forse molta della mia ansia nei confronti di queste cose potrebbe avere a che fare con… è un modo per spostare le mie ansie a proposito della mia incredibile fortuna. Forse è il mio modo di affrontarla. Mi è arrivata tanta felicità e penso che da qualche parte qualcuno debba pagare».
«È per via di tutte le cose entusiastiche che sono state dette su di me», continua. «Io mi trovo in mezzo a tutto questo: uno mi manda dei fiori, l’altro se ne accorge, quindi pensa che ora è il momento di scaricare merda».
Questa è, in effetti, un’aspettativa ragionevole, visto che viviamo in un mondo di volubile idolatria. Ma gli aspiranti demistificatori si trovano di fronte a una dura lotta; le sue autovalutazioni sono molto più severe di qualsiasi cosa un critico potrebbe inventare. Più si sale, più la caduta è rovinosa. Meryl Streep si considera fortunata e sa quanto è brava, quindi è determinata a continuare a mettersi in discussione per continuare la scalata.
Prendiamo La donna del tenente francese. Nei panni di Sarah, la misteriosa eroina incappucciata della Gran Bretagna rurale vittoriana di John Fowles, Meryl deve portare, per la prima volta nella sua carriera, il doppio fardello di un ruolo da protagonista e dell’uso sullo schermo di un accento oscuro. Poco prima dell’inizio delle riprese, Meryl si sedette con un conoscente in un parco londinese, tremando: “Sono così spaventata, sono così spaventata di fronte a una cosa così importante”. Anche il regista, Karel Reisz, si rese conto di questo turbamento, ed temeva che Streep non riuscisse a riprodurre le bizzarre inflessioni vocali ottocentesche, così cruciali per la parte. “Meryl era molto preoccupata all’inizio”, ha raccontato. “Avevamo anche previsto di recitare in playback alcune di quelle parti, se fosse stato necessario”.
Ma non è stato così. Meryl si è concentrata, si è concentrata, e ha applicato il tipo di intensità che ha stupito tutti quelli con cui ha lavorato. Ha assunto un voice coach e ha trascorso ore interminabili a leggere ad alta voce brani di Jane Austen e George Eliot per perfezionare i suoi sforzi. Quando le riprese della Donna del tenente francese erano in corso, il coinvolgimento di Meryl era così intenso che un amico intimo che aveva chiamato da New York non aveva riconosciuto la sua voce.
Ora, questa trasformazione non è eccezionale, in una brava attrice. Fa parte del lavoro, questo entrare e uscire dai personaggi. Ma ciò che la rende così strana, nel caso della Streep è che, nonostante la sua abilità senza sforzo e il suo modo straordinario di infilarsi nella vita e nella psiche di qualsiasi personaggio, lei stessa ha seri dubbi sulla sua capacità di farcela. Forse perché non ha mai fallito una sfida professionale, c’è una pressione interna in lei, una dinamica difensiva, che la sprona alla grandezza impedendole di scivolare nel compiacimento.
«Quando Meryl è in scena, ha lo sguardo di una vera combattente», dice Elizabeth Wilson, un’attrice di lungo corso che ha recitato più volte con Streep. «Ma anche se non lo si vede quando recita, Meryl soffre molto prima di una prima. Suda, cammina. È molto, molto nervosa, più di chiunque altro abbia mai conosciuto».
«Mi diceva: “Mi chiedo perché la gente abbia così tanta paura di stare sul palco”», continua Wilson. «Così le raccontavo storie di attrici a cui sono molto legata che dicevano: “Ho tanta paura di perdere il controllo sul palco, di morire”. E Meryl replicava: “Lizzie, tu ci credi?”. E io rispondevo: “Sì”. E l’espressione sul suo volto si faceva così terribilmente triste. Mi è dispiaciuto avergli detto quelle cose».
È proprio come la preparazione che Meryl fa con suo fratello Harry, un ballerino di danza moderna, poco prima di ogni prima, nel momento in cui sente che «tutto quello che faccio è una merda». Lei gli dice: “È la cosa peggiore che abbia mai fatto”. Al che Harry risponde immancabilmente: “Non ti ricordi? Questa non è la cosa peggiore. L’ultima cosa che hai fatto è stata la peggiore”.
La versione di Meryl sul perché di tutto questo è più tecnica che emotiva. «Non ho un metodo. Le persone che usano metodi di rilassamento si sentono sicure di avere “la via” nascosta nei loro copioni. Io non ce l’ho. In un certo senso, affronto tutto da una strada diversa».
E il suo approccio, quello che apparentemente spiega questa angoscia, è semplicemente quello di assumere la vita di chi sta per ritrarre. Diventare parte del paesaggio, come dice giustamente Meryl, vedere il mondo di un personaggio e semplicemente entrarci. Scomparire nella realtà distorta della finzione recitativa ed emergere nei panni di qualcun altro.
Farlo troppo bene può essere spaventoso.
In trent’anni ho fatto ben poco, se non armarmi contro la certezza che le persone muoiono o si raffreddano o se ne vanno per sempre, dopo una bella serata, e il mondo cambia.
– Meryl Streep nel ruolo di Andrea in Taken in Marriage di Thomas Babe
A trentadue anni, Meryl Streep è ben corazzata. Sempre in pieno controllo di sé, cauta fino all’inverosimile. Il mondo è pericoloso e Meryl fa di tutto per tenere le sue cattiverie lontane dalla sua porta. Recitare è il suo modo per farlo. Come è difficile separare la ballerina dalla danza, così si arriva facilmente a divinizzare Meryl Streep quando è impegnata nella recitazione di un testo. «È raro che Meryl non sia coinvolta profondamente in quello che sta facendo», dice Joe Papp, direttore dello Shakespeare Festival di New York e produttore di molti dei trionfi teatrali di Streep. “Non credo che vi rinunci, né sul palcoscenico né in qualsiasi altro luogo».
«Se siamo a cena e ci sono suo figlio e suo marito, è una cosa», continua Papp. «Ma quando si tratta di una situazione più pubblica, le sue antenne si drizzano e i segnali di allarme si attivano. In realtà, ha una certa timidezza, e in gran parte si sta sempre proteggendo».
Il motivo è più pragmatico che nevrotico. La conseguenza della celebrità è l’esposizione e il rischio. Streep parla di persone strane che la aspettano fuori dal suo appartamento di Lower Manhattan quando torna a casa dal teatro a tarda notte; lei, suo marito Don Gummer, uno scultore, e il loro figlio neonato, Henry, si stanno ora trasferendo in un loft simile, ma molto più sicuro. È un argomento delicato, che la fa infuriare. La sua reazione alla giornalista di una testata locale che ha di fatto fornito le indicazioni esatte per la sua casa isolata a nord di New York – una minuscola casa di tre stanze circondata da quaranta ettari di abeti – è stata particolarmente velenosa: «Le ho scritto: “Che ti passa per la testa? Non vivo come i Kennedy. Non ho una tenuta e nove Weimaraner che fanno la guardia. Ci fai solo diventare dei bersagli facili”».
«Non sono diffidente in generale», prosegue. «Ma sono molto diffidente in questo settore, quindi starò attenta a quello che dico. È una cosa triste, perché una volta ero più critica. Cioè, lo sono ancora, ma lo ero in maniera più forte. Ora le mie opinioni vengono spesso distorte. Se dico: “Questo e quell’altro fanno davvero schifo”, la cosa viene riportata in modo sproporzionato rispetto a come l’ho pronunciata. Ed è così faticoso andare in giro a correggere quel che è stato scritto su di te: “Guarda, non intendevo dire questo”. Ti senti come un politico. Chi vuole vivere così?».
La soluzione, ha scoperto Meryl, è semplicemente non uscire più. È un compromesso che dovuto fare ma che aborrisce, una resa nei confronti di una cultura pettegola e ficcanaso che le rende difficile persino andare nei musei o nelle gallerie o semplicemente girovagare senza essere riconosciuta o infastidita. «Mi sembra», dice, «che quando diventi famoso, molte delle tue energie siano usate per mantenere ciò che avevi prima di essere famoso: il tuo senso di osservazione, la capacità di guardare le altre persone. Se ti tolgono il potere di osservazione, sei perduto».
Per un’attrice, questo è un duro colpo. Allora perché ha voluto, anche se in modo molto elegante, rendere il suo volto oggetto di un’attenzione quasi da fenomeno? Certamente per contribuire alla promozione dei film in cui crede, e anche per promuovere la sua carriera in un momento in cui le stelle o si innalzano o si trasformano in supernove. È necessario farlo, ma Meryl comprende bene l’assurdità e la caducità di un personaggio pubblico.
Si racconta, ad esempio, che al Public Theater di New York il primo ministro canadese Pierre Trudeau abbia assistito a uno spettacolo di Meryl. Dopo lo spettacolo, Trudeau andò dietro le quinte per porgerle i suoi omaggi, e poi le chiese prontamente di uscire. Meryl, leggermente stupita, rifiutò educatamente. Quando Trudeau se ne andò, disse a un collega: “Non capisco. Perché le persone famose vogliono incontrare solo altre persone famose?”.
L’aneddoto si fa ancora più divertente. «Mettetevi nei miei panni», dice Streep. «Passate davanti all’edicola tra la 57esima Strada e la Sesta Avenue e c’è la vostra faccia sulla copertina di una rivista. Una settimana dopo, sei in metropolitana e c’è quella copertina, con la tua faccia, per terra. Probabilmente qualcuno ci ha pisciato sopra. È la sensazione immediata di come andrà a finire».
Per sfuggire a tutto questo, Meryl si rimette la maschera e diventa un’altra persona. Due dei suoi ruoli recenti l’hanno trasportata attraverso il tempo e lo spazio; la decisione deliberata da parte sua era proprio quella di assumere nuove vite.
Prima c’è stato Alice in Concert, una versione musicale di Elizabeth Swados di Alice nel paese delle meraviglie, in cui Meryl si è scatenata sul palco con una tuta viola per interpretare una curiosa bambina di sette anni. Mentre si rotolava sul palco, giocherellava con i capelli o fissava imbronciata i suoi piedi, ti faceva credere di essere davvero una bambina precoce. In un certo senso, anche Meryl ci credeva.
«Avevo appena fatto tre film, e avevo bisogno di saltare e riprodurre i modi in cui vedo giocare il mio bambino», dice. «Volevo dimenticare il mio aspetto, non essere cosciente di me stessa, avere quella libertà che hanno i bambini quando fanno qualcosa in mezzo a una stanza piena di adulti che li guardano e a cui non importa nulla. Certo, forse posso andare da un analista, ma non mi è mai venuto in mente di farlo».
Poi, con La donna del tenente francese, l’occasione per lei era molto simile: la possibilità di fingere, di lasciare che la sua immaginazione diventasse la verità. Dopo aver interpretato donne contemporanee in tutti i suoi film più importanti, Meryl ha scelto di mettersi in ghingheri per dare il volto a una donna di cent’anni fa. «Ho detto al mio agente: “Devo fare qualcosa lontano da Manhattan e dal 1981. Qualcosa che sia completamente fuori dalla mia esperienza”», ricorda Meryl. «”Mettetemi sulla Luna, voglio essere altrove. Voglio essere rinchiusa nei confini di un tempo e di un luogo diversi”».
Come dice Karel Reisz: “Alcuni attori si sentono in difficoltà, quando devono indossare un costume. Meryl si sente liberata da essi”.
Vedo che una donna può essere resa ridicola se non ha uno spirito di resistenza.
– Meryl Streep nel ruolo di Caterina nella Bisbetica domata di Shakespeare
Quando il drammaturgo Christopher Durang frequentava la Yale School of Drama nei primi anni Settanta, Meryl Streep era la prim’attrice del college. Riconoscendo il suo notevole talento, la scuola la fece lavorare tantissimo, portandola allo sfinimento. Meryl stava al gioco dei dirigenti di Yale, ma, ricorda Durang, la sua capacità di sopportare i più stupidi era limitata allora come oggi.
«In un saggio di recitazione, lei fu scritturata come regina e io come suo figlio in Vita di Edoardo Secondo d’Inghilterra di Brecht», racconta Durang. «Abbiamo provato per un paio di settimane e non stava andando bene. Il regista aveva accennato al fatto che voleva ispirarsi al circo per la messa in scena; quando sono arrivati i costumi, Meryl si ritrovò vestita come una trapezista: aveva perline sul petto, perline sull’inguine… facevano rumore ogni volta che camminava. Ebbene, lei indossò il costume e lanciò al regista uno sguardo di fuoco. Disse che non avrebbe mai recitato con quel vestito. E così ha fatto, senza le perline».
Per una star il cui cachet cresce di progetto in progetto c’è l’enorme tentazione di accettare produzioni meno raffinate ma piene di soldi e lasciare che i critici scrivano le loro recensioni negative. Ma Meryl Streep non fa filmacci, si rifiuta di accettarli. Tutte le sue imprese cinematografiche – Giulia, Il cacciatore, Manhattan, La seduzione del potere, Kramer contro Kramer e La donna del tenente francese – sono state prodotti di qualità e non necessariamente i più redditizi. Infatti, per La donna del tenente francese Meryl ha ricevuto 350mila dollari, una somma non certo elevata per gli standard odierni di Hollywood. Tutto questo è il risultato di un enorme orgoglio e di una natura intransigente, più ostinata che severa.
«Meryl ha sempre puntato sulla forza delle sue convinzioni, e queste convinzioni sono sempre state granitiche», dice Kate MacGregor Stewart, attrice con Streep a Yale. «So di lavori che ha rifiutato in momenti in cui sarebbe stato utile per lei avere quelle cose».
Streep dice di essere semplicemente paziente e motivata dal bisogno di essere «coinvolta» da qualsiasi cosa stia facendo, evitando la noia interpretando personaggi la cui anima ha più di una sola dimensione. «Questo è un periodo particolarmente poco coraggioso dal punto di vista intellettuale e artistico, anche in termini di intrattenimento», dice. «E sono preoccupata, perché il mio sostentamento è minacciato: non sono interessata a fare la maggior parte dei film che vengono realizzati. La gente pensa che tu faccia delle scelte in base a una serie di personaggi che ti vengono messi davanti. Be’, non è così. Ci sono così poche sceneggiature ben scritte che se c’è qualcosa di promettente, ci si butta a capofitto. Li pagheresti tu per fare quei film».
Non si tratta di un’affermazione elitaria o moralista come sembra. È semplicemente realistica, ed è un modus operandi raggiunto grazie a un’imponente abilità e un notevole gusto. Ma deriva anche da qualcos’altro, forse dall’eccezionale fortuna di Streep. Raramente Meryl è stata messa in un angolo, e le cose le sono venute generalmente facili. È una persona che non ha mai dovuto lottare davvero.
«Mi trovo nella posizione in cui posso rifiutare dei lavori», dice. «Non devo mantenere cinque figli da sola. Ho questo lusso. Certo, quando hai la possibilità di aspettare tra un lavoro e l’altro, puoi avere tutta l’integrità e gli scrupoli che vuoi».
Ma se non avesse avuto questa libertà? «Non so cosa sarebbe successo. Non l’ho mai sperimentato. Non sono andata in disoccupazione solo per vedere cosa avrei fatto».
Sì, ma se si creasse un dilemma morale? «Non lo so. Ma ho sempre pensato questo: “Non correre mai per un autobus, ce ne sarà sempre un altro”».
Questo temperamento inflessibile va ben oltre il suo lavoro. Quando frequentava Vassar, Meryl si rifiutò di unirsi alle proteste contro la guerra perché pensava che i principali partecipanti fossero ipocriti. «Era il primo anno in cui Vassar era co-gestita, con quaranta uomini e 1.600 donne. Ma l’intero comitato di sciopero era composto da ragazzi; hanno preso il controllo e si sono lasciati andare. Sono molto sensibile al teatro, e questi ragazzi era come se stessero recitando una parte. Ognuno era un mini-Abbie Hoffman (attivista e politico, co-fondatore dello Youth International Party, ndt) davanti a questo sciame adorante di ragazze. Ho pensato che fosse una stronzata».
Per quanto riguarda la sua vita privata, Meryl ne parla solo raramente, per paura di sminuire la sua sfera più intima. Ciò è particolarmente vero se si parla di John Cazale, il giovane e bravo attore che è stato il compagno di Meryl fino alla sua morte per cancro nel 1978. Avevano terminato insieme le riprese del Cacciatore e poi Meryl era partita per l’Austria per girare la serie Olocausto. Tornò in tempo per trascorrere gli ultimi mesi di vita dell’attore al suo capezzale, isolandosi dal mondo e concentrandosi unicamente sul mantenere vivo il suo spirito attraverso la sua incrollabile compagnia. Fu l’unica vera tragedia nella sua vita altrimenti di porcellana.
Non molto tempo dopo la morte di Cazale, il New York Times Magazine pubblicò il primo lungo profilo di Streep. L’attrice raccontava alcuni dettagli della loro relazione e da allora, a quanto pare, le domande su quella storie sono diventate obbligatorie da parte dei giornalisti, che cercano sempre di farla uscire allo scoperto. Ma Meryl è disgustata da tutto questo, e saggiamente non sopporta le intrusioni nei recessi del suo cuore.
«È così avvilente parlare di qualcosa che significa moltissimo», dice, «e doverlo rendere interessante ogni volta che lo si racconta. Così ora mi limito a dire: “Preferirei non parlarne”, o a fornire una sorta di frase riassuntiva. E grazie a questa omissione, credo che diventi più allettante». L’unica vera eccezione è stata la narrazione di una serie di videocassette intitolate Coping with Serious Illness (“Affrontare le malattie gravi”, ndt) per Time-Life.
Sentivo di avere qualcosa da dire alle persone che stavano passando tutto quello», dice. «Tutto il resto è semplicemente ruffiano. È difficile, però. Perché a volte ho la sensazione che quando leggo qualcosa che qualcun altro ha detto – anche la spazzatura pubblicata da riviste come People – e che ha a che fare con la mia vita, sono grata che l’abbiano inserito. Allo stesso tempo, penso che dovrei essere io a parlarne, così è come se fossi messa in vendita».
La fonte della sua indignazione è chiara. Meryl aveva incontrato per la prima volta Cazale in occasione dell’edizione di Misura per misura a Central Park. Dopo la prima replica, il cast ha festeggiato in un bar dell’Upper West Side, dopodiché Streep e Cazale sono andati a cena alle tre del mattino. Tornò a casa alle cinque, non riuscì a dormire e i suoi occhi sembravano due pomodori quando si presentò qualche ora dopo per un’intervista con i giornali.
«È stata un’esperienza meravigliosa, una notte meravigliosa. È tutto quello che posso dire», ricorda Meryl. Il suo sguardo assume un’espressione lontana, fissa su un punto a milioni di chilometri di distanza. Sorride, seppur lievemente, e poi rimane in silenzio per molti istanti.
Un silenzio dignitoso, magico.
Sì, sono una persona straordinaria.
– Meryl Streep nella Donna del tenente francese
Ci sono pochi indizi. Una cosa che rende Meryl Streep così intrigante è l’assoluta mancanza di un passato “interessante”. La sua vita, la sua giovinezza, sembrano comuni e banali, un ambiente confortevole che rivela ben poco dell’interprete che è.
La sua infanzia si è svolta a Bernardsville, nel New Jersey, un’enclave suburbana di case ben tenute e famiglie benestanti. Nessuno dei suoi genitori aveva un’inclinazione teatrale (anche se il padre, dirigente d’azienda, a volte componeva canzoni), e Meryl non aveva ambizioni precoci nei confronti del palcoscenico. Fino al liceo, infatti, si è trovata a malapena presentabile: occhiali, capelli smorti, il tipo di ragazza che evitavi sull’autobus di ritorno da scuola.
Ma con un tocco quasi da artista cambiò la sua immagine di adolescente, e fu una bella performance. Il look trasandato è sparito, i capelli sono stati illuminati dall’acqua ossigenata e sono nate una cheerleader, un’atleta e una reginetta del ballo. «Tutti sono coscienti di sé a quell’età», dice. «Vuoi conformarti, essere perfetta, adattarti, avere le scarpe giuste. Vuoi essere sicura che non vomitino quando ti guardano».
E mentre sbocciava socialmente, stava accadendo qualcos’altro. Meryl prendeva lezioni di canto da quando aveva dodici anni e, come se volesse completare la sua sana e normale vita da adolescente, decise di fare un provino per la recita scolastica: lo spettacolo era The Music Man.
È difficile scrivere in modo intelligente dell’evoluzione di Meryl Streep come attrice. Perché la cosa più impressionante di lei è che il suo talento sembra essere arrivato completamente formato, rendendola una sorta di “buon selvaggio” del palcoscenico. Meryl è il tipo di attrice consumata la cui performance in scena è sempre così radiosa, così avvincente, che non poteva che venire da un talento naturale.
Naturalmente, lei può e sa parlare in modo eloquente degli inizi del suo lavoro. Come ha imparato a immergersi totalmente in un personaggio, come si affida al suo istinto, come deve sentire che una battuta o un movimento sono giusti, come riduce le sue azioni sul palcoscenico per evitare gli eccessi, come il registro basso della sua voce ha bisogno di più allenamento se vuole recitare di nuovo Shakespeare. Ma tutti i dati tecnici non possono spiegare “il Dono”: essere davvero un’altra persona durante la recita, pur lasciando filtrare il proprio essere, ovvero il suo calore, la sua intelligenza, la sua sensibilità e il suo umorismo.
«Uno dei nostri direttori, Clint Atkinson, mi chiese: “Perché non facciamo La signorina Julie?“», ricorda Evert Sprinchorn, un tempo direttore del dipartimento di teatro di Vassar. «Io dissi di no. Non volevo vederlo massacrato, e poi ha solo tre ruoli. Allora Atkinson mi disse: “Be’, perché non vieni a una lettura stasera e vedi cosa ne pensi”. Così sono andato, e dopo circa dieci minuti ho visto che Meryl era semplicemente eccezionale. Ti colpisce dritto negli occhi. Ho guardato Atkinson dall’altra parte del tavolo e ho fatto cenno di sì».
Ciò che ha reso la cosa ancora più sorprendente è che La signorina Julie è una parte notoriamente difficile, e Meryl non aveva mai visto quell’opera – né nessun’altra opera seria – prima della sua esibizione al college. Poco dopo essere entrata alla Yale Drama School con una borsa di studio, è diventata l’attrazione principale della compagnia, attirando un pubblico attento fatto di critici e produttori di New York. I maggiori consensi sono arrivati per i suoi ruoli comici (se ne ha l’opportunità, Meryl quando cala il sipario si produce in imitazioni spassosissime), in particolare quello della traduttrice russa Constance Garnett, pazza e storpia, in The Idiots Karamazov.
«Tom Haas diresse la produzione studentesca e ce l’aveva con Meryl», dice Christopher Durang, che ha scritto quella farsa con Albert Innaurato. «Haas pensava che Meryl distogliesse troppo l’attenzione dal discorso di un altro personaggio, nel finale della commedia, perciò le disse di farne meno. E lei lo fece. Ma quando è calato il sipario, Meryl si è messa a improvvisare correndo sulla sedia a rotelle per il palcoscenico, gridando: “Andate a casa! Andate a casa!”. Poi ha finto un attacco di cuore. È stato esilarante. E si è vendicata».
Meryl rifiutò la richiesta del preside della scuola di recitazione Robert Brustein di rimanere nella compagnia universitaria dopo il diploma e, dovendo a Yale 4.000 dollari, lasciò New Haven per Manhattan. Era stufa della pressione accademica, stanca degli insegnanti che cercavano di imporre una varietà di tecniche sul suo stile e pronta a sfondare. Superò la sua prima audizione, una produzione di Papp di Trelawny of the Wells al Lincoln Center.
Da allora, si è rifiutata di prendersela comoda, portando sé stessa e i suoi colleghi ai massimi livelli teatrali. Meryl discute con forza con i registi e i membri del cast per far valere le sue idee e, sebbene sia disposta ad ascoltare le controproposte, in genere rimane ferma. «Meryl non cede», dice Papp. «È un’attrice tenace sia nelle prove che in tutto il resto. Può essere scherzosa e femminile, ma anche se gioca, non è mai un gioco».
Questo atteggiamento senza fronzoli spaventa e allo stesso tempo attira il rispetto dei suoi colleghi. «Ogni volta che mi ha suggerito qualcosa, mi sono fidato di lei e l’ho almeno provata», dice Jeremy Irons, suo partner nella Donna del tenente francese. «Ho provato a fare come diceva lei».
«Quando abbiamo girato la scena del fienile, in cui Meryl si sveglia con me che la sorveglio, dopo molte riprese non stava andando bene», continua Irons. «Così è venuta da me, mi ha scosso fisicamente e mi ha detto: “È difficile, è difficile. Devi farlo, però, e non è mai facile”».
Irons dice che la scossa di Meryl ha avuto un buon effetto su di lui, un effetto generalmente condiviso da coloro che hanno incrociato questa sua devozione a dare il meglio. «Tutto ciò che dice di poter fare, lo può fare», dice Robert Benton, che ha diretto la Streep nell’imminente Una lama nel buio e nel precedente Kramer contro Kramer. «Combatte sempre in modo ragionevole e intelligente. Non ho mai visto una manifestazione di rabbia da parte sua. È una persona straordinariamente saggia. È sempre stata in grado di trovare nei personaggi un’intensità e un’umanità che a volte non sapevo nemmeno che ci fossero».
E per Streep? Perché questi incessanti tentativi di perfezione? «Perché ripaga», dice. «Forse solo poche persone, a quel punto, vedranno la menzogna. Ma più persone vedranno la verità, in ciò che stai facendo. E diranno: “È proprio così. Mio Dio, è successo anche a me”».
«Ma, vedi, al di fuori della mia area di competenza, non me ne frega niente», continua. «Non sono esigente. Sono una sciattona. Mio marito e io ne parlavamo proprio oggi. Stiamo facendo il nostro loft e l’architetto è molto preciso sui dettagli. E per alcune cose penso che sia importante. Ma in realtà non me ne frega niente, se non avremo il tavolino perfetto. Non voglio che la gente entri e dica: “Wow! Fantastico! Chi ha fatto la casa?”».
«Così mio marito ha avanzato l’ipotesi che forse non sono molto tollerante. “Nel tuo lavoro”, mi ha detto, “pretendi che ogni dettaglio sia perfetto. Perché non riesci ad accettarlo anche qui?”. E io ho risposto: “Be’, perché questa è casa mia!”».
E Meryl ride di cuore. «È solo se tutto questo è applicato al mio lavoro che mi interessa davvero. Perché è un limite che capisco. Posso essere esigente quanto voglio, ma solo entro i confini della finzione».