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Milena Mancini, voglio vedermi danzare

In senso letterale, visto il passato da ballerina. E in senso artistico: nelle scelte, nei monologhi a teatro, nell’indagine pubblica e privata sull’amore. Il lavoro con gli autori dai D’Innocenzo a Virzì, il rapporto col compagno di vita e di scena Vinicio Marchioni, il nuovo film con Ferzan Özpetek: una lunga chiacchierata

Total look: Paul Smith. Styling: Romina Piperno. Hair styling: Cotril. Foto: Pier Costantini

Il corpo e la parola. Il presente e l’immateriale. L’amore che è idea e carne. Milena Mancini ha danzato, recitato, scritto. Ha giocato con i ruoli e con i regist(r)i – tra gli altri: Il più grande sogno di Michele Vannucci, La terra dell’abbastanza dei Fratelli D’Innocenzo, la serie A casa tutti bene di Gabriele Muccino, Mia di Ivano De Matteo, Un altro ferragosto di Paolo Virzì – e ballato, letteralmente e non, da sola. E si è creata il suo campo libero a teatro: prima con il monologo Sposerò Biagio Antonacci, poi con ⱯM∞RƎ! – Il teorema di Sarah, ancora li porta in giro per l’Italia. L’amore è un’ispirazione, un’indagine, un punto fermo, perché Milena Mancini ha anche amato e ama ancora: con Vinicio Marchioni compone una coppia riservatissima che vive lo spazio pubblico nell’arte, lavorando spesso insieme; tanto a teatro, per la prima volta diretti da Ferzan Özpetek nell’imminente, coralissimo Diamanti. Parliamo con lei di tutto questo, e tanto di più.

Domanda semplice, o forse no, per iniziare: come si sceglie un progetto, che venga dagli altri o che parta, come nel caso dei tuoi monologhi, da te?
La prima risposta è sempre quella personale, istintiva. Quando arrivano delle proposte mi chiedo innanzitutto se è giusto quel lavoro per me, se voglio raccontare quella storia. Però poi c’è sempre un confrontarsi insieme a Vinicio. Tante persone pensano che per due attori sia molto complicato farlo, invece per noi è una grande risorsa: conosciamo le difficoltà, siamo consapevoli che certe scelte possono cambiare il percorso di quella che viene definita, tra virgolette, carriera.

Ci sono tanti tuoi colleghi e colleghe che “mai con un attore”, e poi casi come il vostro che invece sembrano dirci che stare fra chi si capisce è meglio.
Non è che sia sempre stato facile, anch’io all’inizio avevo un po’ di timore, proprio per il fatto che Vinicio era un attore e per il momento in cui si trovava, tra la prima e la seconda stagione [di Romanzo criminale – La serie]. Mi sono posta varie domande, poi l’amore ha vinto.

L’amore vince sempre?
Per forza… (ride)

Milena Mancini nelle foto promozionali del monologo teatrale ‘ⱯM∞RƎ! – Il teorema di Sarah’. Foto: Anton Art House

L’amore è anche al centro della tua indagine professionale.
Con l’ultimo monologo che ho scritto volevo portare in scena la famiglia e le sue dinamiche, e anche i problemi, e come si affrontano le novità belle e brutte. Sono partita da una domanda sull’amore: la cosa che ancora mi meraviglia sono le coppie che durano da tanti anni, perciò per un anno ho fatto una serie di interviste a persone prese da contesti diversi, uomini e donne, e mi facevo raccontare la loro storia d’amore più bella, se durava ancora o se invece era finita e perché. Mi chiedevo: possibile che non ci sia una regola, un modo per far sì che un legame riesca ad affrontare nel tempo i cambiamenti, che possono essere i figli, o qualcosa che succede a uno dei due? Ogni volta ovviamente ci sono regole diverse, che dipendono da chi compone la coppia, ma alla base c’era la sorpresa sia mia, sia delle persone che guardano me e Vinicio e, dopo tredici anni insieme, ci chiedono: “Ma come fate?”. Volevo fare quest’indagine insieme al pubblico, chiedermi con gli spettatori perché e dove vanno a finire l’amore e tutte le promesse che ci si fa. Se una storia d’amore finisce va bene, ma bisognerebbe tornare ad avere un senso di – passami il termine – sacrificio. E il sacrificio è apertura, vuol dire essere in ascolto rispetto all’altro. Le crisi poi ci sono sempre, ma se vengono vissute in maniera costruttiva possono fortificare il rapporto.

Tu che esempio familiare hai avuto?
I miei genitori sono due persone che si sono conosciute quando avevano dodici anni e sono rimaste insieme tutta la vita. Ma a quei tempi c’era una forma di relazione diversa, mia madre era sì presente, ma le decisioni erano sempre prese da parte del padre. Nella coppia moderna questi ruoli non ci sono più, non sei più solo figlia, e poi moglie, e poi madre, e nel bene e nel male si è complicato tutto. Nella fascia 40-50, che è quella di cui faccio parte io, sei figlia di genitori adulti che iniziano ad affrontare i problemi legati all’età, e quindi cambiano i ruoli; sei moglie o compagna; e magari sei madre, ma vuoi essere anche te stessa. Per questo le scelte lavorative per me sono fondamentali: non mi presento neanche ai provini se non penso che potrebbe essere un progetto giusto per me, o per cui valga la pena togliere tempo a me, alla coppia e ai miei figli. E se mi interessa la storia o il regista, va bene anche un’apparizione piccola. Ivano De Matteo, che avevo conosciuto sul set di Mia, mi ha chiesto un cameo nel suo ultimo film e io gli ho detto: “Vengo a fare quello che vuoi”, perché è talmente un artista che per me è un piacere. Quando fai anche solo una giornata con un autore così non è la grandezza del ruolo la cosa importante, ma la qualità del lavoro, ed è questo che mi interessa sempre di più, nelle scelte che faccio.

Coat: SA SU PHI. Leather skirt: Desa 1972. Boots: Scarosso. Styling: Romina Piperno. Hair styling: Cotril. Foto: Pier Costantini

Le tue ricerche sono lunghe e approfondite, scavano nell’intimità non solo tua.
Il primo monologo che ho scritto, e che ora riporterò a Roma e in Emilia-Romagna, è sulla violenza sulle donne, su come possono diventare certi rapporti, su come una donna può rinunciare a sé stessa in nome di un amore che però non è reale, ma figlio di tante cose storte. Il tempo della scrittura in quel caso è stato molto più lungo, diciamo che è partito quindici anni fa, quando ho conosciuto Vinicio. Lui portava in scena La più lunga ora di Dino Campana, e lì ho scoperto Sibilla Aleramo, che aveva avuto una lunga storia d’amore con lui e che aveva testimoniato nero su bianco una violenza domestica. Ma è rimasto a lungo in sospeso perché quando non vivi le cose in prima persona è difficile scriverne, mettersi nei panni di chi ci è passato. Quando reciti hai un regista, una sceneggiatura, degli sguardi esterni; nella scrittura ci sei solo tu. Poi, durante il Covid, ho visto i numeri [delle violenze domestiche] aumentare vertiginosamente, e allora ho preso coraggio e mi sono detta: “Forse posso utilizzare la mia persona per dare voce a chi non può farlo”.

Dicevi che quando reciti ci sono un regista e una sceneggiatura. Mi sembra però che prima ancora, però, per te ci sia sempre il corpo: hai cominciato come ballerina con Kylie Minogue, Robbie Williams e Ricky Martin, poi è arrivata la recitazione, e dopo ancora la scrittura teatrale. E allora ti chiedo: come si incastra tutto? E cosa ha “chiamato” cosa?
Ho 48 anni, e il periodo in cui ballavo mi sembra una vita lontana, anzi proprio un’altra vita. Però l’ho vissuta, quindi ancora oggi non posso non utilizzare quella conoscenza del corpo per portare in scena i miei personaggi. Quando lo faccio a teatro è comunque indispensabile una regia esterna – nel caso dei monologhi è stata di Vinicio – mentre al cinema devo sempre incontrare degli autori con i quali poter costruire quello che loro desiderano. Però mi rendo conto che l’esperienza del corpo e del teatro continua a “chiamare” anche il cinema. Ferzan è venuto a teatro a vedere ⱯM∞RƎ! e poi ha scelto di affidarmi un ruolo nel suo film. Voleva vedere come un artista si muove, come “funziona” in scena. E per me è stato molto meglio di un provino, dove spesso stai in un ufficio, magari incastrata in mezzo ai libri, e devi interpretare chissà che cosa. Lì ero libera, nel mio elemento.

Total look: Paul Smith. Styling: Romina Piperno. Hair styling: Cotril. Foto: Pier Costantini

Com’è stato l’incontro con Ferzan sul set, invece?
Con lui è proprio un rapporto di connessione artistica. È una persona che osserva tantissimo, osserva tutto. Ha una modalità elegante di incedere nello spazio, e mentre lo fa ha chiaro tutto quello che lo circonda. Per me è stato illuminante vedere come mi guardava, e dunque come poteva dirigermi. E poi Ferzan è un regista molto conciso, non filosofico, è molto diretto: “Questo è così, quest’altro così”. E per me è bello, perché in questa modalità di lavoro posso portarmi qualcosa della danza: nella lettura della musica devi suddividere i singoli momenti, e così anche sul set se tu mi dici in modo diretto cosa devo fare, io mi metto al tuo servizio e cerco di farlo nel migliore dei modi.

In Diamanti c’è anche Vinicio.
Abbiamo una scena insieme, ed è stata la prima volta. Avevamo lavorato insieme con Daniele Vicari (in Il giorno e la notte del 2021, nda), ma eravamo in pieno Covid, in una condizione molto particolare. Daniele ci mandò i cellulari con gli obiettivi con cui girare, dovevamo fare noi tutta la parte tecnica, le luci, le posizioni: il direttore della fotografia ci diceva da remoto come aprire e chiudere le finestre, le costumiste cosa metterci… era una specie di progetto art house. Con Ferzan è stata la prima volta che ho lavorato con Vinicio davvero, io come attrice e lui come attore.

E che effetto vi ha fatto?
È stato bello, e anche strano. So che Vinicio è un grande professionista, ma in quel caso l’ho potuto testare veramente. Non vado mai sui set quando lui lavora, al massimo passo a salutare ma non mi fermo a seguire le riprese: è una forma di rispetto.

Vedere reciprocamente come si lavora da attori è anche un po’ come violare un segreto, entrare in una sfera molto intima dell’altro.
È stato come un riscoprirsi sotto un altro ruolo. Al trucco ero molto emozionata, pensavo: “E se poi fa delle cose che non mi piacciono? Lo guarderò con occhi diversi?”. Non posso ovviamente svelare nulla, ma per la scena che abbiamo insieme avevamo fatto anche una preparazione fisica, e sul fisico non è che mi sento più brava, ma è chiaro che avendo fatto la ballerina certe cose mi risultano più facili. Quindi avevo anche questo timore, mi dicevo: “Non posso fare la secchiona…” (ride)

Milena Mancini sul set di ‘Diamanti’ con Ferzan Özpetek e, da sinistra dopo di lei, le altre “sarte” Geppi Cucciari, Lunetta Savino, Anna Ferzetti e Paola Minaccioni. Foto da Instagram Ferzan Özpetek

Possiamo dire che da La terra dell’abbastanza è partito tutto?
Venivo da una pausa lunga e voluta, per i figli. Quando ho fatto il provino con i D’Innocenzo la produzione aveva un’altra idea per quel ruolo, e loro invece hanno combattuto tanto per me, per questo gli sarò per sempre grata. È vero che l’anno prima c’era stato il film di Vannucci (Il più grande sogno, presentato alla Mostra di Venezia nel 2016, nda), ma è come se i D’Innocenzo mi avessero dato il patentino per il cinema. È fondamentale l’incontro con i registi: il nostro lavoro è fatto anche di tanta fatica, a volte stai dalle cinque di mattina alle otto di sera sul set con 45 gradi per una scena che poi sullo schermo durerà due minuti, ma la parte artistica ti ripaga di tutto.

È questo ciò che oggi ti fa scegliere un progetto?
È una scelta fatta sempre con la bocca dello stomaco e col cuore. Per dirti, quest’anno per il film di Ferzan è stata la prima estate che non ho passato coi miei figli, mi sono organizzata per farli stare in Calabria con mia suocera per un mese e mezzo. Ma sono stati coinvolti in questa scelta. Prima, quando erano piccoli, eravamo io e Vinicio a decidere i progetti e anche i tempi del nostro lavoro; oggi i nostri figli hanno una maturità tale per cui ci confrontiamo, comprendono meglio il nostro lavoro e possono capire che la mamma non è al mare con loro perché sta facendo una cosa a cui tiene. Il benessere di una famiglia deriva anche da questo, dal fatto che puoi essere sia una mamma che una donna che fa delle scelte in modo indipendente, ma condividendole sempre.

Milena Mancini in ‘La terra dell’abbastanza’ di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Foto: Pepito Produzioni

Non esistono piccoli ruoli, eccetera. Cosa ti hanno dato autori come Virzì, che ti ha voluta in una piccola parte in Un altro ferragosto?
La genialità di Virzì è stata farmi interpretare una figura politica [di destra] con quella fisicità e con tutte quelle guardie del corpo: prima non avevo mai interpretato un personaggio del genere. Che poi fa sorridere, perché all’inizio della mia carriera mi davano solo ruoli di donne altoborghesi: Rita Dalla Chiesa (nella fiction Il generale Dalla Chiesa, nda), la ricca giornalista di Provaci ancora prof… Poi a un certo punto, dopo la pausa per i figli, per un’intuizione di una delle casting director che lavorano con Laura Muccino ho incontrato Michele Vannucci e sono ritornata in periferia, dove peraltro abito, e grazie a una serie di ruoli bellissimi mi sono trovata a far parte di quella categoria. E quindi quando arriva Virzì e ti chiede di fare tutt’altro capisci che è bellissimo, e che di un artista come lui ti puoi solo fidare.

E poi lo scambio artistico con i registi sul set come avviene?
Per, diciamo così, contratto artistico, solitamente io faccio delle proposte al regista e se poi c’è qualunque cosa che non va, la cambio. Se invece ho dei momenti di impasse e non sono sicura, chiedo sempre. Ho tanta umiltà nel chiedere, non mi crea problemi, anzi: meglio chiedere che rimanere nel dubbio, se no resti vaga e la macchina da presa legge tutto. Nel caso di Ferzan, mi dava sicurezza il fatto che la storia è ambientata in una sartoria, e io sono figlia di una sarta…

Aridaje con l’essere una secchiona.
(Ride) Diciamo che ero facilitata, con le vecchie Necchi ci ho passato tanto tempo.

Oltre a collaborare spesso insieme, con Vinicio guidate un corso di alta formazione del Teatro della Pergola che parte, anche lì, dal corpo, dal movimento scenico. È un metodo, oltre che di lavoro su te stessa, che applichi anche agli altri?
Il metodo Mancini (ride). Diciamo che molto parte da quello che ho vissuto io. Quando ho smesso di ballare e sono tornata in Italia era molto difficile in quanto ballerina voler fare l’attrice, perché nell’accezione italiana, e soprattutto negli anni ’90, ballerina voleva dire Buona Domenica, Tira & Molla e Amici di Maria di Filippi, che era appena cominciato. Non potevo accedere al teatro, non mi era permesso fare i provini, e anche per lo studio è stato difficilissimo trovare dei maestri. Ho avuto la possibilità di incontrare Bernard Hiller, che è americano, e sono andata a studiare a Los Angeles. Poi è arrivato un mediometraggio, e da lì ho iniziato a imparare direttamente sul set. E poi ho capito come scegliere, e con chi e come mi avrebbe fatto piacere lavorare.

Total look: Paul Smith. Styling: Romina Piperno. Hair styling: Cotril. Foto: Pier Costantini

Dicevi del patentino che ti è servito per accedere al cinema. Quando hai sentito che c’era stato definitivamente un clic, che eri riuscita a farti capire?
Dopo i figli. Il periodo in cui mi sono fermata per le gravidanze, che sono state molto ravvicinate, è stato in realtà proficuo, ho letto e studiato moltissimo, e ho osservato tanto. Guardando tutto dall’esterno, ho capito cos’era più giusto per me. Lo stare fermi può essere un grande nutrimento per l’artista, perché in realtà l’artista non sta mai fermo, lavora con la fantasia. E poi io sono una molto manuale, mi piace scolpire, dipingere… In quel periodo mi sono detta: “Vabbè, non mi permettono ancora di accedere ai provini teatrali ma sono mossa dal desiderio di raccontare una storia? Allora me la scrivo da sola, e poi vediamo se riesco a metterla in scena”. Non avendo avuto una formazione classica e non potendo incontrare registi e autori, era l’unica maniera.

In più in quegli anni c’era ancora tanto pregiudizio.
All’inizio, e stiamo parlando dei primi anni 2000, c’era una divisione netta tra cinema, tv e teatro, adesso c’è molta più apertura. Talmente tanta che a volte rischiano di far pensare a certi attori che essendo sempre sé stessi possono interpretare tutto: e questo non lo giudico, ma nemmeno lo condivido.

Adesso dove danzi?
In senso fisico, mi sono dovuta molto trattenere in Sposerò Biagio Antonacci: quel monologo è una specie di interrogatorio, lo recito tutto stando seduta su una sedia, e per me stare ferma è molto difficile. In ⱯM∞RƎ! sono molto più libera con il corpo, anche se non ballo veramente. In senso più lato, mi piacerebbe tornare a ballare alla mia maniera, anche con le idee. C’è in progetto un terzo monologo dove vorrei mettere l’esperienza del laboratorio che ho fatto con Cristiana Morganti: ha lavorato con Pina Bausch, mi ha insegnato che tutto quello che pensavo fosse caos è in realtà premeditato, misurato, controllato, pensato.

Un caos controllato: non è male neanche come direzione di vita.
Per niente… (sorride) Vorrei trovare una formula per cui è anche il pubblico a metterci del suo, magari non facendolo partecipare durante lo spettacolo, ma prima. Come ispirazione ho Marina Abramović e la sua performance a Napoli (Rhythm 0, avvenuta nella galleria Studio Morra nel 1974, nda) con tanti oggetti messi a disposizione della gente: in realtà li aveva scelti lei, e poi vedeva le reazioni delle varie persone e come li usavano. Vorrei creare uno spazio così, perché mi piace il pubblico spione, che sta al buio, ma anche quello che partecipa. Il progetto è già tutto là (guarda in alto), e poi a un certo punto lo tirerò giù. Ma giuro che lo farò, anche perché prima dei 50 voglio tornare a ballare. Poi chissà che succede…

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