«Droga, soldi e potere hanno una cosa in comune: creano dipendenza». Michael Peña (Million Dollar Baby, Crash) consegna la grande verità al telefono da New York. 42 anni, è uno dei protagonisti della quarta stagione di Narcos, ambientata nella terra dei suoi genitori, il Messico. Dopo i primi due capitoli dedicati all’epopea di Pablo Escobar, seguiti da un terzo incentrato sui suoi storici rivali di Cali, la serie cult di Netflix – in arrivo il 16 novembre – si trasferisce in Centro America, in un passaggio di testimone tra il vecchio e il nuovo centro di irradiazione del narcotraffico planetario. «L’idea della staffetta c’era sin dall’inizio», spiega Eric Newman, produttore esecutivo e sceneggiatore della serie sin dagli albori. «Tra la fine degli anni ’70 e i primi ’80 nascono partnership e relazioni fruttuose tra Colombia e Messico, fondamentali per la nascita del cartello di Guadalajara».
I nuovi episodi si occupano della genesi molto particolare di questa organizzazione criminale. Il suo boss è Miguel Ángel Félix Gallardo, un ex poliziotto interpretato da Diego Luna (Y tu mamá también, Frida, Milk), capace di riunire tutti i criminali del territorio in un unico clan, che diventa in breve tempo egemone. «A differenza di Escobar, Gallardo unisce a sé ogni possibile rivale: questo li rende inarrestabili», dice Peña. O quasi. A contribuire all’inevitabile caduta del cartello è proprio il personaggio interpretato dall’attore nato a Chicago, Kiki Camarena, «un poliziotto e un uomo di famiglia, che torna nel suo Paese perché capisce che sta succedendo qualcosa di grande». Misurarsi con un prodotto così iconico per lui è stato grandioso. «Ho la fortuna che la serie si chiama Narcos e non “Dea” (l’antidroga americana di cui il suo personaggio fa parte, ndr), per cui c’era un po’ meno pressione su di me». «Se Pablo era il ribelle del popolo e i fratelli Rodriguez dei cinici che trattavano con tutti, Gallardo andò oltre: lui voleva sostituirsi al governo. Solo che si avvicina troppo al sole», spiega Newman.
Ancora una volta è determinante il ruolo degli Stati Uniti. «Questi facevano passare chili di droga ogni giorno attraverso la frontiera, mentre a me fanno storie per una bottiglietta d’acqua», dice, ridendo, Michael Peña. «L’America ha un appetito smisurato per la cocaina e, di conseguenza, enormi responsabilità per il narcotraffico. Ma noi preferiamo da sempre fare i poliziotti del mondo, invece che affrontare davvero le nostre questioni interne», commenta Newman.
Più che in passato, in questa nuova stagione di Narcos guarda al passato per raccontare il presente, incrociando temi attuali come i confini, la violenza e la corruzione. A differenza della Colombia – reduce da un recente boom economico –, la penetrazione dei gruppi criminali lungo il Tropico del Cancro oggi è più forte che mai, simboleggiata dalla figura di quel Chapo Guzmán che in Narcos 4 vediamo in un ruolo inedito. Nel settembre 2017 Carlos Muñoz Portal, location manager della serie, è stato ucciso a colpi di pistola nel comune di Temascalapa, mentre eseguiva sopralluoghi per le riprese.
«Un episodio tremendo, fortunatamente isolato», commenta Newman. «Il Messico è meraviglioso e sconfinato, ci ha fornito set perfetti e qualche problema per i lunghi spostamenti». E Narcos 5 è in programma? «Lo spero tanto. In futuro vorrei occuparmi delle mafie di casa vostra, per quanto fare meglio di Gomorra sia davvero difficile».