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Mi manda Nanni Moretti

Un esordio, ‘Quanno chiove’, che non assomiglia a nulla di quello che si vede da noi. Una lettera spedita all’autore di ‘Caro diario’. E l’elezione, da parte di quest’ultimo, a ‘Bimbo Bello’ nella sua rassegna dedicata ai debuttanti. Vi raccontiamo Mino Capuano. E un cinema che è ancora possibile

Foto: Alain Parroni

Voleva fare i film che diceva lui e nel modo in cui diceva lui: negli anni Ottanta ha fondato la società di produzione e distribuzione Sacher Film. Voleva creare un’oasi incontaminata dalla crisi delle sale: negli anni Novanta la Sacher ha acquistato le mura di un edificio romano abbandonato e lo ha reso il quartier generale della programmazione d’autore. Voleva provocare il disinteresse del settore verso le opere prime: all’inizio del Duemila ha ideato Bimbi Belli, una rassegna dedicata solo ai migliori esordi italiani da lui selezionati. Chi viene scelto da Nanni Moretti riceve il battesimo pubblico nel cuore di Trastevere, con un’arena a disposizione per giocarsela in grande e un tête-à-tête con Moretti di fronte alla platea. È il ballo delle debuttanti dei nuovi autori.

Questa estate al Nuovo Sacher ha debuttato anche Quanno chiove, l’opera prima di Mino Capuano (nato nel ’94 a Marcianise, in provincia di Caserta), che con Moretti condivide un bel vizio di natura: quello di voler fare cinema fregandosene delle tendenze e delle regole. Chi era presente in platea lo scorso giovedì ha notato sostanzialmente due cose: che Capuano è un folle e che il dibattito con Moretti sembrava la gag di un suo film. Come questo film autoprodotto e senza una distribuzione sia entrato nelle grazie di Nanni, invece, è un’avventura da cui trarre ispirazione ma pure uno schiaffo morale all’industria cinema. Ecco la storia del Maestro che ha preso il regista indipendente e ne ha fatto un Bimbo Bello.

Capitolo 1: la lettera

Mino Capuano con Nanni Moretti. Foto: Alain Parroni

La prima volta che ho incontrato Mino Capuano, ormai parecchi anni fa, mi è parso il più timido del gruppo Threeab (questa combriccola di autori anarchici e punkettari del cinema indipendente ve la racconterò presto). L’ironia campana del fuorisede a Roma c’era tutta, ma c’era in lui anche una certa riluttanza verso i rapporti umani che gli conferiva quasi un’aria infantile (vi ricorda qualcuno?). Così l’ho ribattezzato Minù. Ho capito solo più tardi cosa gli stesse macinando dentro, quando ho scoperto l’universo emotivo dei personaggi della sua opera prima, frutto di un’osservazione romantica e amarissima dei sentimenti. Eppure per anni Capuano sembrava essersi invischiato in un’ossessione senza futuro: un cortometraggio che poi si è trasformato in un altro cortometraggio e in un altro ancora. Ogni corto un titolo ermetico che tirava dentro sempre lo stesso intoccabile, ma senza mai menzionarlo: Pino Daniele. (Durante il dibattito al Nuovo Sacher, alla domanda del pubblico sul perché non avesse inserito nel film delle musiche di Pino, lui risponderà categorico: «Perché mi sembrava già un sacrilegio essermi appropriato delle sue parole».)

Veniamo ad oggi. A sei anni dal nostro primo incontro e dall’inizio delle riprese di quello che sarebbe diventato Quanno chiove, Mino mi telefona: «Mi sa che è capitata una cosa bella. Moretti vuole il film». Sulle prime non so se credergli, è un rinomato artista della supercazzola e mi ha fregata già diverse volte. E poi il film è blindatissimo, lo mostra solo a pochi eletti, ovviamente quando vuole lui e come dice lui. «Il progetto era chiuso da qualche mese, quelli che lo vedevano mi dicevano “bravo, bello”, ma non capivo se questo film piacesse e perché. Ho iniziato a pensare chi potesse darmi un parere sincero, e l’unico era Moretti. Così gli ho scritto una lettera. Gli ho chiesto di criticarmi come solo lui sa fare». Preciso: stiamo parlando di una lettera vera, di un pezzo di carta in una busta che viene recapitata dal mittente in persona. Niente curriculum, niente email, niente agenti o marchette. Tant’è che, quando mi racconta come si sono svolti gli eventi, irrimediabilmente penso a Fellini che negli anni Quaranta va a bussare alla redazione del Marc’Aurelio con i bozzetti sotto il braccio, e a tutti quei colpi di testa che facevano della storia del cinema una narrazione epica e straordinaria prima ancora del film in sé. «Ho preparato la lettera, poi ho comprato una chiavetta usb da 8 giga, ho infilato tutto in una busta e sopra ci ho scritto: “Per Nanni Moretti”».

Neanche a dirlo, Capuano quella busta l’ha tenuta in macchina per un mese e mezzo prima di decidere se portarla o meno a destinazione. Finché una sera, alle due e mezza di notte, ha smesso di pensare e si è ritrovato in Largo Ascianghi: «All’improvviso prendo e vado al Sacher. Arrivo lì fuori ma inizia a piovere. Forse non dovrei andare, mi dico, o forse dovrei andare proprio per questo. Alla fine resto, come un ladro aspetto che nessuno mi guardi e poi lascio la busta nel giardino del cinema. Per proteggerla dalla pioggia la ricopro di aghi di pino raccolti da terra. Il 2 giugno mi arriva una telefonata: è Nanni. Mentre guido inizia a parlarmi di alcuni dettagli precisi rispetto a quello che gli ho scritto, quindi capisco che non può essere uno scherzo. Dopo qualche giorno mi informano che sono dentro Bimbi Belli, anche se la rassegna era già chiusa. “Mi hai messo in difficoltà”, mi fa lui, “ma sei contento?”. E subito dopo aggiunge: “Però taglia qualcosa del film”. Ho tagliato quattro secondi di una scena. Credo lo abbia affascinato la natura così indipendente del progetto e anche la struttura a capitoli, di cui tutti avevano diffidato. Uno degli ultimi film che avevo visto al Nuovo Sacher era Il gioco del destino e della fantasia di Hamaguchi, un esperimento antologico a episodi. Forse anche questo mi ha spinto a cercare Moretti…».

Ovviamente gli chiedo la prova di quell’incontro epistolare, e lui mi manda una copia della lettera. Mi stupisco a scoprire che è una presentazione romantica e un po’ delirante della sua opera e della sua idea di cinema, che inizia con «Caro Nanni» e termina così: «Io continuerò a credere, per il resto della mia vita, che il cinema è un’altra cosa». Nel mezzo c’è un’invettiva appassionata contro il sistema «falso e cortese» dell’industria contemporanea: «Mi sono scontrato spesso con l’istituzione accademica dedita a insegnare “il metodo”, come se i film si facessero tutti allo stesso modo. Così, un po’ sputando nel piatto dove stavo mangiando, ho girato da solo un film indipendente a capitoli». La lettera prosegue con un’analisi del cinema gentile di Ozu e Kore’eda, della libertà di quel filone giapponese di concedersi una narrazione lenta dei sentimenti, in cui dominano il minimalismo estetico e l’essenzialità tipici anche del film di Capuano. «Come fosse la vita stessa una sorta di attesa continua», confida Mino a Nanni, «per qualcosa che davvero non arriva mai».

Capitolo 2: Ambriana, Appocundria, Alleria

Una scena di ‘Quanno chiove’. Foto press

Nei giorni in cui scrivo di questo film il concetto di malinconia sembra perseguitarmi, anche nei rari momenti in cui malinconica non mi sento. Leggo Caro Pier Paolo di Dacia Maraini, che in un capitolo si interroga sulla malinconia di Pasolini a confronto con quella di Moravia. Per uno era forse una declinazione dell’angoscia, per l’altro della noia. Poi ascolto l’addio di Veltroni a Scalfari in Campidoglio, e tra i tanti riferimenti cita anche le Lezioni americane di Calvino. Per lui, invece, la malinconia era la tristezza quando diventava leggera. Capisco che quello che lega Mino Capuano a Pino Daniele, però, è un altro sentimento ancora. Quanno chiove si sviluppa in tre episodi: Ambriana, storia di un figlio che sta lasciando suo padre; Appocundria, storia di tre fratelli lontani ma costretti a ritrovarsi; e Alleria, storia di una coppia che si è persa. Tre vicende che potrebbero avvenire in tre epoche diverse come nello stesso istante dello stesso giorno: non lo sapremo mai. Hanno due punti di contatto a tenerle strette e a confonderci: l’elemento della pioggia e il Dna campano.

«Come qualsiasi campano che se ne va via dalla sua terra, a un certo punto si inciampa in Pino Daniele. Inizia ad essere parte di te in modo viscerale. In un’intervista lui diceva: “Nella mia musica voglio raccontare solo un’emozione unica”, e se ci pensi nella sua carriera è sempre un po’ la stessa. Quindi un giorno inciampo in Pino anche io, di preciso nell’album in cui c’è Appocundria (Nero a metà, 1980, nda) e succede che inizia a farmi malissimo. Mi scoppia proprio nel petto. Sai, da noi si dice spesso “sto in appocundria”. Te ne accorgi quando sei un po’ impensierito, quando avverti una sorta di vuoto dentro e non capisci bene di che si tratta». I napoletani lo sanno meglio dei dizionari, e Pino parlava del malessere sereno di chi è sazio ma dice comunque che sta a digiuno. «Penso che si avvicini più alla saudade portoghese. Ma comunque non è traducibile perché a differenza della malinconia, con l’appocundria non è che stai male. C’è dentro l’incanto della tristezza. In Giappone la definiscono mono no aware e rappresenta la caducità della bellezza. Poi è come se a un certo punto uno accettasse l’appocundria e dicesse: “Ok, ridiamoci su”. E Pino Daniele qui ci insegna: “Alleria è di chi ha sofferto davvero”. Arrivare a sorridere del vuoto, viversela male ma in uno stato di leggerezza. Devi conoscere l’appocundria per raggiungere l’alleria».

Leggenda narra che una bellissima donna venne accusata dalla gente del suo paese d’aver ucciso il marito, e così entrò in una cupezza tutta sua, un dolore che è all’origine del mito e del primo capitolo del film, Ambriana. Anche qui il titolo è un omaggio a Bella ’mbriana di Pino Daniele (album del 1982 che contiene il brano omonimo, nda). «Rappresenta forse il personaggio più importante del film, che è la casa, intesa come dimora e luogo da cui prima si scappa e poi inevitabilmente si torna. Parte tutto da una superstizione, la bella ’mbriana è uno spirito benefico che protegge la casa e i suoi abitanti. Pensa che anni fa gli anziani lasciavano a tavola un posto vuoto per lei, e se capitava di dover traslocare era meglio parlarne fuori, di nascosto, perché è anche suscettibile… È uno spirito, quindi fa un po’ terrore e un po’ tenerezza. Ma quando la bella ’mbriana sta bene diventa tutta un’altra storia, si trasforma in geco e si incarna nelle tende della casa che svolazzano al tramonto. Per me questo è il simbolo di un giovane adulto che capisce come ogni scelta abbia portato a delle conseguenze, fino a diventare un giovane anziano. Quanno chiove a un certo punto è stato l’unico titolo possibile da dare all’intero film. Dopotutto queste sono tre storie di pioggia. E se ci pensi, è proprio nei pomeriggi in cui guardi piovere fuori dalla finestra che provi la vera appocundria…».

Una coppia si ritrova dopo quarant’anni (Elisabetta De Vito e Ciro Scalera, insieme anche nella vita) e Capuano mette in scena tutto quello che avrebbe potuto essere e mai sarà. Il non detto, i rimpianti, i filmati di gioventù girati in vhs, gli sguardi e la tensione erotica. Vicende umane lontanissime dalla sua età, che lui nemmeno dovrebbe conoscere, e invece la racconta fino a commuovere e mettere soggezione. In platea sussurrano: «Ma ’sto ragazzo quanti anni ha, cento?». Ne ha ventotto ma pare abbia vissuto tutte le vite degli altri, in effetti: «Il tempo cambia le cose ma non è colpa di nessuno. Doveva andare così, tutto ciò che era non ci sarà più. Volevo raccontare degli stati d’animo e questa è stata la difficoltà produttiva di convincere qualcuno a investire nel progetto. Per quello c’ho messo sei anni a fare ’sto film. Sapevo che doveva finire così, ma lasciarlo andare non era facile». I due amanti ritrovati camminano insieme per le strade del paese, poi timidamente salutano gli anziani affacciati alle finestre, ma nessuno di loro li riconosce più: «Siamo vecchi pure noi», realizza lei.

Capitolo 3: Threeab, i disobbedienti

‘Quanno chiove’ di Mino Capuano. Foto press

Sei anni di riprese iniziate quando era studente alla Rome University of Fine Arts e terminate ora. Leggendo nel pressbook, “una produzione indipendente, un film realizzato tra il 2016 e il 2022” potrebbe sembrare l’incipit di una barzelletta su un regista esordiente. «Il film nasce come un cortometraggio di diploma, ma se accademie come il Centro Sperimentale ti finanziano, la RUFA no. Per girare, i soldi devi trovarteli da solo». Il problema è che Capuano ha sviluppato una mania per quel progetto che poteva limitarsi ad essere un progettino e invece è diventato un esordio. Lo ha trasformato in un viaggio nell’anatomia delle relazioni e nell’accettazione della fine. Ed è qui che subentrano i nostri undici di Threeab, un gruppo di studenti che oscilla sulla soglia di follia che sta tra Marinetti e Dogma 95 (sono oltre il nerdismo, approfondiscono il mezzo con un approccio artigianale: li ho visti diventare scultori e falegnami, imparare ad essere imprenditori, manipolare la pellicola come fossero di un’altra generazione. Se in giro per Roma trovate lampioni e bagni pubblici tappezzati di adesivi con scritto “Oltre la morte la settima arte” e “Il cinema è un’altra cosa”, sono loro. È il loro manifesto. E ci credono davvero).

«Ogni socio mette in pausa il resto quando c’è da girare un progetto comune. Arriviamo tutti in massa, investiamo sul sogno dell’altro e ci autoproduciamo. Siamo noi la forza lavoro. Quando ci siamo conosciuti eravamo del tutto inconsapevoli. Questo ci ha sempre rappresentato, perché ci buttavamo in esperienze più grandi di noi, uniti dal bisogno di creare insieme, di portare avanti progetti contro tutto e tutti, e sempre con due lire» (spoiler: le due lire si stanno moltiplicando. Alcune tra le più importanti case di produzione internazionali stanno investendo nelle opere prime dei registi usciti da questa scuderia, con l’idea di lanciare i prossimi autori del cinema italiano). Che questa indipendenza-resistenza-disobbedienza li abbia resi ingegnosi e innovativi è un dato che andrebbe osservato da vicino, e sicuramente è anche il marchio dei loro esordi. Ma la storia delle due lire rischia d’essere un po’ retorica, nel cinema lo dicono tutti e alla fine i finanziamenti privati circolano comunque.

Si può davvero rivoluzionare il sistema senza soldi? «Allora ti racconto un paio di aneddoti», mi sfida Capuano. «In Alleria c’è una scena di matrimonio con la chiesa perfettamente allestita. Ma sai quanto costano i fiori? Troppo. Allora tramite il parroco abbiamo scoperto quando ci sarebbe stato il prossimo matrimonio e abbiamo fissato le riprese per quella data lì. Poi abbiamo trovato il fornitore dei fiori ottenendo che ci lasciasse tutto l’allestimento e che sgomberasse il giorno dopo. La scena della Sagra della Rana? Non sapevamo neanche che esistesse, ce l’ha detto un circolo di anziani durante dei sopralluoghi, così ho rimesso mano alla sceneggiatura. Noi gli abbiamo offerto un video dell’evento e loro, in cambio, ci hanno regalato una location impossibile. Avevamo tutto a disposizione: centinaia di comparse, musica, libertà totale».

Capitolo 4: il Bimbo Bello

Mino Capuano a Bimbi Belli 2022. Foto: Alain Parroni

La sera della prima mondiale (Nanni ci tiene a precisarlo: non era mai capitato che ne ospitasse una in casa sua) il dibattito tra Moretti e Capuano è un siparietto irresistibile. Seduti di fronte a oltre trecento persone (il Sacher è sold out) giocano a passarsi il ruolo di spalla comica. Moretti lo battezza e insieme lo percula, sviscera i dettagli del film come se lo riguardasse da vicino. Capuano non schiva un colpo e riesce a farlo ridere (almeno sotto i baffi). «Avevo timore di Nanni. Per me rappresentava tutto ciò che dovresti fare ma non hai il coraggio di fare. L’antidivo che paradossalmente diventa un divo, ma resta uno studioso di cinema a tutto tondo. Nanni è quello che dice le verità scomode e le trasforma in cult. Oggi frasi come “Faccio cose, vedo gente”, “Di’ qualcosa di sinistra”, “Continuiamo così, facciamoci del male” sono diventate pop, ma all’epoca non lo erano. Anzi, erano di rottura totale. Guarda il Nuovo Sacher: c’è sempre la fila un’ora prima che apra il cinema, non è normale di questi tempi. Nanni è quello che “minchia, dovrei essere anch’io così”».

A dirla tutta, è anche un esercente che impone una sua linea editoriale e riempie la sala come fosse il Circo Massimo di Vasco, e che fa scouting più di quanto si impegnino a farlo critici, produttori e distributori. Quanno chiove è un film con una produzione indipendente e senza una distribuzione, eppure eccoci qui a parlarne. «Sai qual è il discorso? Di solito il “bimbo bello” porta un’opera prima in cui qualcuno ha già creduto, che è stata prodotta. Questo invece era un film inesistente, resistente e impermeabile. Ho iniziato a girarlo inconsapevolmente e poi mi sono ritrovato fottuto. E mo’ che ci faccio? Poi è arrivato e Nanni m’ha detto: “Vieni, sei un Bimbo Bello”».

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