Appena entrato nella sua casa-studio, Matteo Garrone mi indica due quadretti accanto alla porta della camera da letto: una storia di Pinocchio a riquadri e fumetti disegnata a 6 anni – «per mamma», aggiunge – e subito sopra un Mangiafuoco “pop” tutto strisce e colori accesi, con una gran barba che si trasforma nel tendone di un circo. Disegnato «per papà», spiega ancora. Cioè Nico Garrone, che faceva il critico teatrale e che, anche adesso che non c’è più, rimane la presenza silenziosa che rende il cinema di Matteo sempre così diverso e avventuroso.
Spostandoci nella stanza occupata per intero da un grande tavolo da disegno, noto una grande pila di libri di Pinocchio di ogni colore e dimensione in cima a un armadio. Chiedo se tra quei libri c’è il “suo” Pinocchio, quello di quand’era bambino. «No, non ho un Pinocchio in particolare, forse perché me lo raccontavano a voce. Mia madre mi leggeva Rodari. E le fiabe le ricordo quasi tutte al cinema». Il Pinocchio di Disney? «Non mi ha mai convinto. Con quel sapore tirolese, gli orologi a cucù nella bottega di Geppetto… Io andavo pazzo per il Robin Hood della Disney. Lo andavo sempre a vedere con mia nonna al cinema Embassy».
Matteo è nato nel 1968. Ha un figlio di 11 anni. Può raccontare Pinocchio con lo sguardo del figlio che è stato e del padre che è. Mi dirà ancora, durante questa conversazione: «Io sono uno che è nato Pinocchio e adesso è Geppetto». Il suo Geppetto è Roberto Benigni, e ha il nome grande grande sui manifesti. Confessa Matteo: «Neanch’io posso dire di avere raccontato veramente Pinocchio a mio figlio. Lui è cresciuto con i film della Pixar alla tv come la maggior parte dei bambini. Ovvio che la sfida di Pinocchio è fare un film come quelli, che possa incantare il pubblico dei bambini e anche quello dei grandi». E poi arriva il ricordo, finalmente trovato: «Quand’ero piccolo, guardavo il film di Comencini e mi identificavo nel desiderio di libertà di Pinocchio».
Il che ci introduce alla messinscena più nota per la generazione di Matteo e di tanti padri di oggi: le cinque puntate per la tv girate nel 1972 da Luigi Comencini con Nino Manfredi, Franco e Ciccio, Gina Lollobrigida furono viste da 21 milioni di spettatori in media a puntata, replicate nel 1982, e restano un punto di paragone. Fin dalla prima scena del Pinocchio di Garrone, la musica sembra citare decisamente quella che Fiorenzo Carpi scrisse per Comencini, che tanti sanno ancora fischiettare a memoria. «Per forza, quella è una delle più belle musiche che siano mai state fatte per il cinema», dice Garrone. «Le nostre sono di Dario Marianelli, che è toscano ma vive a Londra. Anche lui mi ha detto che la prima volta che si è emozionato con delle musiche in un film è stata col Pinocchio di Comencini».
Disegni Pinocchio da quando avevi 6 anni, e nel tuo film continui a disegnarlo. Hai anche spiegato che l’ispirazione visiva del tuo Pinocchio nasce dalla prima edizione del libro del 1892, illustrata da Enrico Mazzanti con disegni forse meno familiari rispetto a quelli che si sono sedimentati nella nostra memoria, disegni che però Collodi ha visto e approvato.
Sì, volevo rispettare l’opera di Collodi, non mi andava di tradire l’anima del racconto. Pinocchio è un personaggio del mio mondo, è vero. Ma c’è anche un lavoro di ricerca durato anni sulle vecchie foto Alinari, sui quadri dei macchiaioli… Certe immagini sono state illuminanti per fare le scene. Poi, inevitabilmente, alcune libertà ce le siamo prese.
Meno di quanto uno si poteva immaginare da te, si può dire?
No, davvero. Nelle prime critiche qualcuno ha scritto che il mio sarebbe un “esercizio scolastico”. Non mi interessa polemizzare, ma ti potrei elencare tutte le invenzioni che ci sono. Il problema è che bisognerebbe conoscere il testo, rileggerlo prima di giudicare. Per esempio, la scena iniziale di Geppetto che va all’osteria è un’aggiunta nostra, il racconto di Collodi comincia con Mastro Ciliegia. Ma anche l’idea che il legno del burattino si consumi nel corso delle sue avventure, e dunque Geppetto lo debba a un certo punto rimettere a posto in una scena d’amore tra padre e figlio, in Collodi non c’è, e a me sembrava bella.
Hai un po’ accorciato la scena del giudice con Pinocchio tra i due carabinieri…
E ho girato e poi tolto la sequenza successiva di Pinocchio che viene messo per punizione a fare il cane da guardia, te la ricordi? Ho evitato anche di mandarlo in prigione, è rimasta solo la scena del giudice completamente reinventata.
L’attore che fa il giudice-gorilla si chiama Teco Celio e regala una performance notevole. Sai cos’è sorprendente e veramente tuo? I personaggi piccoli. Il giudice, la lumaca che assiste la Fatina, il tonno incontrato nel ventre del pescecane…
Il tonno è stato uno dei personaggi preferiti dai bambini durante gli screen test. Però è già nel testo. Anche la battuta «meglio morire sott’acqua che morire sott’olio» è di Collodi.
Vedi, pensavo fosse di Massimo Ceccherini, il tuo co-sceneggiatore.
No, ma Massimo è stato prezioso proprio per alleggerire dei passaggi. In quanto toscano, figlio di quel mondo, e in quanto bambino come me.
Aveva fatto un Lucignolo al cinema e un Pinocchio a teatro con Carlo Monni e Alessandro Paci, toscanissimo e stracult. Anche nella vita è un po’ Lucignolo.
Massimo ha un approccio diretto, senza sovrastrutture intellettuali, e questo è fondamentale per comunicare con un pubblico di piccoli.
Sapevi fin dall’inizio che Pinocchio sarebbe stato un film per i bambini, come genere dico?
Sapevo che doveva essere popolare. Poi non vuol dire che ci si riesca, ma l’obiettivo è arrivare a tutti. Che è un altro modo per rispettare il testo di partenza, popolare e per i bambini. Il secondo obiettivo era far riscoprire al pubblico una storia che tutti noi pensiamo di conoscere, una specie di déjà-vu, ma trovando una chiave che facesse ancora emozionare.
Senza modernizzare niente, tornando a una specie di Ur-Pinocchio, il Pinocchio di tutti i Pinocchi.
Mi sono reso conto, rileggendo il testo, che per essere originali bastava andare indietro nel tempo.
Vedere questa storia anche con gli occhi di Collodi. Lo hai studiato? Che tipo era?
Con Collodi ci saremmo trovati bene, io e Massimo. Gli piaceva il gioco d’azzardo, era sempre squattrinato, ha scritto Pinocchio per soldi pensando che fosse una bambinata. Si sa che nella prima stesura Pinocchio finisce impiccato al quindicesimo capitolo, ma i bambini ci rimangono male, l’editore allora gli dà altri soldi e costringe Collodi a continuare. Tra l’altro lui già lavorava con l’illustratore Mazzanti, quindi per certi versi il primo Pinocchio è quasi un fumetto, uno scrive e l’altro disegna. Io ho cercato di rispettare questo.
Questa conversazione avviene in un luogo davvero curioso. Non credo di svelare segreti, ma da qualche anno lo studio di Matteo, una casetta in cima a un muro di cinta dei vecchi stabilimenti della De Paolis sulla via Tiburtina a Roma, è diventato la sua casa. La De Paolis è stata una mecca per il cinema di genere, i musicarelli e le commedie, fino agli anni ’70 e ’80. Ci ha lavorato anche Fellini, che però una casa-ufficio come quella di Matteo ce l’aveva a Cinecittà, e soprattutto Pasolini. Anche Dario Argento ha usato la De Paolis come quartier generale. Oggi i vicini di casa di Matteo sono le trasmissioni della Rai e de La7, tecnici e smarrite ballerine che aiutano a dare al tutto un tocco di svagata allegria. Accanto alla porta c’è una grande scritta luminosa che mi pare di conoscere: l’insegna di Dogman, il negozio e il film.
Mentre parliamo, due collaboratori di Matteo silenziosamente sono entrati a lavorare in cucina. Intorno, ancora tutto parla di Pinocchio. «Un film come questo si fa in cinque-sei mesi, dopo anni di preparazione, e io ci sono ancora dentro completamente, non ho ancora avuto il tempo di pensare ad altro», mi dice. Due grandi tabelloni a tutta parete, foto, disegni, scene, sono la mappa del film. Matteo mi fa notare un tabellone più piccolo sull’altra parete: è la foto del vecchio cartellone fatto per Dogman. Esce e torna dall’altra stanza con un mazzetto di cartoncini disegnati, lettere con la calligrafia di ragazzini. Screen test.
Tra i disegni c’è il pescecane. I bambini da cent’anni disegnano sempre il pescecane. C’è quello che mostra Pinocchio trasformato in asino, buttato a mare con una pietra al collo, e avvolto da una nuvola di pesciolini. Le lettere: «Caro Matteo Garrone, io immaginavo un Pinocchio come gli altri e invece no, il tuo mi trasportava in un mondo parallelo pur restando sul sedile del cinema». Matteo le legge con un sorriso.
Ma com’è fatto il pescecane?
In digitale l’esterno. L’interno è in studio.
E gli altri effetti?
Sono quasi tutti prostetici, con delle integrazioni in digitale. Federico Ielapi, il bambino che fa Pinocchio, aveva bisogno ogni mattina di quattro ore di trucco. Però il naso che cresce è un effetto digitale. Il tonno ha il volto di un attore truccato (Maurizio Lombardi, nda) e la parte posteriore ricostruita in digitale.
A proposito di Pinocchio, si può dire che è poco “pinocchietto”, come un tempo Fellini chiamava Benigni? Qualcuno degli spettatori ricorderà Andrea Balestri, per tornare a Comencini.
È vero, noi abbiamo immaginato un Pinocchio candido, puro. Oggi siamo grandi e quando eravamo bambini non ci pensavamo, ma quello di Comencini è stato un grande tradimento del testo. Pinocchio è la storia di un burattino che sogna di diventare bambino e lì, per ragioni tecniche, bambino lo era sempre. Un burattino ha mille problemi di rappresentazione. Come fai a far ridere un bambino di legno? Non mi risultano film di Pinocchio in cui c’è sempre il burattino di legno. Oggi abbiamo la fortuna di poterlo fare, e anche questo è un elemento di novità.
Invece non hai rinunciato, mi pare, alla tradizione che fa di Pinocchio un canovaccio teatrale, un’occasione di parodie, ruoli in cui si possono misurare i grandi attori.
Be’, intanto Benigni facendo Geppetto recupera una cosa profonda del suo passato. In conferenza stampa gli chiedevano: «Ma tua madre te lo leggeva Pinocchio?». E lui: «No, mia madre non sapeva leggere». «E tuo padre?». «Mio padre era Geppetto». Vivevano in sei in una stanza, quindi Benigni che fa Geppetto porta le sue origini, fa un viaggio indietro nel tempo. Per me è stata una fortuna enorme poter lavorare con lui, perché viene da quel mondo.
Il Gatto e la Volpe sono una coppia comica collaudata. Li hanno fatti Franco e Ciccio, ora Papaleo e Ceccherini.
C’è un gioco molto sottile tra loro. Il Gatto è il killer, l’uomo d’azione, mentre la Volpe ha una capacità affabulatoria, delega tutto alla parola. La parola “stuzzichino”, lo spuntino che cercano sempre perché hanno una fame atavica, è un’invenzione di Massimo.
Anche la Fatina è un personaggio difficile, a rischio delusione.
Non ricordavo che all’inizio del racconto la Fatina è una bambina morta, cioè un fantasma che abita in una casa spettrale e abbandonata. Quando Collodi la inventa, mette in un bosco alla Edgar Allan Poe questo spettro che dice a Pinocchio: «Non ti posso aprire, perché sono morta», e non credo avesse in mente la Fatina della stesura finale. Quando invece deve andare avanti con il racconto, si ricorda di quella bimba che può salvare Pinocchio. Da lì nasce la Fatina materna, ma all’inizio è una sorellina, una compagna di giochi, e questo ha molto colpito i bambini che hanno già visto il film.
Geppetto e la Fatina. Genitore 1 e genitore 2. Com’è giusto che sia. E la maledizione di Pinocchio? Spielberg buttò via 100 milioni di dollari per fare la storia che piaceva a Kubrick, A.I. – Intelligenza artificiale. E sul flop di Roberto Benigni nel 2002 (coi Fichi d’India a fare il Gatto e la Volpe) meglio sorvolare. Nel 1994 i 20 miliardi di lire dati a Francesco Nuti per Occhiopinocchio ne fecero solo quattro al botteghino. Il Pinocchio di Garrone ha un budget di 11 milioni di euro. Non sarà poco per un film di tante ambizioni? Già si annuncia il Pinocchio dark (e forse persino adulto) di Guillermo del Toro, in stop motion, ambientato durante il fascismo italiano.
Matteo non si sottrae: «Quella della maledizione è una storia interessante, almeno per uno che ha una vocazione sadomaso come me. Come andare a fare un giro nel triangolo delle Bermuda. Però mi conforta sapere che qualcuno ce l’ha fatta, come Comencini. Sono tranquillo, semmai mi preoccupo che una parte di pubblico possa temere un Pinocchio dark per via degli altri film miei. Garrone uguale Gomorra». Ma Gomorra è un po’ Pinocchio, lo interrompo. Tutte le storie in cui c’è un bambino che cresce sono un po’ Pinocchio. «Scherzi? Per me Gomorra era una fiaba nera. Nel finale, i corpi di Marco e Ciro che vengono alzati da una pala della ruspa sembrano due burattini».
Finiamo qua. Prima di salutarci, però, Matteo mi regala una rivelazione che fa al caso nostro. «Dario Marianelli ha fatto delle musiche per me perfette, totalmente al servizio del film. Prima di lui avevo sentito Jonny Greenwood dei Radiohead. Siccome stavo già girando, gli ho fatto vedere delle immagini del film. Purtroppo non c’era tempo, lui aveva dei concerti importanti, si sarebbe liberato troppo tardi. Per accorciare, mi aveva anche proposto una strada elettronica per l’orchestra. Ma non sarebbe stata quella giusta».