Michele Alhaique e la sfida di ‘ACAB’: «La mia ossessione è il punto di vista» | Rolling Stone Italia
Reloaded

Michele Alhaique e la sfida di ‘ACAB’: «La mia ossessione è il punto di vista»

In giorni caldissimi di dibattito sulla polizia, arriva su Netflix una serie (ispirata al libro di Carlo Bonini già diventato film di Stefano Sollima) che cerca la complessità. In un racconto che anche visivamente è una scommessa (vinta). Una chiacchierata con il regista

Michele Alhaique e la sfida di ‘ACAB’: «La mia ossessione è il punto di vista»

Michele Alhaique sul set di ‘ACAB’

Foto: Virginia Bettoja/Netflix

È inevitabile, a un certo punto della chiacchierata con Michele Alhaique, parlare dell’elefante nella stanza, visto che stiamo parlando di ACAB, la serie che ha diretto per Netflix (arriva oggi, mercoledì 15 gennaio). «I video di YouTube sono tanti e sono scioccanti, perché sono reali», mi dice lui. «Noi avevamo un’ambizione diversa. Il cinema e la serialità – che per me non è meno importante del cinema, almeno quando è fatta in questo modo – possono trattare certi temi diversamente, anche a livello visivo. In questo caso, c’era la possibilità di fare un’esplorazione andando al di là della divisa, e di quelle immagini che vediamo continuamente sui social e al telegiornale. E di permettere a chi guarda di farsi domande che sono quelle che mi faccio io mentre metto in scena tutto questo: io che avrei fatto, in quella situazione? Volevamo rimettere al centro l’essere umano, e se lo facciamo, allora quando torniamo a vedere quei video su YouTube possiamo forse guardarli con occhi diversi. Lo scopo è mettere lo spettatore in una dimensione disturbante: ma perché è scomoda, non perché certe cose non si possono vedere. Io pure sono stato caricato a via Cavour, quand’ero adolescente. Avevo un pensiero di un certo tipo, e ce l’ho tuttora. Ma non puoi non esplorare la complessità di tutto un mondo che c’è dietro».

L’elefante nella stanza è il dibattito sulla polizia. Ramy, i fatti di Milano, quei video drammatici che – su YouTube, al telegiornale – abbiamo visto tutti. ACAB risponde da sé. È una serie – prodotta Cattleya – solida, diritta, che punta alla complessità. È il frutto di un ottimo lavoro di scrittura (di Carlo Bonini, che torna al suo libro di sedici anni fa già diventato nel 2012 un film di Stefano Sollima, e di Filippo Gravino), di recitazione (i quattro al centro della storia sono tutti eccellenti: Marco Giallini di nuovo Mazinga, ma con più fantasmi; Adriano Giannini che cerca di portare un modo nuovo di essere poliziotto del Reparto Mobile, ma rischia di restare schiacciato da sé stesso; Valentina Bellè che è tutte le donne entrate nel Reparto in questi ultimi anni – ai tempi del libro e nel film non c’erano – ma anche una donna sola, un ruolo pieno e bellissimo per un’attrice italiana oggi; e Pierluigi Gigante, che è il cane sciolto, rabbioso, che sfoga la fragilità nella violenza). Ed è un ottimo lavoro di regia. Di Michele Alhaique, appunto, che quel mondo di violenza l’aveva portato al cinema (Senza nessuna pietà) e poi in tanta Tv sempre virata al dark (Non uccidere, Romulus, Bang Bang Baby). E che ora in ACAB fa un lavoro che, dicevamo all’inizio, dialoga (profeticamente) con la realtà e addirittura l’attualità, ma resta profondamente «antinaturalistico», molto cinematografico.

Michele Alhaique sul set con Adriano Giallini e Marco Giannini. Foto: Virginia Bettoja/Netflix

«La chiave è stata partire da un’assenza di giudizio verso un contesto che è sempre visto da fuori e provare invece a entrarci dentro, andando oltre la facciata del plot. In passato una certa serialità di genere con al centro del racconto i poliziotti era spesso derivativa o basata solo sull’azione. Qui volevamo mettere al centro gli esseri umani. Per fare questo serviva una scrittura di altissimo livello, che ti permetteva di esplorare lo spirito dei personaggi, di vedere come ognuno ha bisogno dell’altro, di costruire una realtà che è molto chiusa: ed è chiusa perché sono personaggi che si proteggono tra di loro. La cosa affascinante per me era scoprire a poco a poco i singoli, e si vede tanto nei primi episodi. L’idea era settare su ciascuno un oggetto da proteggere: nella loro sopravvivenza quotidiana, c’è qualcosa che devono preservare. Con Marta (il personaggio di Bellè, nda) è evidente (la figlia e la rinascita dopo un rapporto tossico con l’ex compagno, nda), per Nobili (Adriano Giannini) è la sua famiglia. Per Mazinga è qualcosa di cui lui non è ancora consapevole, ma di cui si renderà conto più avanti. E, in questo senso, la missione di ognuno di loro diventa la missione di tutta la squadra».

Anche il luogo in cui si muovono questi poliziotti della Mobile è determinante per caratterizzarli come persone, più ancora che come personaggi. «Mi sono immaginato fin dall’inizio che tutti loro avessero una vita che gli era stata imposta», osserva Alhaique. «La caserma dove lavorano è costruita mettendo insieme diverse location, per poi farla diventare una location unica. Volevo costruire personaggi che si muovessero in maniera quasi invisibile, sotterranea, in un posto dove non distingui il giorno dalla notte, e dove anche la luce sembra essere sempre imposta. E ho cercato di ricreare la stessa dimensione nelle loro case, che sono tutte illuminate dall’esterno a parte quella di Nobili, almeno all’inizio: è il poliziotto che arriva da fuori, che vuole portare un nuovo modo di operare, e che per questo si distingue anche a livello visivo. Ma poi la sua situazione cambierà, e anche la sua casa sarà illuminata in modo diverso, diventerà più scura».

La forza anche visiva di ACAB è che, pur di fronte a sequenze produttivamente e registicamente impressionanti – l’inizio con gli scontri in Val di Susa, e poi quelli con gli hooligan ripresi come una partita di calcio, e lo splendido montaggio nelle case popolari – non c’è mai compiacimento, nonostante, dicevamo prima, l’evidente valore cinematografico. «Io ho sempre bisogno di vedere le cose come le vedo io. Sono entrato nel progetto quando i copioni erano già in una fase avanzata, ma ho parlato molto con gli sceneggiatori. La mia ossessione è il punto di vista. E io ho voluto mantenere lo stesso punto di vista sempre, anche nelle scene degli scontri. Volevo sempre stare con i protagonisti in maniera molto soggettiva, vivere tutto dalla loro parte, dare loro uno specchio: nella scena delle case popolari che citavi, c’è una madre che va scortata fino a casa, ed è inevitabile che diventi lo specchio del personaggio di Marta. La crisi di coscienza che lei vive diventa il fil rouge di tutta la storia, l’elemento che metterà in discussione le certezze di tutta la squadra».

Valentina Bellè è Marta Sarri. Foto: Virginia Bettoja/Netflix

È una sfida di complessità, di «stratificazione», come la chiama Alhaique. Un lavoro che fin dall’inizio – quegli scontri in Val di Susa, di notte, al buio – non vuole spiegare tutto, ma chiede allo spettatore di aspettare, di fidarsi. «Mi interrogo spesso sull’inizio delle storie. Stai dicendo allo spettatore: “Ehi, sono qua, dammi la tua attenzione”. E oggi è sempre più importante e difficile, perché puoi cambiare canale o piattaforma da un secondo all’altro. Per me in ACAB era importante essere rigorosi su questo, anche nello sforzo gigantesco che chiedevo a chi guarda: “Forse non comprenderai tutto subito, ma seguimi. Ho da raccontarti dei personaggi che forse, metaforicamente, sono lo specchio di quello che vivi anche tu”. Volevo portare lo spettatore a farsi delle domande senza dargli subito le soluzioni, che peraltro non ci sono. E farlo senza voler essere disturbante, ma mettendolo, quello sì, in una situazione un po’ scomoda. È una scommessa, certo, ed è l’unico modo per alzare l’attenzione di chi guarda, facendo scelte, come appunto iniziare con quella sequenza notturna, anche coraggiose».

Le musiche sono un altro elemento determinante, in questa stratificazione. Alhaique racconta che ha chiesto ai Mokadelic dei suoni, prima ancora che dei temi, che ha tenuto dentro le sue cuffie, sotto la presa diretta, già mentre girava sul set. «Mi serviva avere da subito questa specie di suono di fondo», spiega, «come se fosse il loro battito cardiaco. Settare subito questo elemento era centrale per capire le origini di quella violenza. Nella prima scena il caposquadra riceve la notizia che la sua donna l’ha lasciato, e subito dopo lo vedi avere la mano pesante contro i No-TAV. E ti chiedi: “È la modalità che userebbe sempre, o il risultato della frustrazione per la notizia che ha ricevuto quattro minuti prima?”. E la musica, quel battito, ti aiuta a capire che queste due sfere non possono non essere collegate».

Pierluigi Gigante e Adriano Giannini. Foto: Virginia Bettoja/Netflix

L’altro elemento cruciale sono gli attori, e ad Alhaique chiedo come ha composto il gruppo. «Più che un gruppo sono diventati un branco», ride. «Ma l’hanno fatto da soli, hanno ricreato quella squadra parlandosi tantissimo, entrando in intimità tra loro». E condividendo, immagino, la difficoltà di dare corpo e cuore a personaggi mossi da quel peso morale: la forza, la violenza, la rabbia, perché? «Credo che ciascuno a suo modo soffrisse, di fronte ai dissidi che doveva mettere in scena. L’ho avuto chiaro quando li ho visti mettersi addosso quella divisa il secondo giorno di riprese e ritrovarsi con 200 persone che gli correvano contro e si lanciavano contro di loro e i loro scudi. Anche fisicamente era durissima, e per l’attore il corpo è sempre il centro di tutto. Ma anche le riprese in Val di Susa sono state durissime. Abbiamo girato poco più di un anno fa, c’erano -8 gradi, è stato un impatto choc. Ma era anche utile, perché quel battesimo fisico dava spessore e tridimensionalità al racconto privato dei loro personaggi, è rimasto alla base anche quando erano in scena senza divisa. E poi dentro ognuno di loro ho seminato un piccolo sogno, una luce in fondo al tunnel che dovevano provare a preservare lungo la serie. Marta con la figlia, Salvatore (il personaggio di Pierluigi Gigante, nda) con la relazione storta con quella ragazza che lo frega…». Alhaique ha cominciato da attore, e comprende la natura del mestiere di chi, adesso, di trova a dirigere. «Tutti i protagonisti di ACAB hanno un equilibrio incredibile tra istinto e messa in crisi fatta di mille domande che si fanno. E quelle domande le vede anche lo spettatore, perché questi attori hanno gli occhi vivi, si vede che quelle domande se le fanno in scena. Per me è la cosa importante che un attore deve fare, e che tiene viva la narrazione emotiva e interiore».

ACAB | Trailer ufficiale | Netflix Italia

Per arrivare a una serie come ACAB, che ha un’ambizione, una complessità e un production value, dicono quelli bravi, così alto, dev’esserci una condivisione d’intenti e di sfida. E, in questo caso, sullo schermo si vede eccome. «Bisogna condividere una visione, sì, e qui era chiara. Mi fa piacere che tutti l’abbiano capito, dai produttori ai capi reparto, che ci sia stato un grande ascolto collettivo. Dovevamo riuscire a creare una cosa che non assomigliasse a nient’altro, e anche nelle scene più intime non dovevi mollare un secondo: “Come faccio a non far diventare un dialogo mamma e figlia una scena già vista mille volte?”. La risposta è che quello che ti tiene agganciato è sempre il mistero, anche in un racconto mélo come a tratti è ACAB. Se un personaggio ti dice come si sente, a parte che non lo facciamo neanche nella vita, ma la storia crolla, si crea un buco, e finisce che lo spettatore prende il telefono e va su Instagram. Invece devi sapere che sta succedendo qualcosa dentro i personaggi, e il mio interesse era che ci fosse dentro casa la stessa tensione che c’è in strada con gli scudi, i caschi, i manganelli. Mi interessava il movimento interiore, perché dell’action non me ne frega un cazzo, non so come dire. Mi interessa, se mai, come riverbera sui personaggi. Poi, chiaro, certe scene sono anche spettacolari, ma nella misura in cui le vedi in maniera sempre molto soggettiva, in cui senti l’essere umano che vive quella roba lì. Anche perché l’action lo fanno de cristo da altre parti, in altre industrie che non siamo noi. Quello che noi possiamo fare è andare a vedere un po’ più in profondità, dentro questi esseri umani».

Non è ancora stata annunciata una seconda stagione, ma è facile immaginare che per questi personaggi ci potranno essere altri scontri, fuori e dentro di loro. «Nel caso io la farei, certamente. Finché ci sono storie potenti, interessanti, io ci sono. Perché poi è sempre quello che conta: le storie. All’inizio io mi spavento sempre, di fronte a una cosa che non so come vedere. Non è facile arrivare a quello che dici tu, a quella complessità. A far vedere in un certo modo, senza semplicemente girare la scena di due che o se parlano o se menano. Quella che faccio sempre io è scegliere una lente attraverso cui far vedere le cose. E cercare questa lente, dare a ogni progetto una sua voce, una sua identità, è un processo complesso che ogni volta mi mette in crisi. Ma è una crisi bella».

Altre notizie su:  Michele Alhaique ACAB ACAB la serie